Le biografie ufficiali e anche decine di articoli di giornale lo
descrivono come un imprenditore tutto casa e fabbrica. Un tipo che punta
dritto all’obiettivo e quando c’è da menar le mani, in senso figurato,
non rinuncia allo scontro. Insomma, Emilio Riva, non si
ferma davanti a niente e a nessuno. E mezzo secolo di carriera
costellata da processi per comportamento antisindacale o per violazioni
della normativa ambientale suonano come la conferma migliore di questo
ritratto da duro e puro. In realtà, chi lo ha frequentato a lungo, ci
restituisce un’immagine un po’ diversa da quella del macho che lo stesso
Riva, classe 1926, cerca da sempre di accreditare.
Il patron
dell’Ilva, come spiegano manager e colleghi imprenditori, ha sempre
dimostrato una straordinaria abilità da pokerista. E come tale sa alzare
la posta quando è il caso, ama bluffare oppure lasciare il tavolo per
poi intavolare trattative nella stanza accanto alla ricerca di nuovi
alleati. Per esempio, la sua esibita estraneità alla politica, ai
partiti e allo statalismo in genere è diventata una specie di fiore
all’occhiello per un imprenditore come Riva che afferma di essersi fatto
tutto da sé. Le cose cambiano se si fa il conto delle centinaia di
migliaia di ore di cassa integrazione a spese del bilancio pubblico che
negli anni difficili hanno tenuto in piedi i suoi stabilimenti, a
Taranto come a Genova. Di più: quando il gioco si fa duro, Riva
l’antipolitico non perde tempo ad aprire il portafoglio per dare una
mano ai partiti. Un aiuto cash, in contanti. E così consultando i
resoconti sui contributi privati alle formazioni politiche, si scopre
che tra il 2006 (anno di elezioni politiche) e il 2007 il patron
dell’Ilva ha staccato un assegno di 245mila euro per Forza Italia, mentre altri 98mila euro sono andati a finanziare personalmente Pier Luigi Bersani.
Tutto regolare, per carità. Tutto denunciato dai beneficiari delle
donazioni così come prevede la legge in materia. L’episodio però la dice
lunga sul metodo Riva: una mancia destra e una a sinistra, tanto per
dimostrarsi equidistante, o forse sarebbe meglio dire equivicino, alle
opposte sponde politiche.
L’industriale
siderurgico, da sempre descritto come un falco liberista, non si è fatto
problemi a versare un obolo anche all’esponente del Pd destinato a
diventare nel 2006 il ministro dello Sviluppo economico del governo
Prodi. Una scelta azzeccata. A suo tempo Riva ha infatti finanziato
anche il massimo responsabile della politica industriale del Paese, un
ministro che, ovviamente, è chiamato a occuparsi anche di un settore
strategico come l’acciaio. Nel 2008 cambia il vento. Silvio Berlusconi
torna a palazzo Chigi e il gran capo dell’Ilva si fa trovare pronto.
Eccolo in prima linea nella cordata per salvare quel che resta di
Alitalia, un intervento, come noto, sollecitato dal capo del Pdl in
persona. Riva mette sul piatto 120 milioni e, intervistato dal Sole 24 Ore
nel 2009, non ha problemi ad ammettere che “sappiano bene che non ci
guadagneremo”, ma un grande Paese come l’Italia “non può non avere una
compagnia di bandiera”. Insomma, ecco a voi Riva il patriota. Mutazione
sorprendente per un imprenditore che, oltre a controllare il suo gruppo
attraverso holding in Lussemburgo e Olanda per minimizzare il carico
fiscale, ha sempre affermato di badare sempre e solo agli affari suoi. I
maligni, che però spesso ci azzeccano, fanno notare che tra il 2008 e
il 2009 si apre la crisi economica senza precedenti di cui ancora stiamo
subendo le conseguenze. E il capo dell’Ilva sa bene che un settore
ciclico come la siderurgia è il primo a risentire degli effetti di un
rallentamento economico. Del resto basta dare un’occhiata agli ultimi
bilanci del gruppo. Nel 2007, prima del crollo, i profitti erano
arrivati a quota 877 milioni su circa 10 miliardi di giro d’affari. Poi
la musica cambia, eccome. Nel 2009 (rosso di 411 milioni) e nel 2010
(meno 71 milioni), l’impero di Riva ha perso soldi a rotta di collo e,
nonostante una timida ripresa, nel 2011 i conti hanno chiuso in utile di
88 milioni grazie a poste straordinarie e fiscali per quasi 400
milioni. E allora l’industriale tutto d’un pezzo, un lumbard che si
descrive orgogliosamente come “milanese di piazza San Marco” (in pieno
centro città), tenta di riprendere quota con l’Alitalia mentre le sue
aziende perdono soldi.
Il caso ha poi voluto che Riva abbia ritrovato come ministro dell’Industria proprio Corrado Passera,
cioè l’ex banchiere che come capo di Intesa si distinse come il grande
sponsor del salvataggio della disastrata compagnia aerea. Tra tanti
amici al governo, però, il capo dell’Ilva ha finito per trovarsi un
nemico in casa. Già, perchè Riva non è l’unico proprietario del gruppo
siderurgico, di cui pure controlla il 90 per cento. A libro soci con una
quota del 10 per circa trova gli Amenduni, un’altra famiglia di
imprenditori siderurgici che nel 1995 partecipò alla privatizzazione
dell’Ilva. Ebbene, due mesi fa il rappresentante degli Amenduni ha
votato contro il bilancio del gruppo chiedendo informazioni su alcuni
affari che hanno trasferito denaro dal colosso siderurgico ad alcune
finanziarie personali dei Riva. Tra gli addetti ai lavori c’è chi spiega
questo atteggiamento battagliero come un’azione di disturbo con l’unico
scopo di convincere i Riva a ricomprare le azioni Ilva di cui i soci di
minoranza vorrebbero disfarsi. Michele Amenduni,
contattato al telefono si schermisce. “Mi trovo all’estero – racconta – e
non so che cosa stia succedendo a Taranto”. Davvero, ha detto proprio
così. Forse è una battuta, ma non fa ridere.
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