I colpi di mortaio martellano le strade intorno a noi e un carro
armato T-72 seminascosto sotto un viadotto, ma il comandante in capo
delle forze militari di Assad ad Aleppo – un generale
di 53 anni con 33 anni di servizio e due ferite di pallottola ricordo
della battaglia di Damasco del mese scorso – sostiene di essere in grado
di “ripulire” dai “terroristi” tutta la provincia di Aleppo in 20
giorni. Una affermazione che prendo con il beneficio di inventario in
particolare per quanto riguarda il quartiere di Saif el-Dowla dove il fuoco dei cecchini è incessante. Insomma, la battaglia di Aleppo è lungi dall’essere finita.
Strana sensazione quella di trovarmi in una abitazione privata a colloquio con i generali siriani accusati dai leader occidentali di essere criminali di guerra.
Mi trovo, per così dire, nel “covo del nemico”, ma il generale,
incredibilmente alto e con un’incipiente calvizie, ha molto da dire
sulla guerra che stanno combattendo e sul disprezzo per i nemici. Il
generale, che si rifiuta di dirmi come si chiama, li definisce “topi”.
“Ci sparano, poi scappano e si nascondono nelle fogne. Sono stranieri:
turchi, ceceni, afgani, libanesi, sudanesi”. ‘E i siriani?’, domando.
“Sì, anche siriani, ma si tratta di contrabbandieri e delinquenti
comuni”, mi risponde.
Chiedo informazioni sulle armi dei ribelli.
“Prenda questa”, mi dice il generale allungandomi una ricetrasmittente
presa due giorni prima ad un combattente turco a Seif el-Dowla, a poche
centinaia di metri da dove ci troviamo. “Mohamed, mi senti? Abdul
Hassan, mi senti?”, gracchia la radio e gli ufficiali siriani scoppiano a
ridere ascoltando la voce del nemico che magari si trova nello stesso
palazzo. “Questa ricetrasmittente era in possesso di un terrorista di
nazionalità turca come risultava dal documento in suo possesso”, mi dice
il generale. Il “terrorista” si chiamava Remziye Idris Metin Ekince,
nato a Bingol, Turchia, il 1° luglio 1974, di religione musulmana.
Finalmente il nome di uno dei misteriosi “stranieri” che secondo i membri del partito Baath
costituiscono l’ossatura dei gruppi di ribelli con cui ha a che fare
l’esercito siriano. Frugando tra le armi – tutte sottratte al nemico
nell’ultima settimana, mi garantiscono gli ufficiali – vedo confezioni
di esplosivi di fabbricazione svedese del 1999, ma con la dicitura “made
in Usa”, un fucile di fabbricazione belga, numerose bombe a mano di
provenienza incerta, un fucile di precisione russo, una pistola da 9mm
di fabbricazione spagnola, una vecchia pistola automatica, una
mitragliatrice sovietica del 1948, una serie di lanciamissili e
lanciagranate di fabbricazione russa e una cassa di medicinali.
“Ogni
gruppo di terroristi dispone di una ambulanza da campo”, mi dice un
ufficiale dei servizi segreti. “Rubano i medicinali dalle nostre
farmacie, ma dispongono anche di altre fonti di approvvigionamento”. È
vero. Trovo infatti analgesici libanesi, bende pakistane e molti farmaci
provenienti dalla Turchia. Sarebbe interessante sapere a chi hanno
originariamente venduto le armi le fabbriche spagnole, svedesi e belghe.
Mi fanno vedere una carta di credito Visa il cui titolare è un certo
Ahed Akrama, una carta d’identità siriana scaduta a nome Widad Othman –
“rapito dai terroristi”, mi dice a bassa voce un altro ufficiale – e
migliaia di munizioni. Il generale conviene che le armi possono essere
state sottratte ai soldati siriani morti o fatti prigionieri. “Sì è
vero”, dice il generale. “I disertori esistono, ma si tratta di soldati
risultati inidonei ai test e che erano rimasti nell’esercito solo per la
paga”.
Non è difficile capire come si stanno sviluppando i
combattimenti ad Aleppo. Camminando in strada per oltre un’ora con una
pattuglia siriana, mi rendo conto che i cecchini sparano dalle case e
poi spariscono. Un soldato della pattuglia viene centrato da un cecchino
appostato sul minareto della moschea di El-Houda. Il quartiere di Salaheddine
è stato “liberato”, mi dice un ufficiale siriano, e anche il quartiere
di Seif el-Dowla è stato quasi completamente ripulito, “con l’eccezione
di un paio di isolati”, precisa.
Almeno una dozzina di civili
escono dalle loro case e, ignari della presenza di un giornalista
straniero, abbracciano i soldati siriani. Uno mi dice che è rimasto
chiuso in casa perché i combattenti “stranieri” sparavano alle truppe
governative dal suo giardino. “Io parlo turco e la maggior parte di loro
parlavano turco. Altri però avevano lunghe barbe e pantaloni corti come
quelli dei sauditi e parlavano arabo con uno strano accento”.
Sono talmente tanti i civili siriani che – lontano dai soldati – mi parlano di “stranieri” armati accanto a siriani “delle campagne”,
che deve esserci del vero nell’affermazione del regime secondo cui nel
Paese sono presenti numerosi combattenti di nazionalità non siriana.
Mentre in alcune zone della città la vita sembra proseguire normalmente
con qualche colpo di mortaio in lontananza, in altri quartieri decine
di migliaia di cittadini sono stati costretti ad abbandonare le loro
case e ora dormono nella casa dello studente dell’università.
Tornando in centro mi imbatto in cinque soldati stanchissimi e con gli occhi arrossati in compagnia di un civile di nome Badredin.
È stato lui ad avvertire i soldati della presenza di “10 terroristi” in
via Al-Hattaf. L’esercito è prontamente intervenuto e alcuni ribelli
sono stati uccisi. “Gli altri sono scappati”, dice Badredin. Più tardi
il generale mi annuncia che sta iniziando un grosso scontro a fuoco in
un quartiere dove sorgono una moschea e una scuola cristiana e dove si
sono barricati numerosi “terroristi”. “L’esercito siriano non uccide i
civili” – mi dice il generale. “Siamo qui per proteggerli. Cerchiamo di
far allontanare i civili prima di aprire il fuoco”.
Mentre mi
allontano mi passa accanto un giovane che cerca di raggiungere casa sua
per vedere se è ancora in piedi. Ha una maglietta con una citazione di George Barnard Show: “Vedi le cose e dici ‘Perché?’. Ma io sogno cose che non sono mai esistite e dico ‘Perché no?’”. Niente male per Aleppo.
Fonte
C'è voluta una traduzione dall'Indipendent a firma di Fisk per portare anche sulla stampa italiana l'altra faccia della medaglia siriana.
In questi casi si direbbe "meglio tardi che mai", nello specifico si potrà fare un'affermazione simile solo a posteriori quando sarà chiaro se anche la Siria diverrà un nuovo Libano o Libia che dir si voglia.
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