Il progetto di risoluzione che la Gran Bretagna ha presentato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per inasprire le sanzioni contro la Siria ha ricevuto il benestare degli Stati Uniti d'America e, limato rispetto alla bozza originale, non dovrebbe incontrare il veto della Cina e della Russia.
Questa la situazione internazionale, mentre la Turchia annuncia che sono almeno 1600 i profughi che hanno attraversato il confine in fuga dai combattimenti in Siria, dopo quelli che lo hanno fatto in Libano. Secondo le fonti dell'opposizione, dall'inizio dei moti insurrezionali contro il governo di Bashar al-Assad sono più di mille le vittime delle violenze di esercito, corpi speciali e polizia siriane.
L'opinione pubblica internazionale empatizza con i rivoltosi siriani, ma come in tutti i casi nei quali alla ragione si avviluppa l'emotività, sono molti i fatti (o presunti tali) che in questa rivolta siriana lasciano perplessi. Per cominciare, bisogna essere molto chiari su due punti. Il primo: il regime degli Assad è liberticida, avendo per decenni compresso i diritti degli oppositori e dei normali cittadini. Il secondo: la gente in Siria muore.
Bisogna capire, però, quali dinamiche si sono innescate in Siria. Interne ed esterne. Perché in tanti hanno interesse a destabilizzare il regime di Assad, esponente della minoranza religiosa degli alauiti, vicini agli sciiti. Vicino, anche e soprattutto, all'Iran e ad Hezbollah, in Libano. Nel 2008, con la nascita dell'Unione del Mediterraneo a Parigi, il presidente francese Nicholas Sarkozy offrì ad Assad la via maestra per abbandonare l'alleanza con Teheran e per una piena reintegrazione nel blocco occidentale.
Assad, dopo il tracollo dell'influenza siriana in Libano successivo all'omicidio dell'ex premier libanese Rafiq Hariri nel 2005, dopo il bombardamento di un edificio in Siria che l'intelligence israeliana riteneva essere un sito nucleare, si trovava in una situazione di estrema debolezza, con il Tribunale Onu per l'omicidio Hariri che si annunciava un atto d'accusa al presidente e al suo clan. In quella fase, Assad pareva ormai deciso a mollare l'Iran ed Hezbollah al loro destino. In un secondo momento, però, questo meccanismo si è inceppato.
Ecco che il risveglio dei popoli arabi, dalla Tunisia all'Egitto, è diventato un detonatore per decine di paesi dal Marocco all'Iraq. Moti più o meno appoggiati da Usa, Ue e Onu. Questo, però, non stupisce. Da troppo tempo le violazioni dei diritti umani trovano un'attenzione differente a Washington o a Bruxelles a seconda delle agende politiche di Usa e Ue. L'embargo criminale di Gaza o il massacro degli sciiti in Bahrein non conta come la protezione dei civili in Libia. Le accuse a uno stato 'canaglia' - come lo definì l'ex presidente Usa George W. Bush - non colgono nessuno di sorpresa. Bisogna capire, però, se questi moti in Siria siano totalmente interni o no.
L'ultimo mistero, in ordine di tempo, riguarda Amina Abdallah Araf, blogger siro-statunitense lesbica. Sua cugina ha postato, il 6 giugno scorso, un appello a tutti: l'hanno presa i servizi segreti siriani. Una mobilitazione - più che leggittima - è partita in tutto il mondo. Tutti colpiti dalla sua storia, dalla sua splendida foto. Peccato che la persona ritratta pare non essere lei.
A dirlo testate importanti: The Atlantic, The New York Times, il Wall Street Journal, e giornalisti autorevoli, come Andy Carvin della Npr, la radio pubblica Usa. Nessun giornalista è mai riuscito a incontrare di persona Amina. Nessuno che l'abbia incontrata s'è fatto vivo con i media, che pure stanno coprendo la storia. Una donna canadese, Sandra Bagaria, che aveva detto alla Bbc, al New York Times e ad al-Jazeera di essere amica di Amina, ha poi ammesso di non averla mai incontrata dal vivo.
La Cnn intervistò Amina, ma solo via mail. Carvin ha detto di essere stato contattato da una lesbica siriana che dice che Amina, in realtà, non esiste: sarebbe solo un nome d'arte. La foto apparsa sui media sarebbe di una donna inglese, Jelena Lecic. E dal momento dell'apparizione della smentita sull'autenticità dell'immagine in poi, sulla pagina Facebook sono sparite tutte le foto di Amina-Jelena.
Un altro elemento, silenziato dai media in questo caso, sono le dimissioni di personaggi autorevoli del giornalismo all news panarabo. Che al-Jazeera e al-Arabyia stiano sposando fino in fondo le rivoluzioni arabe non è un mistero. Che per farlo, come nel caso della Siria, arrivino a manipolare o forzare certe cifre e certi fatti (le fosse comuni, ad esempio, che appaiono e scompaiono in un baleno dai notiziari) è un altro conto. Questo pensano Zeina al-Yaziji, inviata di al-Arabiya in Siria, Abdel Harid Tawfiq, direttore della sede di Damasco di al-Jazeera e Gassam Ben Jidada dell'ufficio di Beirut di al-Jazeera. Tutti dimissionari, accusando i loro network di dare notizie esagerate e non controllate. Hanno subito pressioni a Damasco? Può essere, ma allora perché non hanno ritrattato una volta usciti dal Paese?
Un elemento di differenza, ad esempio, rispetto a Tunisi e il Cairo è la partecipazione di Damasco. Quasi assente dai moti. I centri della rivolta continuano a essere Homs, Deraa, Banias...cittadine al confine con Libano e Giordania, a maggioranza sunnita. L'infiltrazione da parte dell'Arabia Saudita, nemico giurato dell'Iran, di miliziani armati per destabilizzare il regime di Assad non può essere esclusa da nessuno che faccia il mestiere di giornalista. Perché la verifica è impossibile, a causa dell'ottusità del governo siriano, che non rilascia visti proprio nel momento in cui avrebbe tutto l'interesse a dimostrare l'eventuale complotto internazionale.
Questo, però, non autorizza i media internazionali a seguire l'agenda politica di qualcuno. Né a Damasco né all'estero. Restano per ora i dubbi (ad esempio, a Deraa, all'inizio delle proteste, perché mandare i 'cecchini' ai funerali delle vittime dopo aver rimosso il governatore colpevole della repressione?) e la sensazione che, in Siria come in Libia, le rivoluzioni siano meno chiare nelle loro dinamiche - pur complesse - di quelle in Tunisia, Egitto, Yemen. Di certo, per ora, è che in questa parte di mondo accadono fatti epocali. E sono in tanti quelli che vogliono scrivere un paragrafo.
Fonte.
Questa la situazione internazionale, mentre la Turchia annuncia che sono almeno 1600 i profughi che hanno attraversato il confine in fuga dai combattimenti in Siria, dopo quelli che lo hanno fatto in Libano. Secondo le fonti dell'opposizione, dall'inizio dei moti insurrezionali contro il governo di Bashar al-Assad sono più di mille le vittime delle violenze di esercito, corpi speciali e polizia siriane.
L'opinione pubblica internazionale empatizza con i rivoltosi siriani, ma come in tutti i casi nei quali alla ragione si avviluppa l'emotività, sono molti i fatti (o presunti tali) che in questa rivolta siriana lasciano perplessi. Per cominciare, bisogna essere molto chiari su due punti. Il primo: il regime degli Assad è liberticida, avendo per decenni compresso i diritti degli oppositori e dei normali cittadini. Il secondo: la gente in Siria muore.
Bisogna capire, però, quali dinamiche si sono innescate in Siria. Interne ed esterne. Perché in tanti hanno interesse a destabilizzare il regime di Assad, esponente della minoranza religiosa degli alauiti, vicini agli sciiti. Vicino, anche e soprattutto, all'Iran e ad Hezbollah, in Libano. Nel 2008, con la nascita dell'Unione del Mediterraneo a Parigi, il presidente francese Nicholas Sarkozy offrì ad Assad la via maestra per abbandonare l'alleanza con Teheran e per una piena reintegrazione nel blocco occidentale.
Assad, dopo il tracollo dell'influenza siriana in Libano successivo all'omicidio dell'ex premier libanese Rafiq Hariri nel 2005, dopo il bombardamento di un edificio in Siria che l'intelligence israeliana riteneva essere un sito nucleare, si trovava in una situazione di estrema debolezza, con il Tribunale Onu per l'omicidio Hariri che si annunciava un atto d'accusa al presidente e al suo clan. In quella fase, Assad pareva ormai deciso a mollare l'Iran ed Hezbollah al loro destino. In un secondo momento, però, questo meccanismo si è inceppato.
Ecco che il risveglio dei popoli arabi, dalla Tunisia all'Egitto, è diventato un detonatore per decine di paesi dal Marocco all'Iraq. Moti più o meno appoggiati da Usa, Ue e Onu. Questo, però, non stupisce. Da troppo tempo le violazioni dei diritti umani trovano un'attenzione differente a Washington o a Bruxelles a seconda delle agende politiche di Usa e Ue. L'embargo criminale di Gaza o il massacro degli sciiti in Bahrein non conta come la protezione dei civili in Libia. Le accuse a uno stato 'canaglia' - come lo definì l'ex presidente Usa George W. Bush - non colgono nessuno di sorpresa. Bisogna capire, però, se questi moti in Siria siano totalmente interni o no.
L'ultimo mistero, in ordine di tempo, riguarda Amina Abdallah Araf, blogger siro-statunitense lesbica. Sua cugina ha postato, il 6 giugno scorso, un appello a tutti: l'hanno presa i servizi segreti siriani. Una mobilitazione - più che leggittima - è partita in tutto il mondo. Tutti colpiti dalla sua storia, dalla sua splendida foto. Peccato che la persona ritratta pare non essere lei.
A dirlo testate importanti: The Atlantic, The New York Times, il Wall Street Journal, e giornalisti autorevoli, come Andy Carvin della Npr, la radio pubblica Usa. Nessun giornalista è mai riuscito a incontrare di persona Amina. Nessuno che l'abbia incontrata s'è fatto vivo con i media, che pure stanno coprendo la storia. Una donna canadese, Sandra Bagaria, che aveva detto alla Bbc, al New York Times e ad al-Jazeera di essere amica di Amina, ha poi ammesso di non averla mai incontrata dal vivo.
La Cnn intervistò Amina, ma solo via mail. Carvin ha detto di essere stato contattato da una lesbica siriana che dice che Amina, in realtà, non esiste: sarebbe solo un nome d'arte. La foto apparsa sui media sarebbe di una donna inglese, Jelena Lecic. E dal momento dell'apparizione della smentita sull'autenticità dell'immagine in poi, sulla pagina Facebook sono sparite tutte le foto di Amina-Jelena.
Un altro elemento, silenziato dai media in questo caso, sono le dimissioni di personaggi autorevoli del giornalismo all news panarabo. Che al-Jazeera e al-Arabyia stiano sposando fino in fondo le rivoluzioni arabe non è un mistero. Che per farlo, come nel caso della Siria, arrivino a manipolare o forzare certe cifre e certi fatti (le fosse comuni, ad esempio, che appaiono e scompaiono in un baleno dai notiziari) è un altro conto. Questo pensano Zeina al-Yaziji, inviata di al-Arabiya in Siria, Abdel Harid Tawfiq, direttore della sede di Damasco di al-Jazeera e Gassam Ben Jidada dell'ufficio di Beirut di al-Jazeera. Tutti dimissionari, accusando i loro network di dare notizie esagerate e non controllate. Hanno subito pressioni a Damasco? Può essere, ma allora perché non hanno ritrattato una volta usciti dal Paese?
Un elemento di differenza, ad esempio, rispetto a Tunisi e il Cairo è la partecipazione di Damasco. Quasi assente dai moti. I centri della rivolta continuano a essere Homs, Deraa, Banias...cittadine al confine con Libano e Giordania, a maggioranza sunnita. L'infiltrazione da parte dell'Arabia Saudita, nemico giurato dell'Iran, di miliziani armati per destabilizzare il regime di Assad non può essere esclusa da nessuno che faccia il mestiere di giornalista. Perché la verifica è impossibile, a causa dell'ottusità del governo siriano, che non rilascia visti proprio nel momento in cui avrebbe tutto l'interesse a dimostrare l'eventuale complotto internazionale.
Questo, però, non autorizza i media internazionali a seguire l'agenda politica di qualcuno. Né a Damasco né all'estero. Restano per ora i dubbi (ad esempio, a Deraa, all'inizio delle proteste, perché mandare i 'cecchini' ai funerali delle vittime dopo aver rimosso il governatore colpevole della repressione?) e la sensazione che, in Siria come in Libia, le rivoluzioni siano meno chiare nelle loro dinamiche - pur complesse - di quelle in Tunisia, Egitto, Yemen. Di certo, per ora, è che in questa parte di mondo accadono fatti epocali. E sono in tanti quelli che vogliono scrivere un paragrafo.
Fonte.
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