"Molte cose andarono storte. Ma cinque debolezze in particolare
hanno provocato il disastro. Esse sono: la cattiva distribuzione dei
redditi, la debolezza delle imprese, la fragilità del sistema bancario,
la pessima bilancia commerciale, la povertà del pensiero degli
economisti".
Sono parole del 1955. Le scrisse il grande economista John Kenneth Galbraith,
nel suo libro "La grande crisi del 1929". Queste parole, con la loro
involontaria analogia rispetto alla situazione attuale, ci confermano il
pensiero di Hegel: "Ciò che l'esperienza e la storia insegnano è
questo: che uomini e governi non hanno mai imparato nulla dalla storia,
né mai agito in base a principi da essa edotti". Diversamente, politici
ed economisti avrebbero già realizzato una Bretton Woods del
capitalismo finanziario. Ma così non è stato.
Purtroppo, fino a quando questo non verrà fatto siamo destinati ad
avvitarci in crisi finanziarie ripetute, con effetti negativi
sull'occupazione e per le tasche della gente. Sì, perché il punto è che
il capitalismo finanziario sregolato e ipertrofico produce
disoccupazione e povertà, mentre arricchisce indecentemente i suoi
protagonisti. Il 55% di disoccupazione giovanile in Spagna, il 36% in
Italia, sono tassi di disoccupazione post-bellici.
A una disoccupazione in crescita si aggiunge una disuguaglianza
socio-economica in aumento, provocata dalle continue manovre
finanziarie draconiane dei governi, messi con le spalle al muro dagli
speculatori. Ma il 2012 è peggio del 1929. Nel '29 non c'erano i
computer per muovere masse enormi di denaro sui mercati finanziari nello
spazio di un secondo, né c'era la possibilità di investire in
"scommesse" (derivati) con le garanzie misere (massimo il 10%) che oggi
si richiedono agli speculatori, né c'erano i famosi CDS (Credit Default
Swap) "completamente svincolati" dai relativi titoli di stato: vale a
dire CDS acquistabili anche da parte di coloro che non ne possiedano il
titolo obbligazionario. In pratica, come se qualcuno potesse stipulare
l'assicurazione sulla vita di una persona senza essere quella persona.
Il che, evidentemente, è una sorta d'incitazione all'omicidio. Il punto è
di principio: perché si è permesso che uno strumento, concepito per
assicurarsi contro il rischio di fallimento da parte di coloro che
possedevano titoli di uno stato, fosse trasformato in un mercato libero
delle scommesse in cui è lecito puntare sul fallimento di quello stato?
Quello che manca nel dibattito sulla crisi europea è
una chiara azione, concertata a livello internazionale, per il
ridimensionamento dell'uso degli strumenti speculativi come i derivati o
i CDS. Fino a quando quest'azione non sarà compiuta, vivremo il
paradosso di paesi messi con le spalle al muro da una pressione
speculativa senza freni né limiti, che li costringe a piani di rientro
del debito così ingenti nell'entità, e così accelerati nella tempistica,
da tradursi in riduzioni del PIL le quali, a loro volta, aumentano il
rapporto debito/PIL di quei paesi.
E siamo da capo, solo più poveri e arrabbiati. Il buon senso esigerebbe una constatazione: non si cambiano i fondamentali dell'economia reale in poche settimane,
ci vogliono alcuni anni. Mentre questa speculazione selvaggia
(s)ragiona in mezza giornata. Bene: se non possiamo abolirla (che
sarebbe l'optimum) almeno ridimensioniamola. Staremmo tutti meglio, e
potremmo rientrare in modo fisiologico e graduale sul debito,
accompagnando i tagli e le efficienze necessarie allo scopo con
investimenti in innovazione e nuove imprese in grado di aumentare il
tasso di occupazione e il benessere della gente. Certo, nella situazione
che stiamo vivendo non aiuta l'ortodossia di buona parte degli
economisti, i quali continuano a parlare di mercati razionali (!). Ma
cosa c'entra la razionalità? Qui occorre parlare di mercati regolati
bene o di mercati regolati male. Questo solo conta. Quando il
governatore della BCE Mario Draghi ha dichiarato che si è "pronti a
tutto per salvare l'EURO", e questo ha determinato un'immediata e
rilevante discesa degli spread di Italia e Spagna, qualcuno ha scritto
su Corriere della Sera che questa è la nuova maniera di
governare l'economia, orientando le attese a livello psicologico degli
investitori. Ma scherziamo? E secondo questo qualcuno noi in che mondo
dovremmo vivere? In un mondo nel quale ci alziamo la mattina
preoccupandoci di cosa penseranno trader e speculatori del nostro futuro
di nazione?.
Beh aboliamo il loro, di futuro, e potremo finalmente ricostruire il nostro.
Detto questo, dal dibattito chiassoso che si compie ogni giorno sul
tema "EURO salvo - EURO in rovina", e sue possibili conseguenze,
accompagnato dall'ossessiva litania tedesca sul necessità del rientro
del debito da parte dei PIIGS, sono assenti le riflessioni che veramente
contano. Primo: la doverosa constatazione che il rientro del debito
pubblico da parte dei paesi viziosi è sì da compiersi, ma che i mercati
drogati dalla troppa speculazione stanno esigendo percorsi di riduzione
troppo veloci e quindi dannosi e depressivi, mentre nell'interesse di
tutti questi rientri andrebbero programmati su periodi più lunghi. Nel
frattempo, bisognerebbe imbrigliare la speculazione aumentando le somme
minime a copertura delle "puntate" degli scommettitori finanziari, e
vietare quelle vere e proprie bische che sono i mercati dei CDS (credit
default swaps) svincolati dai titoli di credito. Secondo: la ancora più
doverosa constatazione della vergogna di un'Europa tutta che, con la
sola eccezione dei paesi scandinavi, vede crescere costantemente il
proprio tasso di diseguaglianza economico-sociale e, in parallelo,
diminuire il tasso di occupazione e la mobilità sociale.
La riduzione della diseguaglianza e l'aumento del tasso
di occupazione, accompagnati da sistemi economici che consentano a chi è
nato povero di diventare benestante nell'arco della vita grazie al
proprio merito e lavoro, dovrebbero essere i temi al centro dell'agenda
europea, non la crescita. A questo proposito, occorre sfatare il mito
che l'occupazione non potrebbe crescere, e la disuguaglianza ridursi,
senza crescita. Non è vero. Nuove politiche fiscali, che tassassero di
più le rendite e i patrimoni e di meno il profitto e il lavoro,
ridurrebbero la disuguaglianza e aumenterebbero il tasso di occupazione
anche in uno scenario di crescita zero. In un bellissimo articolo
dell'Herald Tribune di qualche tempo fa, si faceva rilevare come un
sistema economico sano non dovrebbe consentire ai ricchi di diventare
dei "rent seekers".
La perpetuazione dei grandi patrimoni senza che questi
corrano veri rischi imprenditoriali (e quindi senza investire in impresa
e lavoro) non è un bene per l'economia, ma un male. A livello mondiale
in pratica oggi esiste un sistema organizzato fatto di paradisi fiscali,
e relativa elusione fiscale, che realizza questa perpetuazione. Esso,
insieme con l'eccesso di speculazione consentita, forma un capitalismo
esclusivo che premia troppo i ricchi, e crea crescente disoccupazione e
povertà per tutti gli altri. Terzo, manca una riflessione condivisa, al
centro dell'agenda politica ed economica internazionale, per rispondere
alla domanda essenziale: "quale forma di capitalismo adottare per il
nostro futuro e per il nostro benessere?".
E qui occorre dire, in modo forte e chiaro, che chi si è in questi anni
arrischiato a sottolinearne la necessità è stato prontamente etichettato
come, a seconda dei casi, disfattista o comunista. Per essere poi
liquidato con battute come: "il capitalismo è la peggiore forma di
economia che abbiamo, ma è l'unica possibile" (parafrasando, sic, Winston Churchill
con la sua famosa battuta sulla democrazia). Batture che dimostrano, in
capo a chi le pronuncia, di non aver capito né Churchill né il nostro
attuale problema. Perché la battuta di Churchill deriva da una
constatazione storicamente "robusta": tremila anni di storia politica
conosciuta provano che le dittature non possono essere alternative alle
democrazie. Mentre la crisi del capitalismo attuale è la crisi di un
modello che ha solo duecento anni di storia alle spalle. Se poi lo
valutiamo nella forma del capitalismo finanziario attuale, appena
quaranta.
Vale a dire troppo poco tempo per farci arrivare a dire che quello
attuale è l'unico capitalismo possibile. E invece questo è quello che,
sotto sotto, connota ancora la real politik e l'ortodossia economica
dominanti: l'idea che questo capitalismo sia il "meno peggio"
e che vi sia una sorta di inevitabilità in quello che stiamo vivendo.
Nossignori. Questo tipo di capitalismo non funziona. Perciò cambiamolo.
Il che non significa affatto, come cantano molte sirene (altrettanto
idiote), che il capitalismo sia morto. Significa che dobbiamo
interrogarci, e sarebbe meglio che lo facessimo in fretta, su quale
forma dovrebbe avere il capitalismo del futuro. Per darci una risposta
che avrebbe, già di per sé, il beneficio di restituirci una prospettiva
per l'avvenire. In questa nostra ricerca di una risposta non è un
dettaglio trascurabile e, anzi, ne rappresenta un requisito
fondamentale, il darci delle priorità. Occorre che ci domandiamo che
cosa viene prima, e che cosa viene dopo. Vogliamo favorire il profitto
da innovazione o la rendita da speculazione?
Vogliamo tutelare la dignità e il lavoro oppure subordinarli,
sempre e comunque, alla massimizzazione del profitto "costi quello che
costi". Perché chi scrive ha visto, una sera del 2005, lo sguardo
umiliato di un gruppo di donne cinesi che, vestite tutte uguali con
delle tute da lavoro sporche e lacere, attendevano in fila che venisse
dato loro un martello a testa, per spaccare a mano le strade da
riasfaltare nel mezzo di una delle più grandi citta cinesi, Chongqing.
Perché chi scrive ha visto, giorni fa in televisione, lo stesso sguardo
umiliato negli occhi degli operai dell' ILVA di Taranto, che si sentono
burattini di un gioco più grande di loro e che viene deciso senza di
loro. Perché chi scrive non può non notare, come oggi un operaio
italiano guadagni 1.000 euro al mese e uno cinese 200.
Vale a dire, fatte le debite proporzioni in termini di costo della vita e
relativo potere d'acquisto in Italia e in Cina, lo stesso stipendio. E
chi scrive allora pensa, che il capitalismo del futuro dovrebbe mettere
la dignità dell'uomo e il suo lavoro allo stesso livello, e con
altrettanto potere contrattuale, rispetto al profitto. Non al di sotto. E
se qualcuno ancora sostiene che in realtà il capitalismo sregolato e
globalizzato di questi ultimi venti anni è stato un bene, adducendone a
dimostrazione il fatto che l'operaio cinese (neanche tutti poi, ma solo
alcuni) possa arrivare a guadagnare 200 euro al mese, beh allora quel qualcuno dimostra di non avere capito proprio nulla.
Dimostra di non vedere come la globalizzazione si sia in pratica
tradotta in uno "squeezing globale" del reddito da lavoro, a esclusivo
vantaggio del reddito da capitale. Alla fine del grande trasferimento a
oriente della produzione europea, a dieci anni dall'entrata della Cina
nel WTO, lo stipendio dell'operaio italiano e quello del suo
corrispondente cinese ci restituiscono una comune povertà redistribuita
su scala globale, per il reddito da lavoro. Eppure, la disinformazione e
la superficialità dominano.
Ancora alcune settimane or sono, sul Corriere della Sera,
qualcuno ha scritto che in Europa dovremmo ispirarci al vecchio
proverbio di Deng Xiao Ping secondo il quale "non è importante il colore
del gatto, ma è importante che acchiappi il topo". Insomma: il fine
giustifica i mezzi in salsa cinese. Non ci siamo. Sono questa amoralità,
questo pensiero convenzionale secondo il quale in fondo i mercati sono
comunque razionali, e si regolano da soli, che ci hanno portato a questo
disastro economico e sociale. Ed è davvero incredibile come, ancora
oggi, si continui a pensare che le dimostrazioni delle persone a Madrid o
quelle di Occupy Wall Street a New York siano soltanto
rigurgiti di comunismo di piazza, o proteste di lavoratori che non
vogliono perdere privilegi ormai insostenibili nel grande gioco spietato
del capitalismo finanziario. Se andiamo avanti a pensarla in questo
modo, non ascoltando queste proteste che sono invece figlie di
un'economia reale bistrattata dalla finanza, e di una cittadinanza
vittima designata e carne da macello fiscale dei disastri che combinano i
banchieri, senza rispondervi con un progetto nuovo di economia e di
società, saremo destinati a veder degenerare questa protesta in
violenza. Il che, davvero, non è augurabile.
Dobbiamo invece ribaltare la nostra prospettiva attuale
e andare al cuore del problema, per risolverlo. Problema che risiede
essenzialmente nel nostro credere che anteporre l'uomo al profitto sia
inefficiente, mentre è vero il contrario. Perché creando un'economia in
cui l'uomo viene mercificato, si determina un contesto talmente spietato
da indurre nella collettività stessa la mancanza di una vera speranza
per l'avvenire. E un'economia senza futuro, che vive unicamente il
presente senza investire per gli anni che verranno, è non solo triste e
becera, ma anche profondamente inefficiente. Lo aveva già capito oltre
quarant'anni fa un grande economista, Ernst Friedrich Schumacher, il
quale scriveva: "Qual è il significato di democrazia, libertà, dignità
umana, tenore di vita, autorealizzazione, appagamento? E' una questione
di beni o di persone? Certamente, è una questione di persone".
Quindi, se il capitalismo è prima di tutto una questione di persone, e
la dignità dell'uomo non è merce negoziabile, allora il capitalismo non
può che essere inclusivo di tutti gli uomini. Deve essere l'opposto, per
intenderci, di questo capitalismo esclusivo che permette l'accumulo di
ricchezze tanto immense da diventare quasi irrealistiche, nella loro
entità. Ricchezze in grado di acquistare per capriccio quadri da 200 milioni di dollari
ciascuno, mentre nella sola città di New York vi sono quarantamila
(quarantamila!) "senza tetto". Ma quali sono le condizioni che un nuovo
capitalismo dovrebbe soddisfare, per essere inclusivo? In primo luogo,
si dovrebbero favorire fiscalmente il profitto d'impresa e il reddito da
lavoro, e penalizzare con tasse più elevate le rendite di qualsiasi
tipo (finanziario, immobiliare, ecc.).
Un'eccessiva tesaurizzazione del capitale o, in altre
parole, un capitale che ha maggiore convenienza nell'essere perpetuato
attraverso la rendita, invece che nell'essere investito in attività
produttive, è la ragione del declino economico e sociale delle nazioni.
Ce lo dice la storia. In secondo luogo occorre discriminare tra le
diverse "qualità" di profitto, in economia. Un imprenditore che dà
lavoro a mille operai non può pagare, alla fine dell'anno sul suo
reddito d'impresa, la stessa aliquota di un gioielliere che dà lavoro a
quattro o cinque dipendenti. Deve pagare un'aliquota inferiore, se
vogliamo far crescere l'occupazione. Altrimenti non andiamo da nessuna
parte. Inoltre: è ormai comprovato come vi sia una correlazione tra
grado d'innovazione associato al profitto d'impresa e "robustezza" dei
posti di lavoro generati da quella data impresa. In pratica: più
un'impresa investe in innovazione più è probabile che, nel futuro, essa
mantenga i suoi posti di lavoro. Questo perché tanto più elevata è
l'innovazione quanto più è difficile l'imitazione da parte dei
concorrenti, in primis quelli dei paesi a basso costo della manodopera.
Di conseguenza, quanto più un'impresa investe in ricerca e sviluppo tanto meno dovrebbe pagare di tasse.
Anche in questo caso, con il fine ultimo di far crescere il tasso di
occupazione stabile, in quel paese. Che è poi quello che conta. Perché
di un tasso di occupazione in crescita, ma infarcito di posti di lavoro
temporanei nei call center, non ce ne facciamo nulla. Sono posti di
lavoro di serie "Z", che non generano in chi li occupa nessun sogno,
nessuna volontà di progettare il proprio futuro e di investire. Sono
posti di lavoro inutili per una buona economia. In terzo luogo, occorre
ripristinare a livello internazionale il principio fiscale per cui le
aliquote "sostanziali" (cioè il prelievo effettivo) devono crescere al
crescere del reddito. Oggi ci ritroviamo in una situazione opposta,
nella quale il miliardario Warren Buffett (sono le sue stesse parole)
paga tasse inferiori in percentuale sul reddito di quanto non ne paghi
la sua segretaria. C'è qualcosa che non funziona. Il punto è che il
sistema organizzato dei paradisi fiscali, e della relativa elusione
fiscale, è più avanti delle normative e della politica.
Dunque occorrerebbe, così come per la finanza, una Bretton Woods per le tasse che si ponesse l'obiettivo di eliminare questi paradisi fiscali,
costringendo il capitale accumulato a emergere per essere reinvestito
in attività produttive e generatrici di nuovi posti di lavoro. Non, come
accade ora, per essere parcheggiato in luoghi nei quali la tassazione è
praticamente nulla e, dunque, esso può perpetuarsi senza correre
rischi. In un libro recentemente pubblicato, un economista americano ha
calcolato che la quantità di denaro depositata in questi luoghi
"protetti" ammonta ormai a parecchi trilioni di dollari, vale a dire una
percentuale rilevante del PIL mondiale. Un accordo internazionale in
merito, quindi, permetterebbe la re-immissione di tutto questo denaro
"inattivo" nel circuito, con indubbi benefici per le attività
imprenditoriali e produttive. Quarto: un capitalismo inclusivo deve
coniugare la riduzione della diseguaglianza sociale ed economica con
l'aumento della mobilità sociale intra-generazionale. Il perseguimento
contestuale di una ridotta diseguaglianza e un'elevata mobilità sociale è
l'obiettivo fondamentale di un capitalismo inclusivo.
Perché significa creare una società nella quale da un lato non ci sono esclusi ed emarginati,
e dall'altro il valore del bene-merito vince sulla rendita di posizione
del bene-stante. In pratica, una società in cui la condizione in cui si
nasce non determina la propria vita ma, invece, sono il proprio talento
e capacità di lavoro a farlo. In questo tipo di capitalismo inclusivo
"l'ascensore sociale" funziona a due vie: per una persona che sale
grazie al proprio merito ce n'è un' altra che scende a causa del proprio
demerito. Per un povero in gamba che diventa benestante grazie alla
propria capacità e competenza, ci deve essere un ricco che s'impoverisce
a causa della sua incapacità e incompetenza. Altrimenti non funziona.
Una delle due azioni fondamentali da portare avanti affinché l'ascensore
sociale a due vie si realizzi, è proprio la determinazione di un
sistema fiscale che favorisca il reddito da lavoro e il capitale di
rischio (impresa) da un lato, penalizzi la rendita finanziaria e
patrimoniale dall'altro. La seconda azione da implementare è un sistema
d'istruzione pubblica di alto livello a disposizione di tutti, anche dei
più poveri. Non si scappa: nell'economia della conoscenza in cui
viviamo, il non garantire ai meno abbienti l'accesso a quella conoscenza
equivale a una ghettizzazione preventiva. Ma il capitalismo inclusivo
funziona? O meglio ancora, conviene? La risposta è si, che funziona e
che conviene. Solo che fino ad adesso siamo riusciti a realizzarlo in
paesi piccoli come Danimarca, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda. Ma
funziona, eccome. Non caso quelli citati sono i paesi nei cui titoli di
stato tutti vogliono investire.
Il motivo è che questi sono paesi stabili. E la
stabilità, unita a una superiore robustezza del sistema economico, sono
le conseguenze più rilevanti per quanto concerne i fondamentali
macro-economici, per quei paesi che perseguono la via del capitalismo
inclusivo. Ben più rilevanti sono le conseguenze per la società: meno
violenza, meno furti e truffe, meno reati e, quindi, anche meno persone
incarcerate. E poi meno divorzi, un superiore tasso di natalità (tra i
paesi a economia matura), un grado di salute delle persone migliore
rispetto a quello degli altri paesi. In generale, siamo tutti più
onesti, più felici e più sani, in uno stato il cui capitalismo persegua
una minore diseguaglianza e l'inclusività. Ma non è finita qui, perché
come dimostra uno studio compiuto da alcuni ricercatori un paio di anni
fa, il capitalismo inclusivo conviene. Il motivo è che, alla fine dei
conti, è meno costoso per la società. Se traduciamo in termini economici
i minori divorzi, i minori obesi, il maggiore tasso di fertilità
(ribadisco, per un paese maturo) dei paesi a capitalismo inclusivo,
quello che troviamo sono costi inferiori da sostenere per la
collettività e una demografia più favorevole. Naturalmente questi dati e
queste analisi sono note.
Allora perché non se ne parla abbastanza? Beh, oltre
alle solite ragioni di miopia politica, di opportunismo e d'interesse
precostituito, si aggiungono anche alcuni economisti che hanno l'ardire
di sostenere come questo modello non sia applicabile, se non in paesi di
piccola dimensione. Per paesi come gli Stati Uniti, la Cina, o anche
l'Italia, esso non sarebbe replicabile a causa della dimensione
geografica e demografica in gioco. Beh, è falso: chiunque abbia un
minimo di nozione di teoria dei sistemi infatti, sa che quello che conta
in un sistema (e quindi anche in un sistema economico o in un paese)
non è la dimensione, ma la struttura. Come ben c'insegna il sistema
migliore che vi sia: la natura. Per usare una bella immagine: il gatto e
la tigre. Metteteli fianco a fianco, e non troverete praticamente
nessuna differenza in termini di struttura tra il nostro simpatico micio
domestico e la regina dei felini. Come scrisse Leonardo da Vinci, "Dio
inventò il gatto, affinché l'uomo potesse accarezzare la tigre". Per
cui, la dimensione non è un ostacolo all'applicabilità del modello del
capitalismo inclusivo. Semplicemente, nessuna tra le grandi economie del
mondo (con la sola parziale eccezione della Germania) ha fino ad ora
seriamente tentato la cosa.
I motivi per cui questo non è ancora avvenuto nei grandi paesi a
economia avanzata come gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, ecc..
sono molteplici e multiformi, e un'analisi completa richiederebbe un
libro, non un articolo. Ciò che conta è ricordarci che non c'è nessun
limite, né teorico né pratico, alla diffusione del capitalismo inclusivo
nei grandi paesi del mondo. Il motivo per cui non si è ancora fatto
risiede unicamente nella mancanza di una volontà politica (e di una
correlata visione politica) da un lato, nella forza degli interessi
precostituiti che difendono il capitalismo esclusivo, e che si oppongono
al capitalismo inclusivo, dall'altro. Eppure i dati
parlano chiaro: il capitalismo esclusivo è socialmente doloroso. Gli
Stati Uniti, che sono i campioni di quel modello, hanno un numero di
detenuti che in proporzione è il quintuplo di quello della Danimarca.
Sempre negli Stati Uniti, un individuo che nasce povero ha il 50% di
probabilità di rimanere povero anche da adulto.
In Danimarca questa probabilità scende al 25%. In poche
parole, le probabilità di diventare benestante sono a tuo favore, se
nasci povero in Danimarca. E ancora: il capitalismo esclusivo è ingordo,
e si tiene per se tutta la torta lasciando al ceto medio-basso giusto
poche briciole per sopravvivere. Nel 2010, che fu un anno di ripresa
economica negli Stati Uniti, l'1% degli americani più ricchi si
accaparrò il 93% degli utili addizionali generati in quella ripresa. In
pratica, tutti gli utili. Infine: il capitalismo esclusivo non fa pagare
la crisi a tutti, ma solo al ceto medio-basso. In tempo di crisi
infatti, sono i posti di lavoro ad essere eliminati e gli stipendi degli
impiegati e operai ad essere ridotti, non quelli dei CEO. Ma
soprattutto, i grandi patrimoni occultati nei paradisi fiscali, e
gestiti da professionisti all'uopo preparati, non vengono intaccati
dalla crisi. E' la perpetuazione della rendita organizzata su scala
globale. Sono i "rent-seekers", come li chiama l'economista Joseph
Stieglitz. Quel 20% di americani che, attualmente, possiede l'85%
(l'85%!!) di tutta la ricchezza degli Stati Uniti. Tornano alla mente le
parole di Jack London nel Tallone di Ferro: "La classe lavoratrice
(...) era annientata. Eppure la sua sconfitta non pose fine alla crisi.
Le banche, che già costituivano una forza non indifferente per
l'oligarchia, continuavano ad accettare i risparmi dei lavoratori. Il
gruppo di Wall Street trasformò la borsa in un turbine che spazzò via
tutti i beni del paese. E sui disastri e sulle rovine, s'innalzò la
forza della nascente oligarchia: imperturbabile, indifferente e sicura
di sé.
Questa serenità e sicurezza erano terrificanti. Per
ottenere lo scopo, essa non ricorreva soltanto a tutta la propria
potenza, ma anche a quella del Tesoro degli Stati Uniti. I capitani
dell'industria si erano poi volti contro la media borghesia. Le
associazioni padronali, che li avevano aiutati a sconfiggere
l'organizzazione del lavoro, erano alla loro volta sconfitte dai loro
antichi alleati. In mezzo al crollo dei piccoli finanzieri e
industriali, i trust resistevano magnificamente. Non solo erano solidi,
ma anche attivi. Seminavano vento, senza paura né esitazioni, perché
essi solo sapevano il modo di raccogliere tempesta e trarne profitto."
Ci risiamo da capo. E possiamo fare due cose. Aspettare che questo
capitalismo esclusivo si autodistrugga, vittima della sua stessa
ingordigia e cupidigia, oppure cercare come cittadini di portare avanti
il capitalismo inclusivo. A noi la scelta.
Fonte
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