di Mimmo Porcaro
Uno dei più importanti problemi teorici di questi tempi è quello di mostrare il legame necessario tra guerra e capitalismo e di fare in modo, quindi, che tra la cosiddetta geopolitica e la critica dell’economia politica non si crei un fossato tale da indurle ad andare ognuna per la sua strada, dimenticando l’una le classi e l’altra gli stati. Il libro che qui esamino[i] entra di fatto nel merito perché, proprio mentre sottolinea la cogenza della marxiana legge di centralizzazione del capitale, costruisce immediatamente un nesso tra questa legge “economica” e la funzione “politica” del banchiere centrale. Il risultato, come vedremo, non è del tutto convincente: vengono chiarite importanti questioni, ma altre vengono offuscate. Il ragionamento degli autori è comunque di quelli che impongono di andare all’essenza delle cose, il che è esattamente quello che dobbiamo fare. Oggi più di ieri.
Centralizzazione, una riscoperta opportuna
Cominciamo col riassumere alcune delle tesi fondamentali del volume, anche se esse dovrebbero essere ormai note agli happy few che si interessano di queste cose. Come gli autori ci ricordano, se in Marx la concentrazione del capitale è il processo di crescita del capitale singolo attraverso l’autonoma accumulazione, la centralizzazione – spesso erroneamente chiamata anch’essa concentrazione – si ha quando numerosi capitali già formati, sconfitti nella competizione, cadono nelle mani del capitale vittorioso attraverso liquidazioni, fusioni e acquisizioni; oppure si ha quando una proprietà formale assai frammentata si trova di fatto riunita in poche mani vuoi per il meccanismo dell’outsourcing, vuoi per effetto della gestione del capitale di una miriade di azionisti da parte dei vertici di Spa o banche. Ed è proprio quest’ultimo il caso che più interessa Marx e i nostri autori, perché la centralizzazione via capitale azionario travalica i confini delle imprese e delle nazioni, ed anche quelli della stessa proprietà privata, la cui ristrettezza quantitativa è di ostacolo allo sviluppo illimitato del capitale. Gli autori però non si limitano a riaffermare con forza la razionalità della legge marxiana ma ne offrono la prima verifica empirica su larga scala, usando una tecnica di net control analysis, fondata sulla teoria dei sistemi complessi, che consente di valutare l’intrico delle partecipazioni azionarie e di risalire ai (pochissimi) nuclei dominanti, quantificando la percentuale di azionisti che controlla la maggior percentuale del capitale azionario mondiale. E i risultati sono sotto molti aspetti dirimenti: una quota di azionisti che arriva solo all’1% del totale controlla l’80% del capitale. Detta quota era relativamente inferiore prima della crisi del 2007, ma si è poi assestata sui livelli attuali e, a prescindere dalle oscillazioni, comprende quasi sempre gli stessi gruppi di controllo, ossia pochi grandi fondi di investimento quali BlackRock e simili.
Non può sfuggire l’importanza della tesi qui esposta. Confermare una legalità ontologica del capitalismo, ossia la presenza di dinamiche che non sono l’esito delle libere interazioni tra individui o gruppi, è una mossa fondamentale per criticare l’individualismo metodologico dell’economia mainstream e, aggiungo, della sedicente scienza politologica che su di essa si fonda. Ma aiuta anche a superare quella sorta di interazionismo che è da tempo egemone all’interno egli stessi movimenti anticapitalistici. Si pensi all’insistenza di un Laclau nel negare valore ad ogni oggettività sociale e nel ridurre le relazioni di classe ad atti linguistici intersoggettivi: per cui l’importante è autodefinirsi in un modo performativamente efficace a prescindere da qualunque valutazione obiettiva dei rapporti sociali[ii]. Idea tanto più nefasta quanto più capace di individuare un problema reale – ossia l’odierna difficoltà a procedere ad aggregazioni politiche su esplicita base classista – e quindi di ispirare progetti populisti che risultano, sì, immediatamente vincenti, ma poi sono costretti a fare i conti con la materialità delle gerarchie sociali. Gli effetti della posizione degli autori vanno però ancora oltre: mostrando la crescita esponenziale del potere del capitale essi destituiscono di fondamento tutte quelle ipotesi che negli ultimi decenni si sono esaurite nella rivendicazione dei diritti del lavoro, oppure nella tutela dei beni comuni, o infine nell’esaltazione del terzo settore, eludendo così completamente la questione della pianificazione e della proprietà pubblica, unico quadro entro il quale i diritti sono efficaci, i beni comuni non sono un escamotage e il terzo settore non è solo privatizzazione del welfare. Pianificazione e proprietà pubblica che la presenza di una massiccia centralizzazione privata legittima sia concettualmente che politicamente.
I capitalismi sono tutti uguali?
La tesi centrale del libro meriterà quindi ulteriori discussioni perché offre una base importante per riprendere un ragionamento socialista (anche, tra l’altro, suggerendo un possibile nesso tra centralizzazione e crisi). Ma proprio l’importanza di questa tesi mi spinge già da ora a indicare quelli che mi paiono i suoi punti deboli, anche per contribuire a preservarla da possibili défaillance. Non possedendo le competenze necessarie per una critica del testo dal punto di vista strettamente economico (e, ancor meno, econometrico) prenderò per buone gran parte delle conclusioni degli autori e concentrerò l’analisi soprattutto sul nesso tra la legge individuata e il complesso del sistema capitalistico, politica inclusa. Non prima di aver osservato, però, che forse non sarebbe sbagliato ipotizzare un’eventuale dinamica ciclica , o comunque possibili forti oscillazioni della centralizzazione, e questo non solo per meglio comprendere la realtà, ma anche per non formulare ipotesi troppo rigide e quindi più fragili. Del resto non pare che l’importanza analitica e politica della legge sarebbe sminuita se il ristretto nucleo degli azionisti vittoriosi variasse nel tempo, poniamo, dall’ 1% al 15%: la distorsione strutturale della concorrenza, e della democrazia, sarebbe in ogni caso evidente.
La mia critica principale riguarda comunque altro, ossia il carattere uniformante che gli autori attribuiscono alla legge in questione, ritenendo che essa tenda a rendere simili tra loro tutti i capitalismi del globo. Certo, nel libro si riconosce che la legge è sottoposta a un tasso di variabilità e quindi è “potentissima ma anche fragile, soggetta a scossoni, frenate, talvolta persino inversioni di rotta, a seconda delle modalità con cui essa viene a intrecciarsi con le crisi, con gli orientamenti di politica economica del capitale, e talvolta anche con le guerre”[iii]. E lo snodo decisivo per pensare tale variabilità e non lasciarla totalmente in balia del caso è l’idea per cui la marcia della centralizzazione non procede per semplice logica propria, ma dipende anche dall’azione di un soggetto che opera con modalità latamente politiche, ossia dal banchiere centrale. Secondo gli autori è erroneo sostenere, come fa la teoria ortodossa, che il ruolo del banchiere è quello di assicurare la stabilità dell’inflazione e del reddito attorno al presunto “equilibrio naturale”. In realtà egli può far poco per controllare il ciclo economico, ma può far molto per dettare i tempi della centralizzazione, agendo sul tasso di interesse in modo da favorire i debitori o i creditori. Egli non cerca quindi l’equilibrio (che nel capitalismo può essere solo casuale), ma valuta quale sia, in una determinata fase, il tasso d’interesse tecnicamente e politicamente accettabile: tecnicamente, perché l’insolvenza di alcuni capitali non indica necessariamente una loro inefficienza assoluta e quindi non rende inevitabile il loro fallimento; politicamente perché la scomparsa o meno dei piccoli capitali ha evidenti effetti sui rapporti fra le classi e sul governo. Insomma, il banchiere centrale agisce in modo da ottenere la riproduzione “ordinata” dei rapporti sociali capitalistici, e tale riproduzione può richiedere ora un rallentamento, ora un’accelerazione della centralizzazione. Il rispetto della “condizione di solvibilità”, che si realizza quando il saggio di interesse è inferiore o quantomeno uguale al tasso di accumulazione, è alla fine una scelta politica: la condizione di solvibilità consente sempre e comunque “almeno un grado di libertà”[iv].
Ma questa libertà, appena concessa, sembra quasi spaventare gli autori, come se potesse inficiare in qualche modo la legge di centralizzazione sottoponendola all’arbitrio politico[v]. E infatti viene subito revocata: prima di tutto subordinando l’azione individuale del banchiere al processo complesso della lotta di classe (e ciò è corretto), ma poi dando a questo processo un esito scontato e lineare, nel senso che se il banchiere centrale influenza il ritmo della centralizzazione, d’altro lato il potere soverchiante del capitale centralizzato condiziona implacabilmente l’azione di quest’ultimo spingendolo sempre verso la massima centralizzazione possibile. Così, però, la figura del banchiere, invece di costituire un nesso tra le logiche distinte (distinte per i mezzi e per i fini) dell’economia e della politica, viene ridotta ad essere, probabilmente sulla scorta di Hilferding[vi], il vettore della pura e semplice incorporazione della politica nell’economia. È invece proprio l’incontro tra le logiche eterogenee dell’economia e della politica a spiegare le variazioni storiche e a spiegarle non come mere accidentalità: infatti se il banchiere centrale influenza, nell’ipotesi degli autori, soltanto il ritmo della centralizzazione, l’insieme delle attività politico-istituzionali influenza invece l’intera forma storico-sociale d’esistenza della centralizzazione stessa e di qualunque altra dinamica del capitalismo.
En passant: nel paese dei Carli, dei Ciampi e dei Draghi è opportuno osservare che, peraltro, lo stesso banchiere centrale influenza l’andamento delle cose non soltanto come banchiere, ma anche direttamente come politico. Se Carli ha esercitato una funzione politica tanto decisiva quanto nascosta[vii], Ciampi e Draghi hanno dovuto assumere altissimi incarichi politici e istituzionali per completare l’opera intrapresa come “tecnici”. Di solito si interpreta questo passaggio come segno dell’avvenuta fine della politica a vantaggio dell’economia, ma io credo sia meglio dire, al contrario, che la politica monetaria ha oggi effetti talmente pesanti che non è più autosufficiente, e deve quindi essere accompagnata anche da una ridefinizione per via extraeconomica dei rapporti fra le classi (la concertazione di Ciampi) e fra gli stati (l’Europa dello stesso Ciampi e il famoso “peso internazionale” di Draghi). Se il personale politico adatto allo scopo proviene dalla Banca d’Italia ciò è in gran parte effetto della fine dei partiti come fucine di gruppi dirigenti, ma non certo della fine della politica.
Tornando al nostro libro, la conseguenza più importante del tono deterministico che la legge assume presso gli autori è l’idea che, poiché la legge impone in ogni caso un eguagliamento delle dimensioni e del ritmo della centralizzazione su scala mondiale, si può e si deve dire che tutti i capitalismi sono sostanzialmente uguali. Il libro insomma, in espressa polemica con chi ha sostenuto l’esistenza di diversi capitalismi e ha enfatizzato, ad esempio, le differenze tra un modello anglosassone, uno renano e uno latino (divergenti quanto a strutture proprietarie, funzione delle banche, presenza o meno di una socialdemocrazia, ecc.), sostiene invece la netta convergenza verso un deciso aumento della centralizzazione del capitale in tutti i paesi del globo che divengono quindi su questo punto omogenei. Ma, osserva il profano, anche ammettendo che tutti i capitalismi siano uguali, non ne consegue affatto che siano uguali anche le concrete formazioni economico sociali[viii] nelle quali il capitalismo trova esistenza effettuale; formazioni economico sociali che generalmente fanno perno su territori e stati determinati (pur non coincidendo necessariamente in toto con essi), la cui storia e la cui azione modificano significativamente la forma d’esistenza del capitale. O, almeno, la modificano in maniera significativa per chi vuole agire politicamente, giacché il luogo della politica non è il modo di produzione capitalistico in generale, ma appunto la singola formazione sociale considerata ovviamente nei suoi nessi internazionali. Come vedremo meglio fra poco, è proprio la mancata considerazione delle suddette formazioni a favorire una lettura meramente quantitativa e livellante dell’intero processo di centralizzazione: cosa che tra l’altro può rendere meno evidente la cogenza del nesso tra capitale e guerra.
Capitale, stato e guerra
Il nesso tra economia di mercato e guerra è in realtà ben chiaro agli autori, per i quali è stata proprio la globalizzazione, creando inevitabilmente vincitori e vinti, ad aggravare la conflittualità internazionale fino a condurla allo scontro attuale. Ma è piuttosto il nesso tra centralizzazione e guerra ad essere posto in maniere poco convincente. È come se la legge di centralizzazione, con la sua massiva evidenza e con la sua tendenza a tutto spiegare, divenisse alla fine un ingombro, un groviglio da cui ci si deve in qualche modo districare. Ciò appare soprattutto quando gli autori, nell’insistere sull’effetto livellante della centralizzazione, si accorgono di quanto questa lettura sembri analoga alle fumose tesi negriane sul presunto impero, e si affrettano a prendere le distanze da esse[ix]. Ma ciò non basta a fugare i dubbi. Prima di tutto perché, posta la tendenza all’omogeneizzazione, le divergenze che comunque ancora si manifestano, e le stesse guerre, vengono definite come una possibile rottura della logica della centralizzazione, come una mera eventualità legata a potenziali interruzioni della catena causale: ed è ben strano che una legge che ci viene presentata come assolutamente cogente sia poi costretta a spiegare il fenomeno più significativo della nostra epoca, ossia la guerra capitalista, quasi come un’eccezione[x]. Inoltre, qui l’azione del banchiere centrale, che dovrebbe spiegare le divergenze di cui sopra, viene definita in maniera incerta, ed è considerata a un tempo rilevante e no, è ritenuta certamente non esogena rispetto all’economia, ma nemmeno univocamente determinata dalla “struttura”, ecc. : oscillazioni che, tutte, indicano un nucleo di evidenti difficoltà per la cui soluzione si rimanda ad una desiderabile quanto vaga riconsiderazione dell’althusseriana “determinazione in ultima istanza” [xi]. Infine il nesso inscindibile tra capitalismo e guerra viene poi riproposto, su basi più classiche, col dire che la centralizzazione si accompagna comunque alla crescita delle asimmetrie tra creditori e debitori e quindi al protezionismo dei secondi: e che ciò rinserra alla fine la centralizzazione stessa dentro perimetri geopolitici più ristretti, trai quali deflagra poi il conflitto militare. Qui la supposta marcia eguagliatrice della centralizzazione induce, lo vogliano o meno gli autori, a considerare la globalizzazione come processo a-statuale, che soltanto nella sua crisi ricorre alla guerra e quindi agli stati. In realtà gli stati sono sia i promotori e gestori della globalizzazione sia suoi liquidatori fallimentari. Si trovano sia all’inizio che alla fine della globalizzazione e contribuiscono a diversificare le forme della centralizzazione, conferendo ad ogni blocco nazionale o regionale del capitalismo i suoi tratti specifici. Dimenticando i quali diviene difficile la comprensione delle motivazioni concrete e particolari delle guerre, a detrimento di una corretta valutazione politica delle stesse.
Ad esempio nel testo è denunciata con chiarezza la politica di espansione della Nato ad est e, oltre a ciò, è acutamente rilevato il fatto che le sanzioni non sono tanto una conseguenza, quanto una causa della guerra, essendo in gran parte antecedenti al fatidico 24 febbraio, avendo natura sempre meno militare e sempre più economica, e non essendo più una risposta alle pratiche scorrette del soggetto sanzionato bensì un momento del generale friend shoring, ossia del protezionismo degli Stati Uniti contro i propri avversari strategici. E però poi si presume che la guerra sia scattata soprattutto per l’esigenza russa e cinese di riscuotere crediti e per valutazioni attorno alla possibilità di sostenere i propri investimenti all’estero e il proprio grado di centralizzazione capitalistica. Qui si assiste alla scomparsa della dimensione territoriale della guerra, che pare, anch’essa, una mera funzione della dimensione economica. E in tal modo l’azione della Russia, e anche quella della Cina, è equiparata a quella di qualunque altro agente capitalistico ostacolando così la comprensione dei differenti modi di fare e di concepire la guerra, decisivi per valutare il comportamento dei diversi attori. Intendiamoci bene: non si tratta di stabilire chi abbia cominciato, né chi sia il buono e chi il cattivo. La Russia è sicuramente un paese capitalista, la Cina a mio parere no, ma chiaramente incorpora in sé un fortissimo capitalismo privato che fa sì che la sua politica possa avere dei tratti imperialisti. Ma entrambe, Russia e Cina, sono formazioni sociali in cui la forza politica dei gruppi capitalistici è meno cogente di quanto non lo sia altrove[xii], e in cui quindi la guerra, almeno per ora, è vista meno come proiezione necessaria dell’espansionismo economico e più come elemento difensivo territoriale: quindi l’opzione militare può essere netta rispetto ai territori confinanti ma (anche se oggi la nozione di confine tende a dilatarsi), è relativamente meno pronunciata rispetto al mondo intero. E ciò anche perché parliamo di paesi che hanno al momento un arsenale assai inferiore a quello occidentale[xiii]. Quindi è scorretto dire che il motivo scatenante di questa guerra è l’esigenza orientale di riscuotere dagli occidentali: gli squilibri economici (ossia in buona sostanza il fatto che l’occidente è uscito sconfitto dalla globalizzazione e ora non vuole pagare i debiti) sono lo sfondo della guerra; di più: solo quando essi si “risolveranno” verranno a cadere le ragioni dell’attuale conflitto mondiale. Ma non sono la causa diretta delle diverse, concrete scelte militari, che invece dipendono dalla natura degli stati (inclusa la loro forza tecnico-economica) e dalla loro collocazione territoriale.
Per un’analisi qualitativa
Insomma, la legge della centralizzazione, se usata come passepartout, rischia di incepparsi: e volendo salvare il suo contenuto razionale dobbiamo chiederci perché questo avvenga.
Il profano, come già detto, non può affrontare direttamente considerazioni di teoria economica o di econometria. Ma può comunque esporre alcuni dubbi. Prima di tutto, vista l’aria che tira, sarebbe stato forse meglio precisare che i 4 o 5 investitori globali che presidiano le prime posizioni della centralizzazione non sono per questo i padroni del mondo, ma “solo” le punte di diamante del famoso1%, e che se la centralizzazione ammazza la concorrenza non per questo elimina, ma anzi aumenta, la competizione fra capitalisti, che adesso consiste soprattutto in trucchi vari, assalti proprietari, spionaggio industriale, corruzione di insider ecc. . Anche per questo “loro” sono in grado di dar vita a complotti in qualche modo efficaci, ma non tali da determinare il senso della storia come da troppe parti si vuole. E poi: vero che anche con una quota minima di azioni si può controllare un intero gruppo di società, ma vero anche che, come riconosciuto nel testo[xiv], il controllo tende ad indebolirsi con l’aumento della distanza tra controllante e controllato, ossia col numero dei passaggi e degli incroci azionari; e, inoltre, minore è la quota azionaria, maggiore è la contendibilità del controllo, costringendo così il capofila a incorporare in qualche modo nelle proprie decisioni i voleri delle minoranze, pena azioni ostili. Ma soprattutto: per ben comprendere la presa del controllo azionario sui singoli settori e spazi economici sarebbe necessario conoscere la natura delle aziende controllate, il loro ruolo all’interno di un sistema economico, il loro rispettivo rapporto con la politica. Insomma: l’evidenza empirica quantitativa che emerge dalle ricerche degli autori, dovrebbe ora spingere, per completare il quadro e comprendere gli effetti più fini della legge individuata, verso un’analisi qualitativa che darebbe spazio alla comprensione delle differenze. Ricordo, ad esempio, che nell’importante studio di Marcello De Cecco sul sistema finanziario pre-1914, si sostiene che una centralizzazione bancaria di entità eguale (o comunque paragonabile), portava in Inghilterra e in Germania ad esiti del tutto diversi a seconda del diverso rapporto istituzionale e politico tra banche private, banca “pubblica” e sistema delle imprese[xv]. Per non andar troppo lontano, mi pare ovvio che la centralizzazione del capitale azionario svolga una funzione diversa a seconda del peso del mercato azionario stesso nel finanziamento del capitalismo dei singoli paesi, o a seconda del numero delle imprese pubbliche che sfuggono alla centralizzazione, o che comunque più efficacemente le resistono. Insomma: qualità e non solo quantità.
Per inciso, ma non è soltanto un inciso, osservazioni analoghe vanno fatte a proposito del presunto processo di omogeneizzazione del lavoro (teorizzato soprattutto da Brancaccio e soprattutto in altri testi[xvi]) che, connesso alla centralizzazione, costituirebbe una buona base per la sospirata unificazione politica dei lavoratori. Anche in questo caso possiamo prendere per buoni i dati che indicano l’aumento della convergenza tra salari e tra posizioni lavorative: ma il fatto è che è proprio dalla convergenza stessa che possono essere tratti argomenti per mostrare un possibile aumento della divaricazione nei comportamenti politici. Infatti chi converge verso il basso, soprattutto se si tratta di ex lavoratori autonomi, si sente declassato e quindi tende a distinguersi in maniera reazionaria dagli altri lavoratori; ma anche chi converge verso l’alto può essere portato ad avere comportamenti non solidali nei confronti di chi è rimasto sotto. Più in generale, e soprattutto: convergere significa anche insistere sulle medesime fasce del mercato del lavoro; detto altrimenti significa aumento della concorrenza e quindi delle divisioni, e questo facendo astrazione dalla crescita dell’immigrazione che, qualunque ne sia l’effetto sul salario, implica comunque una notevole balcanizzazione culturale dei lavoratori.
A maggior ragione queste conclusioni valgono nei confronti dei lavoratori europei. Infatti quelli che potrebbero essere eventuali dissidi tra i lavoratori di due o più paesi, come conseguenza della competizione trai rispettivi sistemi industriali, all’interno dell’Unione diventano invece dissidi strutturali e inevitabili, perché tra paesi stessi, e quindi tra lavoratori, sussistono qui stretti rapporti di dare e avere che sono, o sono percepiti, come rapporti a somma zero.
Ma andiamo oltre, e torniamo al ragionamento teorico sulla differenza tra le formazioni sociali.
Riproduzione versus ripetizione
Abbiamo già notato che nel testo in esame lo stato arriva troppo tardi (e peraltro solo in veste di banchiere centrale). Cosa intendiamo dire, di preciso? Qui si tratta di accennare proprio alla questione, inevitabilmente lasciata in sospeso dagli autori, della “determinazione in ultima istanza”, ossia alla vetusta discussione su struttura, sovrastruttura, ecc. Discussione che ormai potrebbe fare decisi passi avanti riconoscendo che nel capitalismo non comanda né l’economia né la politica, ma l’esigenza di riprodurre ad ogni costo i rapporti sociali di dominio e sfruttamento. Esigenza che viene affrontata con diversi tipi di relazioni, storicamente mutevoli, tra un’ economia che è “politica concentrata” (Lenin) e una politica che è sempre anche politica economica. Certo, esiste una particolarità dell’economia capitalista che la rende in un primissimo momento logicamente indipendente dalla politica, ossia il fatto che qui l’estorsione del plusprodotto avviene come puro risultato del processo economico, senza ricorso a coercizione[xvii]. L’economia capitalistica sembra quindi qualcosa di meramente naturale e/o tecnico e indubbiamente i capitalisti preferirebbero comandare affidandosi soltanto a un meccanismo apparentemente impersonale e neutro. Ma in realtà, date le contraddizioni nascoste dietro la neutralità dell’economia, il processo di produzione, anche a prescindere dalle crisi, non può avviarsi e svilupparsi senza l’intervento dello stato come garante del potere liberatorio del denaro, del rispetto dei contratti, della mediazione dei conflitti tra capitalisti e tra capitalisti e lavoratori, e come tutore dell’ordine sociale. E stato vuol dire in qualche modo territorio, e territorio vuol dire rapporto con altri territori. E infatti il capitalismo non potrebbe svilupparsi, o non potrebbe farlo nelle dimensioni che abbiamo conosciuto, senza la mediazione statuale del rapporto con altri spazi economici. Il dominio capitalistico si esercita quindi come intreccio mutevole tra economia e politica: ma, ci si può chiedere, alla fine chi comanda fra le due? Comanda, come già detto, sempre un terzo, ossia l’esigenza di riprodurre i rapporti (rectius, le gerarchie) sociali in condizioni date. A seconda delle fasi storiche il davanti della scena è occupato ora dall’economia (fasi di espansione, globalizzazione ecc.), ora dagli stati (fase attuale, guerra tra blocchi ecc.) secondo un ritmo che potrebbe essere coerente coi cicli individuati da Arrighi. Ma gli stati, come abbiamo visto, sono sempre presenti: la diversità, la differenza, sono quindi interne alla stessa fase di omogeneizzazione.
Tutto ciò può essere colto solo dall’analisi storico-concreta, ma in realtà è anche frutto di una necessità concettuale. L’eterogeneità dell’economia e della politica capitalistica fa sì che ogni concreta formazione sociale sia determinata non solo da un passato che è diverso per ogni luogo, ma anche dal movimento non sincronico e necessariamente differenziato del capitale e dello stato. L’essenza stessa del regime capitalistico, ossia il nesso capitale-stato, produce disomogeneità: dà luogo alle dissonanze tra le differenti temporalità delle diverse parti della totalità sociale (Althusser[xviii]), o, se si vuole, alle disarmonie tra complessi ontologici eterogenei (Lukács[xix]). Ma c’è di più. Una piena comprensione del modo di funzionamento del capitalismo deve svincolarsi dall’idea della riproduzione come ripetizione dell’identico[xx]. Ogni fase di riproduzione è un atto creativo: i rapporti sociali fondamentali indicano un compito all’insieme della società, ossia quello di garantire la loro stessa riproduzione, ma questo compito viene svolto ogni volta in maniera diversa a seconda della diversa capacità mostrata dagli agenti nell’interpretare la situazione, e delle loro scelte. E come nella riproduzione biologica sono possibili, e anzi frequenti, gli errori di replicazione, a maggior ragione nella riproduzione sociale si registrano numerose deviazioni degli agenti rispetto a un comportamento astrattamente ottimale[xxi]. Anche da ciò l’originalità e divergenza storica delle formazioni sociali. Qui non aiuta, ed anzi può essere d’ostacolo, la nozione althusseriana di “processo senza soggetto” cara agli autori. A meno che essa non venga riformulata come “processo senza soggetto sovrano”, ossia a meno di precisare che i soggetti non possono certo decidere sulle situazioni date in cui devono operare (e per questo non sono ”sovrani”), ma possono comunque scegliere come comportarsi nelle diverse situazioni, e le loro scelte hanno una funzione essenziale nel definire la forma del processo, che anche per questo è una forma differenziata. Di Althusser andrebbero piuttosto riprese, qui, le tesi sul materialismo aleatorio, che prevedono anch’esse l’assenza di un soggetto sovrano, ma considerano la casualità come un momento decisivo della formazione e del funzionamento delle leggi stesse[xxii]. Si potrebbe per questa via giungere alla concettualizzazione di una riproduzione aleatoria (dove aleatoria non vuol dire irrazionale), resa tale dall’incontro di due pratiche (economia e politica) entrambe razionalmente conoscibili, che però producono effetti non completamente prevedibili sia a causa della loro eterogeneità sia a causa della non garantita linearità delle scelte dei soggetti coinvolti. Una riproduzione non come ripetizione, appunto, ma come generatrice di storicità. Ossia, ripetiamolo, come matrice di quelle distinte formazioni storico sociali che sono l’unica sede della politica.
Perché insistere sulle differenze?
Sia la natura del rapporto sociale capitalistico, sia le modalità della sua riproduzione implicano, lo abbiamo appena visto, una costante unità di identità e variazione, tale che nessuna legge si può affermare in ogni dove nell’identico modo. Anzi, quando questo sembri accadere, ciò dovrebbe essere considerato dal ricercatore come un campanello d’allarme. Anche Daron Acemoğlu, contraddittore di Brancaccio in un interessante dibattito, sottolinea la differenza tra le diverse società capitalistiche, ma solo per dedurne che la centralizzazione, così come ogni altra tendenza obiettiva del capitalismo, può essere annullata dalle scelte fatte da quelle stesse società: scelte che però per lui restano tutte interne al capitalismo stesso, assumendo semmai veste socialdemocratica[xxiii]. Io invece sottolineo la differenza proprio per meglio combattere il capitalismo stesso. Tornando alla tipologia dei diversi capitalismi, ad esempio, la presenza o l’assenza di una socialdemocrazia consolidata e/o di un movimento sindacale che sia parte stabile delle reti decisionali, influenza in modo decisivo – nel bene o nel male – l’organizzazione della lotta di classe. Ma più in generale: se i dominanti possono in parte disinteressarsi delle condizioni specifiche in cui si svolge la loro azione, giacché potenti forze inerziali, capaci di spazzare via molti “particolari”, giocano a loro favore, i dominati devono invece studiare con estrema attenzione ogni particolarità del campo di battaglia, perché in fondo a ogni avvallamento e dietro ogni collina può esservi una falla dello schieramento nemico o un pericolo esiziale.
Due note politiche
Ciò detto, chiudo proprio con due questioni politiche. Per cominciare torniamo alla Cina. Dire che la sua politica non può essere definita come imperialista non significa che dunque noi dobbiamo necessariamente allearci con essa, decidendo le nostre mosse in coerenza con le sue. Anche se la Cina fosse il migliore paese socialista possibile essa si muoverebbe inevitabilmente, nell’essenziale, in funzione dei propri interessi geopolitici. La completa identificazione con una potenza statuale “rossa” non poteva funzionare nemmeno all’epoca dell’URSS, che pure prevedeva il sostegno armato ad alcune rivoluzioni nazionali o socialiste. Meno ancora può funzionare con la Cina, che non esporta rivoluzioni ma merci e capitali, e che potrebbe non vedere di buon occhio, per fare soltanto un esempio, un eventuale allontanamento dell’Italia dall’Unione europea, se questo scompaginasse una strategia internazionale tesa per adesso a mantenere almeno alcuni equilibri. Non si tratta quindi di allearsi con la Cina e tanto meno con la Russia putiniana (in cui pure qualcuno vede oniricamente la reincarnazione dell’Unione Sovietica), ma di prendere atto di un fatto ineludibile: se, come Lenin insegnava, nel corso di una guerra il nostro primo scopo deve essere la sconfitta del nostro governo, ciò comporta comunque un’obiettiva convergenza con le forze “antioccidentali” e gli effetti di tale convergenza devono essere ottimizzati, elaborando un autonomo progetto nazionale che tenga conto dei vantaggi che l’Italia otterrebbe dalla costruzione di un effettivo multipolarismo. Gli autori de La guerra capitalista sottolineano giustamente come la “terra di mezzo”, ossia l’Europa, sia forse il territorio che più ha da perdere dallo scontro tra blocchi, giacché, aggiungo io, ha invece guadagnato finora molto (anche se non tutto il possibile) dal rapporto con Russia e Cina. Ma, forse per paura di cadere in un atteggiamento codista, liquidano frettolosamente la questione del multipolarismo dicendo che la situazione attuale è già multipolare. Sul punto mi limito ad osservare che grazie al cielo questo non è l’unico multipolarismo possibile.
Passiamo infine dalle grandi cose alle piccole, ossia all’Italia. Paese che è il tipico esempio di deviazione da uno standard “ottimale” di centralizzazione capitalistica, sia per le ragioni quantitative esposte nel volume, sia per il percorso efficacemente riassunto da Brancaccio altrove[xxiv](ma rispetto al quale si dovrebbe considerare anche il ruolo della centralizzazione pubblica del capitale), che ha condotto a rallentare il ritmo della legge per evitare una pericolosa concentrazione del proletariato: anche da ciò la diffusione della piccola impresa. Al riguardo uno dei più gravi errori di quella sinistra che si è finora chiamata (o si è lasciata chiamare) sovranista è stato quello di insistere su un’alleanza vagamente antieuropeista con la parte più sofferente del piccolo capitale, prima di aver costruito un soggetto socialista autonomo nel corso di un processo di unificazione del lavoro (realmente o formalmente) dipendente. Da ciò è conseguita una subalternità alla destra italiana (sovranista a parole, piattamente servile di fatto) che, unita alla confusione tra obiettivi di prospettiva e parole d’ordine immediate, e unita a scelte elettorali volutamente minoritarie, ha condotto alla sostanziale sparizione di un’area politica che comunque aveva posto un problema, anzi il problema decisivo di questo paese. Ossia la necessità di un programma basato sulla definizione di un interesse nazionale identificato soprattutto con l’interesse dei lavoratori e inteso come base non per risibili rivendicazioni sciovinistiche, ma per la costruzione, nel negoziato con altri stati, di uno spazio economico-politico sufficientemente forte da poter contrastare quei liberi movimenti del capitale globale che sono il primo e più forte nemico di un progetto socialista. Quest’area, ripeto, ha posto assai male la questione delle alleanze di classe, ha sottovalutato gli effetti dell’assenza di un vero movimento proletario (precondizione per porre anche la questione dell’Unione europea[xxv]) e ha troppo confidato in quello che molti anni fa si chiamava “ceto medio”. Aveva dunque ragione Brancaccio quando sosteneva che una semplice uscita dall’Euro avrebbe potuto essere una soluzione gattopardesca[xxvi] e che in ogni caso, se era giusto incunearsi nelle contraddizioni tra grande e piccolo capitale, era da evitarsi come la peste il codismo nei confronti dell’uno o dell’altro. Nel farlo, però Brancaccio (e, immagino, anche i coautori: ma qui parlo solo di lui perché su questi punti si è espresso più esplicitamente) rischiava e rischia di rimuovere del tutto la questione delle alleanze, e questo perché la sua stessa idea di centralizzazione inesorabile tende a fargli considerare il piccolo capitale come un puro e semplice residuo del passato. Anche ammesso ciò, tuttavia, il declassamento dei piccoli imprenditori sarebbe (anzi è) comunque un fatto rilevante, che non potrebbe essere letto soltanto come un necessario tributo al progresso, pena il consegnare per decenni il paese a una destra ancor peggiore di quella attuale. Ma, in ogni caso, il tessuto delle piccole imprese è un tratto specifico dell’economia e dello stesso paesaggio sociale italiano: sono tutte imprese disfunzionali, inutili, incapaci di stare sul mercato se non grazie a evasione e supersfruttamento? Molte sì. Ma la loro eventuale liquidazione (che è spesso un destino già segnato) per non divenire devastante deve essere inserita in un contesto di crescita dell’occupazione stabile (la cui assenza costringe molti a farsi piccoli imprenditori senza avere le necessarie risorse) ed essere gestita gradualmente, non senza aver previsto vie d’uscita di tipo cooperativistico, o sostegni pubblici in cambio del rispetto di standard fiscali e salariali. Molte altre piccole imprese non sono immediatamente in queste condizioni, anzi: e penso anche, ma non solo, alle diffuse imprese di qualità del settore meccanico, o agroalimentare. In questi casi la soluzione sta probabilmente nella costruzione di forme paracooperativistiche come le reti tra imprese et similia. Senza scordare che moltissime piccole e medie imprese sono già centralizzate perché dipendono integralmente dalle banche che le finanziano: qui si tratterebbe di sostituire alla dipendenza dalle banche private la dipendenza da un credito pubblico che offra condizioni vantaggiose in cambio del rispetto degli standard, e magari delle indicazioni di un piano. Come si vede, mille diverse situazioni. Nulla che si possa risolvere attraverso semplificazioni. Chi nel proprio programma non da alla questione delle piccole e medie imprese il posto che merita, non può riuscire a far politica in questo paese. Sarebbe un peccato se il fascino della legge di centralizzazione facesse sottovalutare il peso di questo ulteriore tributo da pagare alla “legge di specificità”.
Note
[i] E. Brancaccio, R. Giammetti, S. Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano-Udine, 2022.
[ii] Come era evidente già in E.Laclau, C. Mouffe, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, Il Melangolo, Genova, 2011.
[iii] E. Brancaccio et. al., op cit., ed. Kindle, pos. 674.
[iv] Ibidem, pos. 1331.
[v] Ibidem, pos. 1633.
[vi] Ibidem, pos 1122.
[vii] Per la quale si rimanda a G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari, 1993, un’autobiografia preziosissima per comprendere gran parte della storia dell’Italia postbellica, e soprattutto della storia dei rapporti di classe.
[viii] Ovviamente anche questo termine termine è tutt’altro che pacifico e per un suo miglior uso bisognerebbe recuperare e aggiornare la discussione che, al riguardo, si svolse nel marxismo degli anni ’70. Per un primo assaggio di questa discussione si veda C. Luporini, Dialettica e materialismo, Editori Riuniti, Roma, 1974.
[ix] E. Brancaccio et. al., op cit., pos. 2407.
[x] Ibidem, pos 2407-2423.
[xi] Ibidem, pos. 2423.
[xii] La cosa, per quanto riguarda la Cina, è riconosciuta anche da Brancaccio, in Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico, Piemmme, Milano, 1922, pp. 138-140.
[xiii] Per un approfondimento di questo punto si potrebbe ragionare su alcune ipotesi della teoria realistica dei rapporti internazionali secondo cui gli stati sono in buona misura dei “conservatori posizionali”. Il che, aggiungo io, non significa ovviamente che essi siano pacifici, ma consente di pensare che l’unione tra capitalismo e stato, quando il primo sia nettamente dominante, trasforma la tendenza bellicista degli stati in una necessità assoluta dettata dalla tendenza del capitale all’espansione illimitata. Per quanto sopra si veda J.M. Grieco, Realismo e neorealismo, in G.J. Ikenberry, V.E. Parsi, Teorie e metodi delle Relazioni Internazionali, Laterza, Roma-Bari, 2001, e in particolare la p. 32. L’ipotesi che l’egemonia del capitalismo comporti un salto di qualità nel bellicismo non è propria dei soli teorici marxisti dell’imperialismo, ma anche di studiosi assai distanti: “Proprio il grande sviluppo economico stringeva gli stati in una morsa ferrea, lanciandoli in una gara per la conquista di mercati di rifornimento o di mercati di sbocco che conferiva alle rivalità internazionali un’acuità e quasi direi un meccanismo mai prima verificatosi, onde l’avvento dell’età del commercio non solo non faceva scomparire la guerra, anzi la rendeva più implacabile travolgendo nel cerchio fatale l’un dopo l’altro tutti i popoli. “, detto a proposito della fase pre-1914 da F. Chabod in, Idea di Europa e politica dell’equilibrio, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 200. c.n. .
[xiv] E. Brancaccio et. al., op cit., pos.3680.
[xv] M. De Cecco, Moneta e impero. Il sistema finanziario internazionale dal 1980 al 1914, Einaudi, Torino, pp. 172 e ss. .
[xvi] E. Brancaccio, Democrazia sotto assedio, cit., pp. 167-179, e, prima ancora, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi, Milano, 2020, p. 149 e passim.
[xvii] La coercizione è stata infatti esercitata “all’inizio”, ossia nella violenta separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione che ha dato luogo all’accumulazione originaria, e che peraltro si ripresenta nel corso della storia.
[xviii] L. Althusser et al., Leggere il capitale, Mimesis, Milano, 2006, pp. 180 e ss. .
[xix] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, I, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 321 e ss. .
[xx] Per quanto segue sono in parte debitore di Etienne Balibar e del suo Cinque studi di materialismo storico, De Donato, Bari, 1976, pp. 240 e ss.
[xxi] Gli autori definiscono “non completamente condivisibile” – pos. 446 – la visione epistemologica del Keynes che afferma che l’economia è una “scienza morale”, perché in essa è come se la caduta della mela newtoniana dipendesse dalle valutazioni della mela stessa, dal suo decidere se valga la pena di cadere o no, dal fatto che la terra voglia che la mela cada e dagli errori di calcolo della mela rispetto al centro della terra. Io invece la considero una visione sostanzialmente corretta, se non per l’economia, senz’altro per la storia. Intendiamoci: alla fine la mela cade, ma il quando e il come non sono certi.
[xxii] L. Althusser, Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano, 2000.
[xxiii] E. Brancaccio, Democrazia sotto assedio, cit., pp. 211 e ss. .
[xxiv] Ibidem, pp. 64 e ss..
[xxv] Sul punto rimando al mio I senza patria. La solitudine degli italiani in un mondo di nazioni, Meltemi, Milano, 2021.
[xxvi] Cfr. ad esempio E. Brancaccio, op. ult. cit. pp 87 e ss.
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