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22/01/2025

A Davos i cocci dell’Unione Europea

Stavolta il vertice economico di Davos è il regno dell’incertezza. E, come spiegano tutti gli analisti, l’incertezza è il peggior nemico dell’economia...

Ma il motore principale di tutta questa incertezza è decisamente politico: cosa farà l’America di Trump, come reagiranno Cina e Russia, che fine farà la guerra in Ucraina, e soprattutto che ne sarà di una Unione Europea “vaso di coccio” tra contendenti molto meglio attrezzati.

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione (teoricamente “il governo” dell’UE), è ricomparsa dopo settimane di malattia ma non è riuscita ad andare molto al di là della semplice fotografia di una crisi.

“L’ordine mondiale cooperativo che abbiamo immaginato 25 anni fa non si è trasformato in realtà. Al contrario, siamo siamo entrati in una nuova era di dura competizione geostrategica. Dall’IA alle tecnologie pulite, dall’Artico al Mar Cinese Meridionale: la gara è aperta”, ha sottolineato.

Il problema evidente è che nessuno dei comparti trainanti lo sviluppo tecnologico ed economico ha una presenza significativa in Europa. Che al contrario vive lo sfaldamento della sua industria core – la meccanica, con filiere produttive rigorosamente allineate in funzione della produzione tedesca – come un dramma anche sociale, al momento irrimediabile. Il fantasma della rust belt statunitense, che ha vissuto la stessa tragedia nell’ultimo trentennio, è lì davanti.

Quanto alle aree di crisi geopolitica, questa stessa UE è riuscita nel capolavoro di farsi imporre una guerra in casa per soddisfare gli interessi statunitensi, mentre ora – con Trump – quello stesso “padrone” intende chiaramente scaricare problemi e costi su un Vecchio Continente legato ad un letto di contenzione fabbricato con le proprie stesse mani.

Tagliate le forniture di gas russo a prezzo basso (un quarto, in media, di quello acquistato ora), interrotte forse definitivamente sia le infrastrutture che le relazioni politiche con l’Est, resi problematici i rapporti con Cina e Iran, fuori da tutti i giochi che contano. E con una struttura istituzionale fondata sull’ipotesi irrealistica di una “stabilità perenne”, funzionante secondo le norme inventate dai manuali di macroeconomia liberista, così che bastava fabbricare un “pilota automatico” con inserita la marcia corta dell’austerità e il freno della riduzione del debito pubblico, per andare avanti nel migliore dei modi possibili.

Un’idiozia strategica, una condizione che non si è mai realizzata. In nessun momento della storia recente.

L’idea che bastasse lasciar fare al capitale privato, soprattutto multinazionale, e che “la politica” si dovesse occupare soltanto di “creare le migliori condizioni possibili per l’iniziativa privata”, ha congelato per trenta anni la stessa crescita capitalistica, favorendo soltanto quei paesi più attrezzati (Germania e poco altro) a ricavare il massimo con il minimo sforzo dal “mercantilismo del 2000”.

Zero sviluppo tecnologico vero (si è lavorato a “reinventare la ruota”, con piccoli efficientamenti, non a inventare nuove tecnologie), zero unità politica e diplomatica, zero esercito unico, giusto un po’ di intelligence poliziesca condivisa per meglio monitorare e reprimere gli inevitabili focolai di malcontento interno.

Davanti alla disinvoltura finanziaria e militare Usa, alla potenza produttiva cinese (ora anche di qualità superiore), ai missili ipersonici russi (per ora senza competitor), le chiacchiere “europeiste” risultano patetiche. È la fine dell’ordoliberismo europeo, prima o poi toccherà prenderne atto.

Evidente, tutto ciò, quando von der Leyen descrive il “nuovo mondo”.

“Il mondo oggi è ancora quasi connesso come non mai. Ma ha anche iniziato a frammentarsi lungo nuove linee. Da un lato, dall’anno 2000, il volume del commercio globale è raddoppiato, sebbene il commercio all’interno dei blocchi regionali si stia ora espandendo più velocemente del commercio tra di loro.
È comune che un chip venga progettato negli Stati Uniti, costruito a Taiwan con macchine europee, confezionato nel sud-est asiatico e assemblato in Cina. D’altro canto, solo lo scorso anno le barriere commerciali globali sono triplicate in valore. Le istituzioni commerciali internazionali hanno spesso lottato per affrontare le sfide poste dall’ascesa di economie non di mercato che competono con un diverso insieme di regole”
.

L’unica presenza europea di valore, in questo vortice, sono appunto “le macchine [olandesi] per costruire chip”. Ma le pressioni Usa hanno da tempo limitato le vendite alla Cina, mentre altri soggetti hanno ovviamente iniziato a progettarne di proprie.

Von der Leyen ha proseguito: “L’innovazione continua a prosperare, con progressi nell’intelligenza artificiale, nell’informatica quantistica e nell’energia pulita pronti a cambiare il nostro modo di vivere e lavorare, ma anche i controlli tecnologici sono quadruplicati negli ultimi decenni. Le nostre dipendenze dalla catena di fornitura sono a volte trasformate in armi, come dimostra il ricatto energetico della Russia, o esposte come fragili quando gli shock globali, come la pandemia, emergono senza preavviso. E proprio gli interconnettori che ci uniscono, come i cavi dati sottomarini, sono diventati obiettivi, dal Mar Baltico allo Stretto di Taiwan”.

Se poi, com’è avvenuto per il gasdotto North Stream, si fa finta di non vedere che gli “interconnettori vitali” vengono interrotti dai “nostri alleati” (ucraini e statunitensi), la frittata è assicurata.

E “la soluzione” non può che essere un deja vu: “Per sostenere la crescita nel prossimo quarto di secolo, l’Europa deve cambiare marcia. Per questo ho chiesto a Draghi una relazione sulla competitività Ue. Su questa base, la prossima settimana la Commissione presenterà la nostra tabella di marcia”. Un altro “rapporto Draghi”, da citare e tenere in un cassetto perché arriva comunque troppo tardi, con troppi nemici (anche dentro la UE), senza risorse (c’è di nuovo l’austerità, non dimentichiamolo) e senza un know how continentale per realizzarne almeno una parte.

A Davos sono risultate perciò quasi insultanti le parole dell’attore prestato alla presidenza dell’Ucraina, fin qui sostenuto ben oltre le intenzioni e le possibilità della UE.

“Ora non è nemmeno certo se l’Europa avrà un posto al tavolo quando finirà la guerra in Ucraina. Donald Trump ascolterà l’Europa [ultimo avamposto della guerra “fino alla vittoria”, ndr] o negozierà con la Russia e la Cina? L’Europa deve fare di più”, ha affermato Zelenskij. “L‘Europa deve iniziare a prendersi cura di se stessa” e deve “spendere di più per la sicurezza. Se serve il 5%, che sia il 5%”.

È bellissimo vedere come si può essere grandiosi, con i soldi degli altri...

Ma il fatto nuovo, e spiazzante per la UE, anche in questo caso c’è. Solo pochi mesi fa, Kiev era terrorizzata all’idea che una seconda presidenza di Donald Trump l’avrebbe costretta a capitolare davanti a Vladimir Putin. Oggi, invece, ripone le sue speranze su Trump, sperando che metta fine a tre anni di carneficina.

Ora la mancanza di uomini è tale da rendere una barzelletta qualsiasi sogno di “riconquistare” il Donbass e la Crimea. Quindi il “pragmatismo”, l’imprevedibilità, lo stesso autoritarismo disinvolto di Trump e Musk potrebbero tornare utili per superare – tra gli ucraini – le ultime resistenze contro un accordo di pace che non prevede recuperi territoriali né l’adesione alla Nato.

Come diceva ieri Tymofiy Mylovanov, presidente della Kyiv School of Economics, passeggiando tra i corridoi di Davos, Trump “Potrebbe non essere un bene, ma sarà molto meglio che sotto Biden”. Più precisamente: “Biden ha gestito la guerra come una crisi. Pensava che, resistendo abbastanza a lungo, la tempesta sarebbe passata. Ma non sta passando. Trump parte dal presupposto che dobbiamo fermare la tempesta. Non gli importa come sarà fermata”.

Morto un presidente, viva il nuovo... È la regola dei cortigiani, no?

E intanto qui ancora si votano aiuti militari a Kiev...

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