All’interno di un quadro complessivo di costante calo di produttività nel
settore manifatturiero, verifichiamo l’evidenziarsi di una torsione rivolta
all’incremento dell’industria bellica e, nello specifico, di cessione di aziende
verso proprietà di Paesi impegnati – direttamente o indirettamente – negli
scenari di guerra in atto in situazioni nevralgiche dello scacchiere
internazionale (Ucraina, Medio Oriente, Africa).
È il caso della
cessione di
Piaggio Aerospace ai turchi, legati direttamente alla geopolitica del governo Erdogan, e costruttori
principalmente di mezzi aerei (droni, aerei senza pilota) destinati a svolgere
compiti offensivi.
La Liguria con Villanova d’Albenga, Genova, La
Spezia si trova in primo piano rispetto a questo tipo di situazione, che
potrebbe presentare anche rischi proprio sul piano più specificatamente
militare.
È il caso di riflettere un attimo sulla situazione
dell’industria militare in Italia.
Leonardo, la maggiore impresa
militare italiana con oltre il 70% del settore, è ormai una multinazionale
integrata alle compagnie Usa, dedita all’export (75% dei ricavi), al centro di
complessi reticoli azionari. Fa affari d’oro, ma detiene una quota relativamente
bassa dell’occupazione manifatturiera italiana.
La prima cosa che
balza agli occhi è, infatti, il grado di concentrazione del fatturato
dell’industria militare in poche aziende e la posizione dominante di Leonardo
(ex Finmeccanica) in campo aeronautico, elettronico e degli armamenti terrestri,
e di Fincantieri nella costruzione navale.
Si tratta di due grandi
imprese multinazionali (13° e 46° posto nella classifica SIPRI delle prime 100
aziende per fatturato militare) in cui lo Stato ha mantenuto una quota di
controllo.
I loro ricavi nelle produzioni militari (2022)
raggiungono i 15,3 miliardi di dollari Usa, pari al 12% del giro d’affari del
settore in Europa e a circa il 2,6% di quello mondiale.
In Italia,
concentrano insieme intorno all’80% del fatturato dell’industria militare. Una
parte importante di questo fatturato è realizzato all’estero: per Leonardo in
Usa, Regno Unito, Polonia e Israele, per Fincantieri in Usa.
Leonardo a livello globale ha 51.391 occupati (2022) distribuiti il
63% in Italia, il 15% nel Regno Unito, il 14% negli Usa, lo 0,5% in Israele e il
2,5% nel resto del mondo. Il gruppo è attualmente organizzato su otto aree di
attività: elettronica, elicotteri, aerei, cyber & security, spazio, droni,
aero-strutture, automazione.
Ha una posizione di forza
internazionale nel comparto elicotteri e nell’elettronica per la difesa; mentre
in campo aeronautico opera principalmente come sub-fornitore di primo livello
per i grandi produttori di aerei militari degli Stati Uniti.
Il
gruppo è ancora attivo nella produzione di armamenti navali e terrestri (ex-Oto
Melara e consorzio con Iveco DV) e nel comparto navale subacqueo (ex-Wass).
Fincantieri ha mantenuto la continuità con la storica azienda a
partecipazione statale con il controllo dei maggiori cantieri navali del Paese.
È la maggiore impresa occidentale di costruzioni navali, ha una
forte attività nelle navi da crociera, ma tra il 2022 e il 2023 ha aumentato la
quota di produzioni di navi da guerra dal 20 al 36% del fatturato totale, con
2.820 milioni di dollari di fatturato militare nel 2022, arrivando al 46° posto
nella classifica SIPRI delle 100 maggiori imprese militari.
Un
settore in espansione internazionale è quello delle attività subacquee e, in
questo ambito, Fincantieri è parte con Leonardo del polo nazionale guidato dalla
Marina Militare Italiana a Spezia.
Il settore della subacquea non
significa solo sommergibili, ma anche esplorazione dei fondali e
monitoraggio-sicurezza dei cavidotti e delle infrastrutture energetiche e di
telecomunicazione sottomarine. Questo spiega l’ acquisizione della Remazel
Engineering, un’azienda ingegneristica con esperienza nei gasdotti e oleodotti
sottomarini.
Le scelte di politica industriale dei diversi governi e
le strategie produttive di Leonardo e degli altri protagonisti del settore hanno
portato a più alte quotazioni di Borsa e a maggiori dividendi per gli azionisti,
ma fanno delle produzioni militari un “cattivo affare” per l’economia e
l’occupazione in Italia.
In Italia come in Europa, un allargamento
del “complesso militare industriale” non fa che alimentare il riarmo e i rischi
di estensione dei conflitti, mentre il governo di destra oscilla privo di un
qualsiasi riferimento di politica estera che non sia quello di un richiamato
antistorico ad una sorta di “interventismo di ritorno” contrabbandato come
interesse nazionale.
In questo senso il passaggio di Piaggio
Aerospace ai turchi di Baykar non fa che alimentare legittime preoccupazioni:
vocazione bellica, finanziarizzazione, interessi azioni intrecciati a quelli
geopolitici potrebbero rappresentare un ulteriore punto di sviluppo di crisi
industriale nella rinuncia a una capacità di riconversione e questo avviene
mentre ulteriori produzioni strategiche stanno abbandonando il Paese come nel
caso di Portovesme, dove si producono principalmente zinco e piombo.
Su tutto questo fin qui descritto continua a stagliarsi l’ombra
fosca del nucleare.
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