Questo intervento, molto preoccupato della piega che sta prendendo la repressione del dissenso sotto il governo Meloni, è apparso sul quotidiano di Confindustria. Ovvero del “sindacato” degli industriali, che non hanno certo lesinato elogi e attenzioni verso la maggioranza di centrodestra.
Anche senza nominare – come sarebbe stato giusto, se non altro per completezza – il “decreto sicurezza1660” coloro che scrivono toccano i punti essenziali riguardo un “reato” che potrebbe essere attribuibile a un piccolo gruppo di ragazzi, in maggioranza nordafricani, ripresi in video mentre festeggiavano il nuovo anno gridando un po’ di insulti verso la polizia (presente in massa) e l’Italia in generale.
Il reato di “vilipendio” è un classico reato di opinione, il cui contenuto semplicemente non esiste ma che gli “inquirenti” – polizia e/o magistratura – possono riempire a piacere. È appena il caso di ricordare che gli insulti di qualsiasi tipo sono già classificati come “reato” quando vengono rivolti verso una o più persone.
Molto più complicato invece è considerare “le istituzioni” in generale come soggetti che possano essere “vilipesi” dalle parole. L’unica eccezione che il codice penale individua è non a caso, il Presidente della Repubblica, che è al tempo stesso un individuo e una “istituzione”.
Se si insultano insomma i singoli componenti del governo o della maggioranza scatta, come per tutti i normali cittadini, la possibilità per “la persona offesa” di rivalersi in tribunale. Solo nel caso del Presidente della Repubblica la magistratura può – codice alla mano – promuovere un’iniziativa penale.
Ma il “vilipendio” di qualsiasi istituzione – nel caso in questione “della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze Armate (art. 290 del codice penale) e di vilipendio alla nazione italiana (art. 291)” – può essere contestato solo se si intende impedire la manifestazione di una critica, anche se espressa in forma volgare o popolaresca.
Per dire, dovrebbe essere contestato ogni volta che qualcuno dice “piove, governo ladro”. Mentre ci sarebbe un diluvio di possibili procedimenti in qualche modo più “legalmente giustificati” ogni qualvolta si dice in pubblico “arbitro cornuto” (perché si intende sempre “quell’arbitro lì”, che in questo momento da dirigendo una partita), visto che un arbitro è una persona.
Usciamo però dalle questioni giuridiche, che i due giornalisti de IlSole24Ore ricostruiscono puntualmente, sorvolando anche sulle possibilissime “minimizzazioni” relative all’occasione e al probabile tasso alcolico; concentriamoci sul dato di fatto politico.
Questo governo e questa maggioranza, ogni volta che devono affrontare un problema sociale – l’immigrazione e i “giovani di seconda generazione” sono un problema sociale, ma al tempo stesso anche una possibile risorsa – ricorrono immediatamente all’unico strumento che riescono a concepire: allungare la lista dei reati, aumentare le pene, ridurre le garanzie giuridiche, escogitare “decreti amministrativi inappellabili” (i “daspo”, i “decreti penali di condanna” senza processo, i “fogli di via”, ecc.).
Una serie di provvedimenti che nel loro insieme, con scarsa fantasia, si continua a definire “repressione” e che equivalgono di fatto a un’intimidazione perenne di qualsiasi forma di insofferenza sociale o di dissenso politico.
Il segno più evidente è quando, come in questo caso, si oltrepassa la linea che dovrebbe distinguere le “azioni” ritenute eventualmente sanzionabili (e anche qui ci sarebbe molto da discutere, visto che ormai è “reato” anche sedersi per terra...) dalle semplici parole.
Un ultima annotazione politica pare però necessaria, visto che ai due giornalisti è per qualche motivo sfuggita. A muoversi, in questo caso, pare anche la magistratura. Segno che, come sappiamo da sempre, ben difficilmente questo “potere” costituzionalmente indipendente da Parlamento e governo (legislativo ed esecutivo) agisce contro il potere politico.
È avvenuto ai tempi di “mani pulite”, certo, ma lì l’iniziativa vera veniva da un altro e più potente governo, che fece partire quella grande operazione di lawfare che mirava a spazzare via una classe politica certamente atlantica, corrotta e corrompibile, ma con un tasso di autonomia internazionale che l’attuale – al completo, senza eccezione alcuna – non osa neppure sognare.
Anche senza nominare – come sarebbe stato giusto, se non altro per completezza – il “decreto sicurezza1660” coloro che scrivono toccano i punti essenziali riguardo un “reato” che potrebbe essere attribuibile a un piccolo gruppo di ragazzi, in maggioranza nordafricani, ripresi in video mentre festeggiavano il nuovo anno gridando un po’ di insulti verso la polizia (presente in massa) e l’Italia in generale.
Il reato di “vilipendio” è un classico reato di opinione, il cui contenuto semplicemente non esiste ma che gli “inquirenti” – polizia e/o magistratura – possono riempire a piacere. È appena il caso di ricordare che gli insulti di qualsiasi tipo sono già classificati come “reato” quando vengono rivolti verso una o più persone.
Molto più complicato invece è considerare “le istituzioni” in generale come soggetti che possano essere “vilipesi” dalle parole. L’unica eccezione che il codice penale individua è non a caso, il Presidente della Repubblica, che è al tempo stesso un individuo e una “istituzione”.
Se si insultano insomma i singoli componenti del governo o della maggioranza scatta, come per tutti i normali cittadini, la possibilità per “la persona offesa” di rivalersi in tribunale. Solo nel caso del Presidente della Repubblica la magistratura può – codice alla mano – promuovere un’iniziativa penale.
Ma il “vilipendio” di qualsiasi istituzione – nel caso in questione “della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze Armate (art. 290 del codice penale) e di vilipendio alla nazione italiana (art. 291)” – può essere contestato solo se si intende impedire la manifestazione di una critica, anche se espressa in forma volgare o popolaresca.
Per dire, dovrebbe essere contestato ogni volta che qualcuno dice “piove, governo ladro”. Mentre ci sarebbe un diluvio di possibili procedimenti in qualche modo più “legalmente giustificati” ogni qualvolta si dice in pubblico “arbitro cornuto” (perché si intende sempre “quell’arbitro lì”, che in questo momento da dirigendo una partita), visto che un arbitro è una persona.
Usciamo però dalle questioni giuridiche, che i due giornalisti de IlSole24Ore ricostruiscono puntualmente, sorvolando anche sulle possibilissime “minimizzazioni” relative all’occasione e al probabile tasso alcolico; concentriamoci sul dato di fatto politico.
Questo governo e questa maggioranza, ogni volta che devono affrontare un problema sociale – l’immigrazione e i “giovani di seconda generazione” sono un problema sociale, ma al tempo stesso anche una possibile risorsa – ricorrono immediatamente all’unico strumento che riescono a concepire: allungare la lista dei reati, aumentare le pene, ridurre le garanzie giuridiche, escogitare “decreti amministrativi inappellabili” (i “daspo”, i “decreti penali di condanna” senza processo, i “fogli di via”, ecc.).
Una serie di provvedimenti che nel loro insieme, con scarsa fantasia, si continua a definire “repressione” e che equivalgono di fatto a un’intimidazione perenne di qualsiasi forma di insofferenza sociale o di dissenso politico.
Il segno più evidente è quando, come in questo caso, si oltrepassa la linea che dovrebbe distinguere le “azioni” ritenute eventualmente sanzionabili (e anche qui ci sarebbe molto da discutere, visto che ormai è “reato” anche sedersi per terra...) dalle semplici parole.
Un ultima annotazione politica pare però necessaria, visto che ai due giornalisti è per qualche motivo sfuggita. A muoversi, in questo caso, pare anche la magistratura. Segno che, come sappiamo da sempre, ben difficilmente questo “potere” costituzionalmente indipendente da Parlamento e governo (legislativo ed esecutivo) agisce contro il potere politico.
È avvenuto ai tempi di “mani pulite”, certo, ma lì l’iniziativa vera veniva da un altro e più potente governo, che fece partire quella grande operazione di lawfare che mirava a spazzare via una classe politica certamente atlantica, corrotta e corrompibile, ma con un tasso di autonomia internazionale che l’attuale – al completo, senza eccezione alcuna – non osa neppure sognare.
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Molte e drammatiche notizie affollano i quotidiani del nuovo anno, dal sequestro di giornaliste alle stragi nei teatri di guerra e nelle città americane.
In mezzo ad esse, è apparsa una vicenda certo meno dolorosa o impressionante ma pure emblematica dei nostri tempi e delle risposte del potere al disagio sociale: l’indagine nei confronti di alcuni ragazzi per le intemperanze di cui hanno fatto sfoggio in piazza Duomo a Milano la sera di Capodanno.
I giornali riportano che su TikTok è comparso un video in cui una quindicina di giovani quasi tutti tra i 18 e i 20 anni, quasi tutti nordafricani (ma vi era anche un nostro connazionale), lanciavano insulti all’Italia e alle forze dell’ordine nel corso dei festeggiamenti per la fine dell’anno.
Dopo gli usuali strali di certa politica nostrana e una richiesta di accertamenti del Viminale, di questo video si sono interessati anche gli inquirenti, identificando i partecipanti e realizzando alcune informative giunte in Procura.
Allo stato, riferiscono i media, dopo un incontro fra il Procuratore e il Prefetto di Milano, si sta decidendo se iscrivere nel registro delle notizie di reato i protagonisti degli insulti, per i reati di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze Armate (art. 290 del codice penale) e di vilipendio alla nazione italiana (art. 291).
E già questa è una notizia. I reati di vilipendio sono una sorta di fossile normativo nel nostro ordinamento che il legislatore dovrebbe avere il coraggio di abrogare, se non altro perché in palese ed aperto contrasto con l’architettura costituzionale in tema non solo di libertà di manifestazione del pensiero ma anche di ampia tutela dei diritti politici, in particolare delle minoranze.
Il vilipendio politico compare per la prima volta nel codice Zanardelli (1889), con l’intento, riconosciuto dai molti critici fin d’allora, di fornire uno strumento per la repressione della libertà di critica i cui primi vagiti erano appena stati introdotti nell’ordinamento. Il codice Rocco (1930) non ha fatto che aumentare le pene e i possibili soggetti passivi delle disposizioni incriminatrici.
La repressione del dissenso delle minoranze
In sostanza, la matrice culturale resta la medesima: la repressione del dissenso di minoranze che protestano in modo vibrato contro una maggioranza in cui non si riconoscono.
Ma cosa vuol dire “vilipendere”? Una parafrasi può essere: manifestare dileggio, disprezzo, letteralmente “tenere a vile”. Ma è una parafrasi che non spiega, si limita a dire in altre parole. Una simile vaghezza, secondo alcuni non è frutto di sciatteria normativa, bensì un carattere mantenuto volutamente ambiguo dal legislatore per consentire alla magistratura di riempire di senso un’espressione che ne è obiettivamente povera, nella prospettiva di contenere il dissenso politico.
Ne sono prova le sentenze pronunciate negli anni Cinquanta nei confronti di anarchici, comunisti e separatisti tirolesi per espressioni meno incisive rispetto a quelle che saranno in bocca a esponenti di forze politiche, manifestamente contrarie all’unità nazionale, andate al governo quarant’anni dopo e al potere pure ora.
Non è nemmeno facile dire quale sia l’interesse tutelato da queste disposizioni. La tesi più condivisibile sembra essere quella che lo individua nel prestigio delle istituzioni. E, tuttavia, non sembra davvero che questo sia un bene giuridico che merita tutela in sede penale. Le istituzioni democratiche devono essere rispettate solo finché garantiscono le libertà su cui la democrazia si fonda, libertà tra le quali spicca proprio la dialettica politica e con essa la possibilità di criticare aspramente proprio i poteri pubblici e i loro vertici.
Del resto, un capo dello Stato saggio ed equilibrato quale Giorgio Napolitano si pronunciò per l’abolizione dell’offesa al prestigio del Presidente della Repubblica, preferendo che siano i cittadini a giudicare che cosa è libertà di critica, e che cosa non lo è. Qualcuno ha poi posto in dubbio persino che il vilipendio abbia capacità offensiva perché, come sostiene Tullio Padovani, “solo un prestigio fragile e precario può temere la parola di un esagitato”.
In questa prospettiva, il caso di questi giorni è ancor più paradossale: il prestigio della nazione sarebbe in pericolo per le parole di ragazzi che urlano la propria rabbia. Un disagio reale, che si manifesta anche nelle rime crude e non di rado violente dei trapper delle periferie milanesi, che certo non si cura resuscitando norme retrive e illiberali.
Vi è da sperare, dunque, che la magistratura non spenda tempo e risorse per questo genere di condotte, a nostro avviso lecite pur se deprecabili. Anche la sola presenza di un’indagine potrebbe infatti avere l’effetto di intimorire chi manifesta un dissenso magari radicale e di accrescere il sentimento di ostilità nei confronti del Paese e delle sue istituzioni da parte di chi si sente ai margini. E di ciò non abbiamo davvero bisogno.
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