Seguiamo da mesi il tracollo dell’automotive europeo, comparto che fa da spina dorsale alle economie del Vecchio Continente. Così come abbiamo sempre evidenziato che il contraccolpo che arriverà in tutto l’indotto sarà durissimo, soprattutto in Italia, molto esposta su questo versante.
A inizio anno il Financial Times ha pubblicato un articolo che tratteggia la dimensione del pericolo in cui la pochezza della nostra classe dirigente (padroni e politici) ci ha cacciato. La riflessione riportata sul giornale prende le mosse da un’analisi della European Association of Automotive Suppliers (CLEPA).
Mentre le case automobilistiche devono fare i conti con le difficoltà di vendita, la componentistica ha registrato 30 mila posti di lavoro in meno nel 2024, più del doppio del 2023. Dal 2020 a oggi, il saldo di lavori creati nel settore è pesantemente in negativo, con una riduzione di 58 mila posti in tutta Europa.
Le difficoltà riscontrate a partire dalla pandemia del 2020 hanno indebolito la domanda, e alla fine l’inflazione ha dato il colpo di grazia. Le aziende europee, nonostante la costante richiesta ed elargizione di sussidi, non riescono a stare al passo della competitività cinese, soprattutto a causa degli alti costi dell’energia.
“La nostra stima”, ha affermato Marc Mortureux, a capo dell’associazione francese di categoria Plateforme de la Filière Automobile (PFA), “è che la piccola crescita che potremo avere sul mercato europeo sarà assorbita dalla crescita delle importazioni, in particolare da quelle cinesi”. Molte criticità sono ancora una volta rimandate alla transizione all’elettrico.
I fornitori impiegano 1,7 milioni di persone. Alcune loro importanti realtà hanno annunciato già da mesi importanti piani di riduzione del personale (la francese Forvia ha parlato di 10 mila posti di lavoro sui 75 mila totali che ha in Europa). A novembre Michelin ha dichiarato che avrebbe chiuso due fabbriche francesi, licenziando 1.200 dipendenti.
La motivazione addotta dalla compagnia dei pneumatici è la “sovracapacità strutturale” dovuta alla concorrenza a basso costo in Asia. Ma la scusante è rivelatoria di un problema di fondo, che ha poco a che vedere con i bassi costi asiatici (mentre in Cina i salari medi non hanno più nulla da invidiare a quelli occidentali, a parità di potere d’acquisto).
L’industria automobilistica comunitaria nel suo complesso occupa, in maniera diretta e indiretta, oltre 13 milioni di persone, il 7% del totale UE, e produce l’8% del suo PIL. Dal punto di vista della R&S – ricerca e sviluppo – è proprio la filiera automotive a farla da padrone, rappresentando il 32% degli investimenti.
Il settore auto è dunque il maggior contributore privato in ricerca e sviluppo d’Europa, ed è l’esempio perfetto delle contraddizioni di fondo del capitale, in cui oggi è ormai incastrato: poca razionalità nell’allocazione delle risorse a lungo termine, fino a raggiungere una capacità di sovrapproduzione non assorbibile dai salari nel frattempo compressi.
Se si guarda alla situazione italiana, le nuove immatricolazioni sono calate leggermente nel 2024, ma nel frattempo il prezzo medio di un’auto è passato dai 21 mila euro del 2019 ai 30 mila dell’anno appena concluso. Considerato che il reddito medio del 2023 era 23.650 euro, è come dire che servono 16 mesi di entrate piene per compare una vettura.
È assurdo pensare che mentre i prezzi vengono aumentati per generare più margine di profitto sul singolo veicolo, allo stesso tempo si voglia mantenere lo stesso volume di produzione. E ancora più assurdo è che poi, di fronte alla capacità di sovrapproduzione, a pagarne i costi siano i licenziati (come se inoltre ciò non riducesse la platea dei potenziali acquirenti).
È un circolo vizioso in cui l’industria europea si è cacciata, e alla quale i vertici politici e imprenditoriali del continente stanno rispondendo con un vero e proprio massacro sociale. Loro possono navigare all’interno di questa crisi, e a pagarne le conseguenze peggiori saranno coloro che vivono del proprio lavoro.
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