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06/01/2022

Matrix Resurrections (2021) di Lana Wachowski

Di risurrezioni ce n’erano state a iosa già nella trilogia originaria. Due esplicite, quella di Neo nel primo film e quella speculare di Trinity in "Reloaded", e quelle improprie, in quanto digitali, dell’Agente Smith e dell’Oracolo. E l’uscita di un quarto episodio della saga ne lasciava presagire due (o almeno due) ulteriori: quelle "recidive" degli stessi Neo e Trinity, ovviamente.

Insomma, tutto lasciava intendere che il termine scelto per un ritorno in grande stile della saga di Matrix, che nei suoi sequel ha sempre avuto un titolo contenente una specificazione iterativa (dal più banale Reloaded al più ricercato Revolution, con un’etimologia che deriva da ri-voltare, ri-volgere), non potesse che andare a parare sulla Risurrezione. Risurrezione come ri-sorgere, sorgere nuovamente, anche in questo caso con prefisso iterativo.

Restava dunque da capire – e la domanda era ben lecita – se le risurrezioni (al plurale) invocate dal titolo di questo nuovo capitolo della saga, oltre che – banalmente – richiamare quelle fisiche dei due protagonisti, maschile e femminile, si sarebbero accompagnate a una risurrezione delle idee o se invece ci saremmo trovati di fronte a una mera risurrezione del franchise a scopi squisitamente commerciali, in questi anni di sequelizzazione selvaggia, in cui non sembra potersi fare altro che ripescare dall’immaginario di quei prodotti che il tempo ha issato al rango di cult ultragenerazionali.

Ebbene, "Matrix Resurrections" inizia con uno pseudo-reboot che sin da subito rivela la sua natura metatestuale, a tratti in maniera esplicita e dichiarata. I personaggi sono lì a commentare una scena analoga a quella che apriva il "Matrix" del 1999, evocando le analogie con quello che però nella finzione scopriamo essere un videogioco, anziché un film. Reboot e metatesto si inseguono ostinatamente per tutta la prima parte. Le autocitazioni sono visuali e letterali, invocate con inserti visivi e all’interno dei dialoghi, dove si arriva addirittura a disquisire del bullet time.

La prima parte di "Matrix Resurrections" potrebbe sembrare quella concettualmente più interessante, quella che la regista utilizza per portare avanti un discorso ironico (e autoironico) sulla serialità oltranzista dei giorni nostri. Una prima parte che, così facendo, si rivela però del tutto distante dallo spirito e dalla natura della trilogia originaria. Dalla riflessione filosofica (Matrix come metafora del capitalismo, del consumismo, dell’identità sessuale) si passa infatti alla riflessione metatestuale vagamente autocelebrativa. Con l'enorme dubbio di fondo sull'opportunità di usare il fenomeno Matrix come grimaldello per le proprie riflessioni teoriche: ma del resto ciò che può sembrare dissacrante per alcuni di noi, per Lana Wachowski può essere stato nientemeno che una liberazione.

Insomma, sembra quasi che un postmoderno cannibale voglia fagocitare una delle sue creature più eminenti. "Matrix Resurrections" sembra quasi l’"8 e mezzo" (scompaginato) di Lana Wachowski, tormentata dai suoi demoni e in ansia da prestazione nei confronti della Warner Bros., che finisce essa stessa nel calderone delle citazioni.

Una Warner Bros. che (nella realtà come nella finzione) vuole il sequel e basta, che Lana infine offre rientrando nel circolo vizioso delle realtà (al plurale, of course), tornando in carreggiata con sogni, realtà neuronale, realtà virtuale, realtà reale, solita mise en abyme wachowskiana che torna ad esserci familiare, soltanto più amplificata a causa della necessità di andare oltre, di alzare l’asticella perché così si deve fare quando ci si presenta ai blocchi di partenza con una sfida simile.

Tra guerre che non sono davvero terminate (signori, abbiamo scherzato!), livelli di complessità esasperati e supercazzole tecnologiche degne della fantascienza deteriore, il film ha un grosso problema di fondo: non funziona come vorrebbe. Non funziona anche e soprattutto perché vuole fare qualcosa di impossibile o quanto meno improbabile senza la giusta convinzione. Vuole (provare a) portare avanti un discorso già profondamente risolto senza le giuste idee, basandosi semplicemente su un abbrivio (e su un brivido) di autocompiacimento.

E così passano quasi in secondo piano gli altri problemi che il film si trova a evidenziare. Quelli di un contesto action derivativo anche di modelli non originari (da Batman a Romero, che peraltro ispira una delle sequenze più riuscite da un punto di vista meramente spettacolare). Passa in secondo piano la banalizzazione (che sia voluta o meno) di personaggi fondamentali, dal Morpheus di Yahya Abdul-Mateen II, che perde tutta la sua gravitas per assumere atteggiamenti marveliani, all’Agente Smith che si trasforma in un dandy con un decimo del carisma di Hugo Weaving.

Insomma, "Matrix Resurrections" non funziona. Si avvita continuamente su se stesso e finisce per sgretolarsi come un castello di carte squassato da una brezza rigorosamente digitale. Con buona pace dell’impegno e del travaglio interiore di Lana.

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