Oscurato dal chiacchiericcio politico si va delineando il nuovo modello di capitalismo occidentale che va soppiantando da tempo il neoliberismo degli ultimi 40 anni. E naturalmente risulta completamente fuori tempo il “modello sociale europeo” – o meglio, ciò che ne resta dopo un trentennio di austerità e “parametri di Maastricht”.
Per il momento non si vede una “teoria unitaria” in grado di sintetizzare i cento segnali diversi che vanno convergendo, ma unendo i punti apparentemente dispersi una prima immagine viene fuori.
Per noi schiavi europei alcuni segnali importanti arrivano dalle elezioni in Germania, dove il vecchio conservatorismo “democristiano” rappresentato da Cdu/Csu sta cambiando faccia e programma. Il nuovo segretario, nonché probabile futuro cancelliere, Friedrich Merz, intende rovesciare radicalmente l’eredità di Angela Merkel. Anzi, il ruolo stesso che fin qui la Germania ha avuto all’interno dell’Unione Europea.
Lo fa per ragioni interne – l’avanzata dell’estrema destra neonazista (accreditata del 20% nazionale) e della “nuova sinistra” aggregata intorno a Sarah Wagenknecht – ma soprattutto per affrontare il nuovo quadro strategico mondiale, certificato dal ritorno di Donald Trump sul trono statunitense.
Ma, dicevamo, questo racconto politico nasconde, invece che illuminare, il “cambio di sistema” in corso nel capitalismo occidentale. Il cuore della questione, al di qua e al di là dell’Atlantico, sta ancora una volta nel tipo di rapporto considerato “ottimale” tra impresa e Stato, tra iniziativa privata e “politica”.
Fin qui la definizione teorica – si far per dire – più efficace è stata la “motosega” agitata da Javier Gerardo Milei, catapultato alla guida dell’Argentina tramite una lunga incubazione nei talk show televisivi. Una narrazione ultrarozza – tagliare tutte le spese derivanti da un ruolo dello Stato nell’economia (dall’istruzione alla sanità, fino agli incentivi alla produzione) – che però riecheggia ogni giorno anche in quell’Europa dove un Mark Rutte qualsiasi, oggi segretario generale della Nato, chiede fino al 5% di spesa militare rinunciando a spesa pensionistica, sanitaria, ecc.
Ma anche così non si comprende la portata “epocale” del cambiamento in corso – di Epochenbruch, rottura epocale, parla apertamente anche Merz – nel capitalismo occidentale.
E qui torna in gioco il mondo economico che ha generato il trumpismo negli Usa, che non è più palesemente un “incidente della Storia” ma l’affermarsi di un diverso (non troppo “nuovo”) standard.
La testata Politico coglie il punto in questi termini: “Nello scontro economico con l’America, l’Europa si sta preparando a combattere un nemico che non esiste più”. O meglio, un nemico di cui non si erano neanche capite bene le caratteristiche strutturali quando ancora era in salute.
La lunga fase chiamata “neoliberismo”, infatti, era stata identificata in termini molto ideologici, ma non del tutto corrispondenti alla realtà. “Per decenni, gli europei hanno creduto nella finzione che la prosperità americana fosse costruita su mercati liberi e intraprendenza imprenditoriale”. Semplicemente non era così, o almeno molto parzialmente.
Il nodo era stato colto dall’economista Mariana Mazzucato del libro Lo Stato innovatore, in cui sosteneva che “molte delle innovazioni più significative degli ultimi decenni – internet, GPS e tecnologie per smartphone – fossero nate grazie agli investimenti statali. Il segreto della politica industriale – sosteneva – risiedeva nella spesa per la difesa, nei sussidi mirati e nell’innovazione guidata dallo Stato”.
Persino nel neoliberismo reaganiano, insomma, l’iniziativa privata di certe dimensioni – quelle ciclopiche della “new economy” e delle piattaforme – era stata possibile sfruttando, in modo sicuramente molto creativo e privatistico, occasioni o finanziamenti pubblici, o mediati dall’interesse pubblico. La Thatcher aveva fornito l’idea, ma alla Gran Bretagna mancavano i mezzi...
Le ultime manifestazioni di questa impostazione strategica sono avvenute proprio con la presidenza di Joe Biden, con l’“Inflation Reduction Act […] 369 miliardi di dollari di sostegno alle industrie sostenibili, in particolare ai veicoli elettrici americani, […] visto in Europa come un tentativo governativo e spudorato di sottrarre investimenti all’UE”.
La “competizione” europea è stata insomma perseguita adottando la stessa strategia, in modo simmetrico, adottando una “politica industriale guidata dallo Stato [dalla UE e di lì agli Stati membri, ndr], concentrandosi sui campioni europei e accelerando le approvazioni dei sussidi”.
E lì stanno ancora oggi, mentre negli Usa le regole del gioco sono da tempo cambiate sotto la pressione inarrestabile di gruppi industriali che hanno la potenza finanziaria ma nessuno degli “ostacoli” di uno Stato (democrazia, contrappesi istituzionali, diritti dei cittadini, problemi morali, ecc.). E nessuna delle sue “spese inutili” agli occhi del profitto d’impresa…
Nelle profondità degli Usa, dice Politico, è emersa una visione che si può provvisoriamente definire “capitalismo nazionale” … una filosofia di liberalizzazione radicale che rifiuta l’intervento statale, abbraccia la privatizzazione e si affida pesantemente alle forze del mercato per rimodellare l’economia – sebbene all’interno di un sistema protetto”.
Una formulazione più elegante della “motosega” di Milei, ma non troppo diversa...
In questo modello lo Stato serve solo per assicurare che il “monopolio della forza” militare e poliziesca resti a protezione degli interessi privati, e solo fin quando serve. A ben vedere, infatti, anche in campo militare alcuni comparti – per esempio quello spaziale – sono ormai “contesi” da diversi “privati” (Musk, Bezos, ecc.) prontissimi a sfruttare la proprietà di alcune innovazioni tecnologiche e la disponibilità di risorse pubbliche finalizzate (ancora...) alla “sicurezza nazionale”.
Del resto già due anni fa l’ex generale Petraeus spiegava che “Le guerre del futuro dovranno tenere conto dell’influenza di singoli magnati come Elon Musk, Mark Zuckerberg e Jeff Bezos, che detengono un potere così eccezionale”. Detto in modo più diretto: la centralità del comando militare, nonché la certezza delle catene di comando, vengono “perturbate” o sfalsate dalla presenza – militarmente rilevante – di attori privati che agiscono a volte per “interesse nazionale”, altre per puro tornaconto personale/aziendale.
Una deformazione così rilevante delle più riservate e fondamentali risorse di un qualsiasi Stato rivela un drastico spostamento della centralità degli interessi “nazionali”: da una sempre bugiarda “unità delle varie classi sociali” al dispotismo puro e semplice dei grandi gruppi fanta-miliardari.
Questo Stato non si deve più preoccupare dei suoi cittadini e quindi può e deve tagliare ogni spesa che ne possa facilitare il benessere o la semplice sopravvivenza. La “concorrenza” è di tutti contro tutti: chi perde è sfigato, se lo merita, non suscita compassione (neanche un genocidio in diretta, ormai...), va abbandonato senza rimpianti.
Questo, politicamente parlando, non è neanche più il fascismo. Un secolo fa, infatti, durante un’altra “modernizzazione” o “salto di modello” imposto dallo sviluppo capitalistico, il ruolo dello Stato era comunque centrale, in ogni visione politica, per quanto contrapposta fino alla guerra totale (che arrivò pochi anni dopo).
Ricorrevano alla forza dello Stato, e alla sua capacità di centralizzare/utilizzare secondo un programma tutte le risorse (materiali, industriali, finanziarie, umane, ecc.), tutti i “modelli sociali”. Lo faceva il “new deal” rooseveltiano, in chiave liberal-democratica, varando un periodo di spesa pubblica eccezionalmente elevata per risollevare l’America dopo la Grande Depressione (19329-1933), tramite immense opere infrastrutturali e politiche di piena occupazione, anche a costo di pagare stipendi per “scavare buche e poi riempirle”.
Faceva lo stesso ovviamente l’Unione Sovietica, impegnata a costruire tra mille difficoltà una società meno diseguale e industrializzata, rovesciando una tradizione fondamentalmente agricola e semi-schiavistica (la “servitù della gleba” era ancora largamente in funzione al momento della Rivoluzione d’Ottobre).
Faceva lo stesso il nazifascismo, con strumenti criminali e in difesa dei grandi proprietari industriali (in Germania) o dei latifondisti (in Itala).
La seconda “globalizzazione” è finita ormai da tempo. La frammentazione del mercato globale ha rotto e continua a rompere sia le relazioni tra “campi avversari” (l’Occidente contro Cina, Russia, Brics, emergenti vari), sia – ora, con il “trumpismo” Usa – all’interno del campo occidentale, con i dazi minacciati o le facilitazioni promesse. Anche la reazione si frammenta, pur se ogni neo-reazionario coglie nell’altro le somiglianze e sogna una impossibile alleanza... sotto il proprio comando (gli Usa sul mondo, la Germania sull’Europa, ecc.).
Un “capitalismo nazionale” porta con sé tutte le vecchie tare del nazionalismo ottocentesco (razzismo, suprematismo, individualismo da branco o plebaglia, spiriti guerrafondai), ma chiede – come e più del neoliberismo morente – uno “stato ridotto al minimo”. Una contraddizione in termini, quasi un ossimoro.
Ma dove c’è un ossimoro (verbale) c’è una contraddizione reale. Grande come una casa. Anzi, come un sistema alle corde.
Allacciate le cinture, perché ora si balla sul serio...
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