Di risurrezioni ce n’erano state a iosa già nella trilogia originaria.
Due esplicite, quella di Neo nel primo film e quella speculare di
Trinity in "Reloaded", e quelle improprie, in quanto digitali,
dell’Agente Smith e dell’Oracolo. E l’uscita di un quarto episodio della
saga ne lasciava presagire due (o almeno due) ulteriori: quelle
"recidive" degli stessi Neo e Trinity, ovviamente.
Insomma, tutto
lasciava intendere che il termine scelto per un ritorno in grande stile
della saga di Matrix, che nei suoi sequel ha sempre avuto un titolo
contenente una specificazione iterativa (dal più banale Reloaded al più ricercato Revolution, con un’etimologia che deriva da ri-voltare, ri-volgere), non potesse che andare a parare sulla Risurrezione. Risurrezione come ri-sorgere, sorgere nuovamente, anche in questo caso con prefisso iterativo.
Restava
dunque da capire – e la domanda era ben lecita – se le risurrezioni (al
plurale) invocate dal titolo di questo nuovo capitolo della saga, oltre
che – banalmente – richiamare quelle fisiche dei due protagonisti,
maschile e femminile, si sarebbero accompagnate a una risurrezione delle
idee o se invece ci saremmo trovati di fronte a una mera risurrezione
del franchise a scopi squisitamente commerciali, in questi anni di
sequelizzazione selvaggia, in cui non sembra potersi fare altro che
ripescare dall’immaginario di quei prodotti che il tempo ha issato al
rango di cult ultragenerazionali.
Ebbene, "Matrix
Resurrections" inizia con uno pseudo-reboot che sin da subito rivela la
sua natura metatestuale, a tratti in maniera esplicita e dichiarata. I
personaggi sono lì a commentare una scena analoga a quella che apriva il
"Matrix"
del 1999, evocando le analogie con quello che però nella finzione
scopriamo essere un videogioco, anziché un film. Reboot e metatesto si
inseguono ostinatamente per tutta la prima parte. Le autocitazioni sono
visuali e letterali, invocate con inserti visivi e all’interno dei
dialoghi, dove si arriva addirittura a disquisire del bullet time.
La
prima parte di "Matrix Resurrections" potrebbe sembrare quella
concettualmente più interessante, quella che la regista utilizza per
portare avanti un discorso ironico (e autoironico) sulla serialità
oltranzista dei giorni nostri. Una prima parte che, così facendo, si
rivela però del tutto distante dallo spirito e dalla natura della
trilogia originaria. Dalla riflessione filosofica (Matrix come metafora
del capitalismo, del consumismo, dell’identità sessuale) si passa
infatti alla riflessione metatestuale vagamente autocelebrativa. Con
l'enorme dubbio di fondo sull'opportunità di usare il fenomeno Matrix
come grimaldello per le proprie riflessioni teoriche: ma del resto ciò
che può sembrare dissacrante per alcuni di noi, per Lana Wachowski può
essere stato nientemeno che una liberazione.
Insomma, sembra
quasi che un postmoderno cannibale voglia fagocitare una delle sue
creature più eminenti. "Matrix Resurrections" sembra quasi l’"8 e mezzo"
(scompaginato) di Lana Wachowski, tormentata dai suoi demoni e in ansia
da prestazione nei confronti della Warner Bros., che finisce essa
stessa nel calderone delle citazioni.
Una Warner Bros. che (nella
realtà come nella finzione) vuole il sequel e basta, che Lana infine
offre rientrando nel circolo vizioso delle realtà (al plurale, of course), tornando in carreggiata con sogni, realtà neuronale, realtà virtuale, realtà reale, solita mise en abyme
wachowskiana che torna ad esserci familiare, soltanto più amplificata a
causa della necessità di andare oltre, di alzare l’asticella perché
così si deve fare quando ci si presenta ai blocchi di partenza con una
sfida simile.
Tra guerre che non sono davvero terminate (signori,
abbiamo scherzato!), livelli di complessità esasperati e supercazzole
tecnologiche degne della fantascienza deteriore, il film ha un grosso
problema di fondo: non funziona come vorrebbe. Non funziona anche e
soprattutto perché vuole fare qualcosa di impossibile o quanto meno
improbabile senza la giusta convinzione. Vuole (provare a) portare
avanti un discorso già profondamente risolto senza le giuste idee,
basandosi semplicemente su un abbrivio (e su un brivido) di
autocompiacimento.
E così passano quasi in secondo piano gli
altri problemi che il film si trova a evidenziare. Quelli di un contesto
action derivativo anche di modelli non originari (da Batman a Romero,
che peraltro ispira una delle sequenze più riuscite da un punto di vista
meramente spettacolare). Passa in secondo piano la banalizzazione (che
sia voluta o meno) di personaggi fondamentali, dal Morpheus di Yahya
Abdul-Mateen II, che perde tutta la sua gravitas per assumere
atteggiamenti marveliani, all’Agente Smith che si trasforma in un dandy
con un decimo del carisma di Hugo Weaving.
Insomma, "Matrix
Resurrections" non funziona. Si avvita continuamente su se stesso e
finisce per sgretolarsi come un castello di carte squassato da una
brezza rigorosamente digitale. Con buona pace dell’impegno e del
travaglio interiore di Lana.
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