L’establishment
israeliano sta costruendo la legittimità morale della guerra all'Iran.
Il consenso degli Stati Uniti non è più una condizione necessaria. I
rischi dello squilibrio internazionale. La guerra all’Iran è già in
corso in Siria. Quello che va detto.
“Non parliamo di risposta ad un attacco: a Israele spetta la prima mossa”. Non lascia adito a dubbi la valutazione del generale israeliano Ephraim Sneh. Il generale Sneh era uno dei comandanti del raid israeliano ad Entebbe nel 1976 ed è l’alto ufficiale che dal 1993 spinge sulle autorità di Tel Aviv brandendo il dossier iraniano come “un pericolo strategico per lo stato di Israele”. Sono quasi venti anni che rilevanti settori della politica e delle forze armate israeliane spingono per una azione di forza contro l’Iran. In questi anni venti anni hanno dovuto incassare diversi no: da parte di Ytzhak Rabin e da parte dello stesso Ariel Sharon. Più recentemente hanno visto sbarrarsi la strada dal capo del Mossad, Meir Dagan, (rimosso un anno e mezzo fa) e dall’ex Capo di stato maggiore Gabi Askhenazi che ritengono un attacco iraniano non imminente e con conseguenze catastrofiche un attacco militare israeliano. Ma oggi il gruppo di potere che in Israele e negli Usa spinge per l’attacco militare contro l’Iran sembra essere diventato maggioritario e risoluto.
La costruzione “morale” dell’aggressione israeliana all’Iran
“La rappresaglia (iraniana,NdR) sarebbe dolorosa per Israele, ma sostenibile” sostiene il generale Sneh. Quando si comincia a parlare del rapporto tra costi e benefici è il segnale che le cose stanno precipitando. L’establishment israeliano sta mobilitando non solo l’apparato militare sia nella sua dimensione offensiva (aerei, testate missilistiche sui sommergibili etc.) che difensiva (scudo antimissile, esercitazioni etc.), ma ha chiesto anche l’intervento di filosofi, moralisti, intellettuali per giustificare lo “strike”, il primo colpo contro l’Iran, e preparare così l’opinione pubblica israeliana (di quella internazionale non gli è mai interessato molto) di fronte ai possibili costi umani di una guerra devastante con l’Iran.
Il primo ministro Netanyahu ha fatto ricorso a tutto l’arsenale di argomentazioni bibliche e storiche per legittimare l’idea che Israele debba e possa colpire per prima. Per Netanyahu “l’Iran è il nuovo Amalek che apparirà nella storia per provare, ancora una volta, a distruggere gli ebrei. Ricorderemo sempre che cosa ci ha fatto l’Amalek nazista. Non dobbiamo dimenticare di essere pronti ad affrontare i nuovi amaleciti” (1).
Argomentazioni come queste, non possono che far interrogare tutti coloro che continuano a pensare allo scontro tra Iran e Israele come ad uno scontro tra esaltati religiosi e un paese moderno. I fatti dimostrano che così non è, anzi, che la visione quasi messianica e la logica della sopravvivenza degli ebrei al nuovo Olocausto che le autorità israeliane stanno imponendo al dibattito sulle tensioni internazionali , rende il ruolo di Israele assai più destabilizzante e pericoloso di altri paesi nel quadro mediorientale e internazionale. Se infatti una società è convinta di essere a rischio di sopravvivenza, accetterà qualsiasi soluzione dal suo governo, anche dolorosa, che lasci un margine di speranza o di prospettiva. A tale scopo le autorità israeliane stanno ricorrendo a diversi intellettuali affinché sostengano con motivazioni etiche la necessità che Israele attacchi e per prima l’Iran.
Circa dieci anni fa, le autorità israeliane chiesero ad un gruppo di studiosi e accademici di formulare una dottrina “morale” per l’attacco militare preventivo. Questa dottrina ha preso il nome di “Progetto Daniele” e deve costituire la giustificazione strategica per l’eventuale attacco contro l’Iran. Del gruppo di studiosi hanno fatto parte Naaman Belkind (ingegnere nucleare), il generale Isaac Ben Israel, il colonnello Yoash Tsiddon-Chatto. Ma anche filosofi e pensatori.
Moshe Halbertal, allievo di Michael Walzer, afferma ad esempio che “Ci potrebbe essere una situazione in cui l’unico modo per prevenire un attacco nucleare contro Israele sarà quello di distruggere lo stato iraniano. Con questo intendo la sua volontà di agire come uno stato”. Mentre Louis Renè Beres, esperto di genocidio in una università statunitense e che ha scritto il “Progetto Daniele” afferma che “Noi abbiamo spiegato per primi che l’equilibrio del terrore non funziona con Teheran. Per Israele non difendersi preventivamente davanti ad un nemico esistenziale sarebbe un suicidio”.
La dottrina dello “strike”, cioè del colpire per primi, se oggi è portata avanti dalla destra, è stata in realtà partorita da un intellettuale israeliano “di sinistra”, Asa Kasher, docente di Filosofia etica all’università di Tel Aviv e che ha curato il manuale per l’etica delle forze armate israeliane (sic!). “La giustificazione di un attacco preventivo israeliano, poggia sulla dottrina della “guerra giusta” e sullo spirito della legge internazionale”. Per lo strike serve dunque una buona causa e per il prof. Kasher la buona causa è il pericolo imminente rappresentante non dal lancio di testate atomiche iraniane, “ma dalla capacità di farlo”. Dunque è il fatto stesso che l’Iran possa disporre di armi nucleari (come ne dispone notoriamente Israele, NdR) anche senza utilizzarle, a rappresentare una buona causa per bombardarlo. Il progressista morale Kasher dice anche di più: “Non faremo affidamento su nessun altro quando si tratta di proteggere i nostri cittadini. Anche se i nostri nemici dovessero portare dei bambini sui tetti delle case per spararci addosso, noi non capitoleremo. E’ tragico, ma non molliamo”.
Dello stessa opinione è anche Avi Sagi, filosofo morale e coautore dello “Spirit of Idf”, cioè il codice di condotta etica dell’esercito israeliano: “Se Israele è certo che possa finire sotto atomico, allora ha diritto ad un attacco preventivo…. L’attacco preventivo venne già usato durante la seconda Intifada, quando Israele eliminò alcuni capi terroristi in esecuzioni extragiudiziali. E’ una moralità che fa parte dell’ethos ebraico. Israele è da sempre prigioniera di una guerra asimmetrica in cui soldati combattono terroristi vestiti in abiti civili”. (2)
Questa breve rassegna di come stiano operando gli apparati ideologici di stato israeliani nella preparazione “morale” della guerra all’Iran, per un verso mette i brividi, per un altro mette tutti noi di fronte alla realtà della infrastruttura ideologica che sta costruendo un possibile e devastante conflitto nel Medio Oriente, in pratica alle porte di casa nostra.
Israele attaccherà l’Iran. Con o senza gli Stati Uniti
L’autore del libro “The secret war with Iran”, il giornalista israeliano “insider” Ronen Bergman, ha recentemente pubblicato un lungo articolo sul New York Times, nel quale arrivava a queste conclusioni: “Dopo aver parlato con molti alti funzionari, ufficiali e uomini dei servizi segreti, mi sono convinto che Israele attaccherà l’Iran nel 2012”. Non si tratta di un aspetto inquietante della profezia dei Maya, ma della conclusione a cui arriva Bergman sulla base di conversazioni e interviste parzialmente rivelate nell’articolo sul New York Times (3).
Bergman prevede cinque scenari possibili: un attacco israeliano, un attacco statunitense, israeliani e statunitensi che attaccano insieme, l’Iran che rinuncia all’atomica, cambiamento di regime a Teheran. Secondo Bergman il secondo e il quinto scenari sono improbabili mentre il primo è quello più possibile.
Sono in molti a chiedersi, forse in forma un po’ auto-consolatoria, se Israele possa attaccare l’Iran senza il consenso degli Stati Uniti. Potremmo rispondere che è già accaduto nel 1981 in Iraq, quando gli aerei israeliani bombardarono il reattore nucleare di Osirak mettendo l’amministrazione Reagan davanti al fatto compiuto. Nell’articolo sul New York Times, Bergman lascia ad un altro esperto il compito di rispondere alla domanda se Israele attaccherà con o senza il consenso degli Stati Uniti. Si tratta di Matthew Kroenig, esperto di sicurezza nucleare dell’influentissimo Council of Foreign Relations e consulente del Pentagono: “Secondo me gli israeliani avviseranno gli Stati Uniti solo un’ora e due ore prima, un lasso di tempo sufficiente per non incrinare i rapporti tra i due paesi ma non per permettere a Washington di impedire l’attacco”. Non solo, Kroenig taglia la testa al toro affermando che “La cosa più interessante non è se succederà, ma il come”.
Un esperto israeliano del National Security Studies di Tel Aviv, Yoel Guzansky, lo esplicita in modo ancora più chiaro” Per Israele oggi conta soltanto la sopravvivenza del popolo ebraico, non il rapporto con gli Stati Uniti… Netanyahu potrebbe decidere di lanciare una campagna militare anche senza il consenso americano. Tutto dipende dai dati che Israele avrà in mano, non certo dal dispiacere che potrebbe provocare negli Stati Uniti” (4).
Ma a rafforzare la tesi che Israele potrebbe attaccare a breve l’Iran, vi sono anche le valutazioni dello stesso Segretario alla Difesa statunitense Leon Panetta. Nel corso di una visita al Comando Nato di Bruxelles, Panetta ha rilasciato alcune dichiarazioni al Washington Post. A raccoglierle è stato un giornalista “esperto” come David Ignatius, editorialista del WP, che le ha riportate testualmente su uno dei maggiori quotidiani statunitensi: “Panetta ritiene che sia molto probabile un attacco di Israele contro l’Iran in primavera, prima che l’Iran entr in quella che gli israeliani definiscono una “zona di immunità” dove poter cominciare a costruire la bomba nucleare”. Poco prima del viaggio a Bruxelles e dell’editoriale del Washington Post, Panetta aveva ricevuto il capo del Mossad Tamir Pardo, un viaggio segreto rivelato però dalla presidente della Commissione Intelligence del Senato, Dianne Feinstein (5).
Visto con gli occhi di sempre, tutto questo può apparire come propaganda o come il capitolo di una guerra di nervi verso l’Iran per costringerlo a cedere e a rinunciare al programma nucleare. Ma questa somiglia molto ad una fotografia di almeno cinque anni fa, prima che la crisi economica globale iniziasse a squassare le economie capitaliste in Europa e negli Stati Uniti e le relazioni internazionali nel loro complesso. Oggi la situazione mondiale è enormemente più instabile e i fattori che agiscono a livello regionale, non paiono più pianificabili e controllabili dal centro. Anche l’establishment israeliano percepisce l’indebolimento della leadership globale statunitense ed è portato a ritenere che questa consente margini di manovra indipendente più elevati che in passato. Se fino a pochi anni fa in qualche modo la concertazione tra le maggiori potenze aveva consentito di gestire l’asimmetria geopolitica dovuta alla dissoluzione dell’Urss, oggi gli equilibri si stanno rimodellando sulla base di una competizione globale sempre più aspra.
Il “messaggio dei Brics”
Il vertice di fine marzo di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica a Nuova Delhi, ad esempio, ha dato il segno dei cambiamenti nelle relazioni internazionali. I vecchi paesi a capitalismo avanzato che dal dopoguerra a oggi hanno determinato i processi decisionali del mondo, hanno ricevuto un avviso chiaro e forte dai Brics, le potenze emergenti. Occorre ridisegnare le istituzioni internazionali, ridistribuendo poteri e responsabilità. È questo il messaggio che arriva dal vertice dei cinque paesi membri del Brics riuniti nel vertice di New Delhi. E’ il quarto vertice dal 2009 tra i capi di Stato di queste nuove potenze (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che hanno manifestato chiaramente il proposito di voler contare di più nel dibattito mondiale e nelle decisioni, anche se la “Dichiarazione di Delhi” da loro firmata, dichiara di non essere nulla di più che “una piattaforma di dialogo e cooperazione”. Una piattaforma che però raccoglie il 43% della popolazione mondiale, il 20% del prodotto interno lordo (pil) globale e più della metà della crescita economica (56%) prevista dal Fondo monetario internazionale per il 2012. I Brics sollecitano una riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che tenga conto delle potenze emergenti, ma nel frattempo propone che la comunità internazionale operi per disinnescare le crisi più importanti, avviando senza esitazione il negoziato per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, che è fonte di molti altri conflitti nella regione. Non solo la Dichiarazione di Delhi sollecita che nelle crisi in Siria e Iran si utilizzi il dialogo e non il conflitto, permettendo nel caso dei siriani “l’avvio di un processo nazionale con la partecipazione delle parti coinvolte”. Nel caso dell’Iran, invece, i cinque paesi sono piuttosto espliciti e “riconoscono il suo diritto all’uso del nucleare a fini pacifici, pur rispettando gli obblighi internazionali”. “Non si può trasformare la situazione riguardante l’Iran in un conflitto – si afferma nella dichiarazione – le cui conseguenze non sono nell’interesse di nessuno”. Sul piano economico Brasilia, Mosca, New Delhi, Pechino e Pretoria si dicono preoccupati dell’attuale situazione economica mondiale, determinata dalla persistente crisi della zona euro, con un aumento dei debiti sovrani e con l’introduzione di misure di aggiustamento fiscale a medio e lungo termine che producono in ambiente incerto per la crescita economica. Si registra una dura dichiarazione della presidente brasiliana Dilma Roussef sulle misure con cui Usa e Unione Europea stanno affrontando la crisi economica globale, “Una crisi – ha sottolineato la Rousseff – cominciata nel mondo sviluppato e che non potrà essere superata attraverso semplici misure di austerity, deprezzamento della forza lavoro, senza parlare delle politiche di allentamento monetario che hanno scatenato uno tsunami valutario, hanno avviato una guerra monetaria e hanno introdotto nuove e perverse forme di protezionismo nel mondo”. I Brics in particolare contestano duramente “L’eccessiva liquidità generata dalle politiche aggressive varate dalle banche centrali per stabilizzare le loro economie si è riversata sui mercati dei Paesi emergenti, causando una volatilità eccessiva dei flussi di capitale e dei prezzi delle commodities”. Una esortazione esplicita verso i vecchi paesi a capitalismo avanzato “ad adottare politiche finanziarie ed economiche responsabili, a evitare di generare eccessi di liquidità e a intraprendere riforme strutturali in grado di creare crescita e occupazione”.
Secondo i Brics dovrebbe diventare il G20 e non più il G8, l’organismo che può e deve facilitare il coordinamento delle politiche macroeconomiche “anche con un miglioramento dell’architettura monetaria e finanziaria internazionale» che «deve contemplare una maggiore rappresentanza dei paesi emergenti” per ottenere «un sistema monetario internazionale che possa servire gli interessi di tutti i paesi». In questo ambito i Brics stanno studiando la creazione di una Banca di sviluppo tra i paesi del sud del mondo, la cui realizzazione sarà esaminata nel prossimo vertice dei Brics che si svolgerà nel 2013 a Johannesburg, Nel frattempo i presidenti degli istituti di credito per lo sviluppo nazionale dei Paesi Brics hanno siglato a New Delhi un accordo che consentirà il finanziamento del commercio e degli investimenti in valuta locale. Lo scopo dell’intesa è l’incremento della cooperazione tra le banche statali e l’aumento degli scambi commerciali tra i paesi del blocco.
Nel mondo si sta dunque accentuando la polarizzazione con la nascita di nuovi blocchi e, tendenzialmente, di aree monetarie diverse e competitive tra loro. In un contesto di crescita progressiva tutto ciò può anche portare ad un nuovo e positivo riequilibrio dei rapporti di forza internazionali, ma in un contesto di crisi sistemica del capitalismo dominante può diventare un fattore di conflitto a tutto campo. Le vecchie potenze – in questo caso gli Usa e quelle europee – non hanno mai accettato un ridimensionamento della loro egemonia senza tentare di ripristinarla ad ogni costo. E questo rende il mondo del XXI Secolo un posto molto pericoloso in cui vivere.
La guerra all’Iran è già in corso, in Siria
Dobbiamo riconoscere che l’escalation che porterà alla guerra contro l’Iran da parte di Israele, con o senza l’aiuto degli Stati Uniti, è già iniziata.
In Iran è cominciata con le operazioni coperte del Mossad, che ha portato all’uccisione di diversi scienziati che lavorano al programma nucleare o con sanguinosi attentati contro i pasdaran e altre strutture militari che hanno visto coinvolti anche commandos di Stati Uniti e Gran Bretagna.
Nella regione è cominciata con la destabilizzazione della Siria, alleata di Teheran. In particolare c’è la questione dei cosiddetti “corridoi umanitari” che configura sia una spinta verso la guerra civile in Siria sia un attacco ai collegamenti tra Iran e la linea del fronte con Israele: il Libano. Obiettivo dei corridoi umanitari – sostenuto da Turchia, Usa, petromonarchie, è quello di creare una retrovia per i gruppi armati anti-Assad ma anche quello di interporsi sul confine tra Siria e Libano ed impedire così che giungano rifornimenti strategici agli Hezbollah libanesi alleati dell’Iran che hanno già dimostrato di poter essere un serissimo problema per Israele. “Nel 2006 l’Iran, tramite Hezbollah, ha sconfitto lo stato ebraico” lamenta Ronen Bergman. Così viene vissuta dall’establishment israeliano la difficoltà e le perdite subite nell’aggressione al Libano sei anni fa, quando gli Hezbollah si dimostrarono un nemico tenace, motivato, organizzato e ben armato capace di resistere ai tank e ai bombardamenti a tappeto israeliani.
La Siria dunque potrebbe essere l’agnello sacrificale che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, le petromonarchie del Golfo e la Turchia sono disposti ad offrire a Israele in cambio della sua rinuncia a scatenare a breve l’attacco contro l’Iran. L’indebolimento o la sconfitta del maggiore alleato regionale di Teheran e la garanzia della fine dei rifornimenti agli Hezbollah (dando così mano libera a Israele in Libano), vorrebbero essere il tentativo di mettere sul piatto del rapporto costo-benefici un qualcosa che possa fermare l’escalation israeliana. Israele vedrebbe indebolirsi due nemici ai suoi confini più diretti (Siria e Libano) e accettare che il braccio di ferro con l’Iran proceda attraverso le sanzioni, l’embargo, le azioni terroristiche all’interno del paese, la ripresa di movimenti sponsorizzati da Usa, Europa e petromonarchie che prima o poi ottengano il “regime change” auspicato.
Ma questo scenario potrebbe non realizzarsi a breve. Assad sembra voler e poter resistere più di quanto preventivato e la posizione dei Brics su Siria e Iran non coincide con quelle della coalizione dei “Friends of Syria” sponsorizzata dagli Usa né con quelle israeliane. Il vertice di Nuova Delhi ha “riconosciuto il diritto dell’Iran all’uso del nucleare a fini pacifici, pur rispettando gli obblighi internazionali”. Una posizione questa che è sostanzialmente corretta e butta la contraddizione direttamente in mezzo ai piedi di Israele che dispone di un arsenale nucleare, non ha firmato il Trattato di Non Proliferazione e non consente ispezioni dell’Aiea nei propri impianti.
Quello che va detto
In conclusione ci sembra di poter riaffermare che, anche nel Medio Oriente, il “meglio rimane nemico del bene” ma che di fronte alla prospettiva di un attacco militare israeliano all’Iran occorrerà augurarsi nel breve tempo almeno il “meglio”. Il bene sarebbe indubbiamente una conferenza regionale sul disarmo nucleare che porti allo smantellamento dell’arsenale atomico israeliano e al divieto di armamento nucleare iraniano, il meglio sarebbe che l’Iran disponga, e prima possibile, del potere di deterrenza nucleare che dissuada e impedisca a Israele di attaccarlo provocando un conflitto dalle conseguenze devastanti e imprevedibili, è sufficiente pensare alle ripercussioni sul prezzo del petrolio o all’estensione del conflitto ad altri paesi della regione.
Il nostro compito sarà quello di impedire innanzitutto che l’Italia prenda parte ad avventure militari contro l’Iran o la Siria, che cessi la collaborazione militare e la complicità politica con Israele e denunciare pervicacemente l’ormai inaccettabile costo democratico, economico, morale della permanenza in alleanze come la Nato. I pacifisti per mobilitarsi hanno bisogno di una realtà in bianco e nero, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. L’internazionalismo dei comunisti ha il dovere di fare i conti con le molte sfumature di grigio dei conflitti che sono stati scatenati in questo già turbolento XXI° Secolo, conflitti in cui non è facile delineare i buoni e i cattivi, ma i nemici principali sì e sono quelli che con le loro azioni mettono a rischio le sorti dell’umanità: lo stato di Israele è tra questi, se ne facciano una ragione i sionisti e i loro coccolatori nelle file della sinistra o della destra.
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