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06/01/2025

Braverman, il capitale monopolistico e l'IA: il lavoratore complessivo e la riunificazione del lavoro

Monthly Review di dicembre celebra il cinquantesimo anniversario dell'opera fondamentale di Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital (Monthly Review Press, 1974), con questa recensione di John Bellamy Foster che esplora le connessioni tra il “lavoratore complessivo”* (collective worker) di Marx, lo “scienziato collettivo” di Braverman e la lotta contro la degradazione del lavoro nell'era digitale.

* [N.d.T. "Collective worker", qui tradotto con "lavoratore complessivo" - vedi anche la recente traduzione di "Il capitale Libro1", curata da Roberto Fineschi e pubblicata da Einaudi nel 2024 - è da altri tradotto con "lavoratore collettivo" o "operaio complessivo."

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Il tema dell'automazione associata agli algoritmi progettati per i computer, che incrementa la possibilità che macchine intelligenti sostituiscano il lavoro umano, esiste da più di un secolo e mezzo; a partire dal progetto della macchina differenziale di Charles Babbage (1822), e della celebre definizione di "general intellect" nei Grundrisse di Karl Marx, a cui seguì il successivo concetto di “lavoratore complessivo” presente nel Capitale.[1] Tuttavia, è stato solo con l'ascesa del capitalismo monopolistico – alla fine del diciannovesimo e all'inizio del ventesimo secolo – che l'industria su larga scala e l'applicazione della scienza all'industria sono state in grado di introdurre all'interno della produzione, la sussunzione “reale” del lavoro, in contrapposizione a quella “formale”.[2] In questo modo la conoscenza del processo lavorativo è stata sistematicamente sottratta ai lavoratori e concentrata nel management, in modo tale che il processo lavorativo potesse essere progressivamente scomposto e sussunto in una logica dominata dalla tecnologia delle macchine. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, con il consolidamento del capitalismo monopolistico e lo sviluppo della cibernetica, del transistor e della tecnologia digitale, l'automazione della produzione – e in particolare quella che oggi chiamiamo Intelligenza Artificiale (IA) – rappresenta una crescente minaccia per il lavoro.

Kurt Vonnegut nel suo romanzo Piano meccanico (1952) si basa sulla sua esperienza lavorativa alla General Electric. Ambientato in un futuro prossimo, nell'immaginaria città di Ilium, nel nord dello Stato di New York, Piano meccanico descrive una società che è stata interamente automatizzata, con la sostituzione di quasi tutti i lavoratori della produzione. Su una sponda del fiume che divide la città, in un'area nota come Homestead, vive la massa della popolazione, compresi tutti coloro che non hanno ottenuto un punteggio sufficientemente alto in una serie di test nazionali, e che sono in gran parte inattivi o impiegati nell’esercito e in progetti di ricostruzione e bonifica nei pochi lavori commerciali rimasti. Complessivamente, la popolazione sopravvive con un reddito di base universale, fissato a livelli molto inferiori al salario che i lavoratori non qualificati ricevevano in passato, beneficiando di televisori da ventotto pollici. Sull'altra sponda del fiume vivono gli ingegneri, i manager e i funzionari che si occupano dei macchinari di produzione, o che gestiscono gli affari pubblici. Il romanzo è incentrato sulle vicende di Paul Proteus, uno stimato ingegnere che dopo aver attraversato il ponte per raggiungere Homestead, incontra delle persone e rimane coinvolto in una rivolta di massa. All'inizio del romanzo, Proteus spiega che «la Prima Rivoluzione Industriale ha svalutato il lavoro muscolare, poi la Seconda ha svalutato il lavoro intellettuale ordinario», mentre la prevista Terza rivoluzione industriale si baserà su «macchine computerizzate che svalutano il pensiero umano» e decentrano «il vero lavoro intellettuale». L'intelligenza umana sarà sostituita dalle macchine o da quella che pochi anni dopo la pubblicazione del romanzo di Vonnegut sarà chiamata “intelligenza artificiale”.[3]

Piano meccanico era un frutto della diffusa preoccupazione per l'automazione vissuta negli anni Cinquanta. Nel novembre del 1958, The Nation pubblicò un articolo intitolato “The Automation Depression”, che manifestò una risposta fuorviante alla breve crisi economica del 1957-1958.[4] All’epoca, le preoccupazioni manifestate da The Nation e da altre pubblicazioni degli anni Cinquanta, circa la possibilità che l'automazione potesse creare una disoccupazione di massa, erano per lo più esagerate. Tuttavia, era una preoccupazione del tutto razionale, dovuta al riconoscimento che la crescita dell'industria su larga scala – insieme alla rivoluzione tecnico scientifica ad essa associata (e all'emergente Terza rivoluzione industriale [o digitale]) – rappresentava un'alterazione fondamentale del rapporto tra lavoro e capitale. Sollevava questioni che risalgono alla Prima Rivoluzione Industriale del diciannovesimo secolo e che oggi stanno riemergendo in uno stadio di sviluppo ancora più avanzato con la diffusione dell'Intelligenza Artificiale generativa.

Forse l'analisi più perspicace dello stato generale dell'automazione e del suo rapporto con il lavoro negli anni Cinquanta, si deve all'economista marxista e redattore della Monthly Review, Paul M. Sweezy, che nel 1957 scrisse una monografia anonima intitolata The Scientific-Industrial Revolution, per la Model, Roland & Stone, una società di investimenti di Wall Street. In questa relazione, Sweezy sosteneva che mentre la macchina a vapore aveva avviato la Prima Rivoluzione Industriale, la rivoluzione scientifico-industriale (o scientifico-tecnica) era stata avviata dalla scienza stessa, con uno sviluppo che è stato reso possibile dall'ascesa del capitale su larga scala. Questo ha dato origine allo “scienziato collettivo”, un concetto che Sweezy ha ripreso da quello di lavoratore complessivo di Marx. Riferendosi all'automazione, Sweezy ha spiegato che “il processo lavorativo”, in cui le macchine erano sempre più incorporate, era caratterizzato da “un ciclo” di informazioni che coinvolgeva sia i lavoratori che le macchine. «Quando l'essere umano viene sostituito da uno o più dispositivi meccanici, il ciclo si chiude. Il sistema è stato automatizzato».[5]

In questo caso, Sweezy faceva riferimento a una conferenza dell'ingegnere, inventore e curatore scientifico statunitense, Vannevar Bush, in cui teorizzava la possibilità che un'auto a guida autonoma avrebbe seguito la linea bianca sulla strada anche dopo che il conducente si fosse addormentato. Secondo Sweezy, le implicazioni economiche e sociali di un livello così elevato di automazione con macchine intelligenti sono dovute principalmente al trasferimento del lavoro. «Lo scopo dell'automazione», scriveva, «è quello di ridurre i costi. In tutti i casi lo fa risparmiando lavoro. In alcuni casi, risparmia anche capitale». Con l'avvento del transistor, le possibilità tecnologiche di espansione sembravano infinite. Sweezy prevedeva che i computer sarebbero diventati non solo più affidabili, ma anche “tascabili”. Erano realizzabili anche dei radiotelefoni mobili che operavano attraverso le reti, e che potevano essere ridotti a dimensioni ancora più piccole del computer tascabile, tanto da poter essere tenuti al polso. La rivoluzione tecnico-scientifica, l'automazione e le macchine intelligenti più versatili comportavano uno «spostamento verso i profitti» e in generale, una riduzione dei salari. Questo determinava anche il possibile spostamento di milioni di lavoratori.[6]

La questione della crescita della produttività associata all'automazione ha portato alla pubblicazione, nel 1964, del documento “The Triple Revolution”, presentato al presidente Lyndon B. Johnson dalla Ad Hoc Committee on The Triple Revolution. In quel documento, la principale risposta a ciò che si manifestava come la rottura della connessione reddito-lavoro, e come il risultato del crescente esubero di lavoratori industriali, era la promozione di un reddito di base universale. A tutto ciò si opposero con forza Leo Huberman e Paul Sweezy, in un articolo, “The ‘Triple’ Revolution”, pubblicato su Monthly Review  del novembre 1964. Essi consideravano il reddito di base universale una politica miope, come quella descritta nel romanzo di Vonnegut, che avrebbe portato a una popolazione dipendente e demoralizzata, ridotta a vivere di un sistema assistenziale enormemente diffuso ma cronicamente carente. Al contrario, essi sostenevano un movimento più rivoluzionario verso il socialismo, attraverso la proprietà pubblica dei mezzi di produzione e l'adozione della pianificazione da parte dei lavoratori, per i lavoratori.[7]

Tuttavia, nessuno di questi temi fu ripreso da Paul A. Baran e Paul Sweezy nel loro Il capitale monopolistico, che fu completato nello stesso anno in cui si svolse il dibattito sulla Triplice rivoluzione (Baran morì nel marzo 1964 e Sweezy evitò di introdurre nuovi elementi nel libro, quando fu pubblicato nel 1966). Il Capitale monopolistico dava per scontati gli alti tassi di sfruttamento e di produttività dell'industria monopolistica-capitalistica, testimoniati da una «tendenza all'aumento del surplus». Baran e Sweezy si fermarono deliberatamente di fronte all'analisi della trasformazione del «processo lavorativo» e delle «conseguenze che hanno avuto i particolari tipi di cambiamento tecnologico, caratteristici del periodo monopolistico-capitalistico».[8] Piuttosto di affrontare questi temi, ammisero che questi aspetti andavano oltre i limiti autoimposti dal loro studio e che avrebbero dovuto essere affrontati in una più completa trattazione del capitalismo monopolistico.

Effettivamente, negli anni Sessanta, la vera natura del processo lavorativo non è mai stata affrontata in modo sistematico né dalla sinistra, né dalla scienza sociale borghese.[9] Si dava semplicemente per scontato che una tecnologia più avanzata, vista come un fatto compiuto, migliorasse le capacità dei lavoratori, pur minacciando una disoccupazione sempre più elevata. Le discussioni sull'alienazione, influenzate da Marx, vedevano l'incessante meccanizzazione e automazione della produzione, come una “catastrofe dell'essenza umana”, secondo le parole di Herbert Marcuse.[10] Tuttavia, mancavano critiche significative e approfondite del processo lavorativo nel capitalismo monopolistico.

Paul Sweezy, nella sua prefazione a Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo (1974) di Harry Braverman, metteva in evidenza questa manchevolezza nell'analisi del processo lavorativo descritta ne Il capitale monopolistico, mentre vedeva l'opera di Braverman come un modo per colmare questa enorme lacuna.  «Vorrei risultasse ben chiaro», scrisse,

che il motivo per cui Baran e io non tentammo in alcun modo di colmare tale lacuna non risiede soltanto nell'impostazione da noi adottata. Un'altra ragione, più sostanziale, nasceva dal fatto che mancavamo della competenza necessaria. Un genio come Marx era in grado di analizzare il processo lavorativo in regime capitalistico senza esservisi mai trovato direttamente coinvolto, e di farlo con una penetrazione e una vivacità ineguagliate. Ma per i mortali di minor statura, l'esperienza diretta è una conditio sine qua non,  come i deprimenti risultati degli "esperti" e delle "autorità" accademiche in questo settore attestano con eloquenza. Baran e io non possedevamo tale esperienza diretta, di così fondamentale importanza, e se ci fossimo avventurati nell'argomento saremmo con tutta probabilità divenuti vittime dei tanti miti ed errori cui gli ideologi del capitalismo hanno instancabilmente dato vita. Dopo tutto, non c'è altro argomento per il quale sia altrettanto importante  (per il capitalismo) nascondere la verità. A riprova della nostra ingenuità citerò solo un esempio: il fatto di aver tranquillamente bevuto il mito di un enorme declino della percentuale delle forze di lavoro non qualificate nel corso degli ultimi cinquant'anni.[11]

Al contrario, Braverman aveva una vasta esperienza del processo lavorativo del capitalismo monopolistico, ed era in grado di combinarla con una comprensione straordinariamente profonda della descrizione della giornata lavorativa descritta da Marx nel Capitale, unita a un’indagine dell'intera storia del management moderno e dello sviluppo di macchinari che consentono di risparmiare lavoro.[12] Tuttavia, mentre Lavoro e capitale monopolistico è servito a colmare il vuoto lasciato da Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy, Braverman ha contemporaneamente acquisito la descrizione della rivoluzione tecnico-scientifica sviluppata nella relazione di Sweezy, insieme all'analisi generale de Il capitale monopolistico, come base storicamente specifica della propria analisi.[13] Cinquant'anni dopo la pubblicazione, Lavoro e capitale monopolistico resta il punto di partenza essenziale per l'analisi critica del processo lavorativo nel nostro tempo, in particolare rispetto all'attuale automazione basata sull'intelligenza artificiale.

Marx, Braverman e il lavoratore complessivo


L'argomentazione di base di Braverman, in Lavoro e capitale monopolistico, è ormai abbastanza nota. Basandosi sulla teoria del management del diciannovesimo secolo, in particolare sul lavoro di Babbage e di Marx, Braverman è stato in grado di estendere l'analisi del processo lavorativo, facendo luce sul ruolo della gestione scientifica introdotta nel capitalismo monopolistico del ventesimo secolo da Fredrick Winslow Taylor e altri. Charles Babbage, Andrew Ure, il teorico del management del diciannovesimo secolo, Marx e Taylor, avevano tutti considerato come prioritaria la divisione del lavoro pre-meccanizzato, e base per lo sviluppo del capitalismo delle macchine. Così, la logica di una divisione del lavoro sempre più dettagliata, come quella descritta nel celebre esempio dello spillo da parte di Adam Smith, poteva essere vista come antecedente e logicamente precedente all'introduzione delle macchine.[14] Nel caso di Babbage, l'esempio dello spillo di Smith è stato ripreso per rendere conto sia dell'economia manifatturiera (il primo sistema di fabbrica in cooperazione) che dell'industria moderna (o macchinofattura). La logica della divisione capitalistica del lavoro ha posto le basi per la progettazione dei primi computer calcolatori di Babbage, finalizzati allo sviluppo progressivo della divisione dettagliata del lavoro come mezzo per promuovere il plusvalore. Quindi, c'è una connessione diretta tra la divisione dettagliata del lavoro, l'automazione e lo sviluppo del computer, nell’emergente teoria del management della Rivoluzione Industriale del diciannovesimo secolo. [15]

Sulla scia di Marx, Braverman ha riportato il “principio di Babbage” nella discussione contemporanea sul processo lavorativo nel capitalismo monopolistico della fine del ventesimo secolo, definendolo: «la legge generale della divisione capitalistica del lavoro». Secondo questo principio (spesso diviso in due parti), la divisione del lavoro in condizioni capitalistiche consisteva nel determinare (1) la minor quantità di lavoro necessario per ogni singolo compito, scomposto nelle sue componenti più piccole, generando così (2) un risparmio del costo del lavoro, dal momento che a ogni singola attività poteva essere assegnata la quantità più conveniente di lavoro necessario per il suo compimento.[16]

Babbage descriveva i vantaggi della divisione del lavoro nell’assegnazione delle attività meno impegnative (considerate, all'epoca, come quelle richiedenti meno sforzo muscolare e meno abilità) al lavoro femminile o minorile, più economico rispetto al lavoro maschile adulto, il tradizionale lavoro artigianale.[17] «Dividendo il lavoro da eseguire in diversi processi, ciascuno dei quali richiede diversi gradi di abilità o forza», scriveva Ure, il proprietario «può acquistare esattamente la quantità necessaria di entrambi per ciascun processo».[18] «L'intera tendenza dell'industria manifatturiera», secondo Ure, era, se non destinata a sostituire del tutto il lavoro umano, almeno un mezzo con cui «diminuire il suo costo sostituendo l'industria delle donne e dei bambini a quella degli uomini, o quella degli operai ordinari agli artigiani addestrati».[19]

«Nella mitologia del capitalismo», scrive Braverman,

il principio di Babbage viene presentato come uno sforzo per «salvaguardare le specializzazioni meno comuni» assegnando ai lavoratori qualificati dei compiti che «solo loro possono eseguire», in modo da non sprecare «le risorse sociali». Esso è fatto passare per una risposta alla «penuria» di lavoratori qualificati o di persone tecnicamente preparate, il cui tempo va impiegato «efficientemente» a vantaggio della «società». Ma per quanto tale principio possa a volte manifestarsi sotto forma di risposta alla scarsità di manodopera qualificata – per esempio durante le guerre o in altri periodi di rapida espansione della produzione – questa giustificazione suona del tutto falsa. Il modo capitalista di produzione distrugge sistematicamente le qualificazioni complessive, laddove esistono, e crea qualificazioni e occupazioni corrispondenti ai suoi interessi. Perciò le capacità tecniche vengono distribuite sulla base di una rigida «necessità di sapere». La distribuzione generalizzata della conoscenza del processo produttivo fra tutti quanti partecipano ad esso diventa, da questo punto di vista, non semplicemente «superflua», ma un deciso ostacolo al funzionamento del modo capitalistico di produzione.[20]

Con il procedere della divisione dettagliata del lavoro, come la descriveva Marx nella sua critica della produzione capitalistica, le macchine venivano introdotte per sostituire la manodopera, avviando una produzione potenzialmente automatica, relegando contemporaneamente masse di lavoratori nel "surplus relativo  della popolazione" (o esercito salariale di riserva), per diminuire il costo del lavoro in generale. L'operaio, se ancora presente, veniva ridotto ad appendice della macchina. Questa tendenza era evidente, come sottolineato da Marx, nel fatto che la stragrande maggioranza dei lavoratori dell'industria tessile, al centro della Rivoluzione industriale inglese, erano donne e bambini che venivano super sfruttati e ricevevano solo una piccola frazione del salario dei lavoratori artigianali maschi che sostituivano, insufficiente per la loro sussistenza. Tutto questo alimentava lo sviluppo dell'industria meccanica e l'ulteriore sfruttamento dei lavoratori, le cui condizioni – sia che i loro salari fossero alti o bassi – erano sempre più svantaggiate rispetto all'enorme apparato produttivo generato dal lavoro collettivo, che si imponeva loro come un peso morto che aumentava il loro sfruttamento e la loro sostituzione con le macchine.[21]

Tuttavia, per sviluppare ulteriormente la divisione del lavoro era necessario abbattere la resistenza dei lavoratori, con l'ausilio della scienza come controllo diretto della produzione. Ciò ha consentito quella che Marx ha definito la sussunzione reale, e non solo formale, del lavoratore all'interno del processo di produzione capitalistico. Come afferma Matteo Pasquinelli in The Eye of the Master: A Social History of Artificial Intelligence: «Marx era esplicito: la nascita della tecnologia è un processo emergente guidato dalla divisione del lavoro», mentre l'applicazione del principio di Babbage indicava la strada verso l'automazione e il dominio della macchina come mezzo per un maggiore sfruttamento del lavoro.[22]

L'incorporazione della scienza, personificata da quello che Sweezy avrebbe chiamato “lo scienziato collettivo”, come nuovo potere emergente all'interno della produzione capitalistica, era di fatto possibile solo con le economie di scala e l'estensione del mercato, associate alla crescita della mega corporation del capitalismo monopolistico. Il semplice management – da parte del proprietario e di una manciata di sorveglianti, nel capitalismo libero e competitivo delle piccole imprese – non sarebbe stato più sufficiente a mantenere la redditività nelle nuove condizioni della mega corporation multidivisionale, conseguente alle massicce ondate di fusioni societarie avvenute alla fine del diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo.[23]

Il nuovo management è stato rappresentato al meglio da Taylor, tanto che il management scientifico e il taylorismo sono diventati sinonimi. Il taylorismo è stato riassunto da Braverman in tre principi distinti: (1) “dissociazione del processo lavorativo dalle competenze dei lavoratori”, (2) “separazione tra progettazione ed esecuzione” e (3) “uso del monopolio della conoscenza per controllare ogni fase del processo lavorativo e della sua esecuzione”. Sebbene Taylor sostenesse che gli aumenti salariali fossero parte integrante del sistema – almeno nelle prime fasi dell'applicazione della gestione scientifica in un determinato settore – l'obiettivo generale, per gli imprenditori, era quello di ridurre i costi del lavoro per unità. «Taylor», ha scritto Braverman, «comprese il principio di Babbage meglio di chiunque altro ai suoi tempi, e fu sempre in cima ai suoi calcoli... . Nel suo primo libro, Shop Management [1903], disse francamente che le 'piene possibilità' del suo sistema [di gestione scientifica] non saranno state realizzate fino a quando quasi tutte le macchine dell'officina non saranno gestite da uomini di minor calibro e capacità, e che quindi sono più economici di quelli richiesti dal vecchio sistema». Il contributo distintivo di Taylor fu quello di articolare un imperativo manageriale su larga scala per un maggiore controllo del lavoro, da attuare principalmente attraverso la dequalificazione. Quindi, all'interno del taylorismo, sosteneva Braverman, «si nasconde una teoria che non è altro che l'esplicita verbalizzazione del modo di produzione capitalistico».[24]

Secondo Braverman, la logica pienamente contraddittoria del modo di produzione capitalistico e le possibilità di una risposta socialista rivoluzionaria, emersero solo con la meccanizzazione e l'automazione, oltre all'introduzione dell'Intelligenza Artificiale (una forma più avanzata di automazione) all'interno della produzione monopolistico-capitalistica. L'analisi di Braverman si basa fondamentalmente sul concetto di "lavoratore complessivo", che Marx ha utilizzato come categoria per comprendere la totalità della suddivisione dettagliata del lavoro, la gerarchia del lavoro e l'incorporazione della conoscenza del lavoro nelle macchine. Anche nel contesto di livelli più elevati di meccanizzazione, associati alla dequalificazione e alla sostituzione dei lavoratori, il processo lavorativo, secondo Marx, rimaneva organicamente, e in termini di valore-lavoro come base, essenzialmente lo stesso.[25]

L'analisi del lavoratore complessivo, trattata da Marx nel Capitale, va oltre quella del general intellect, esposta circa un decennio prima nei Grundrisse. Nel celebre “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, il general intellect viene incorporato nelle macchine e porta, con lo sviluppo dell'automazione, all'apparente eliminazione della forza lavoro, e persino del valore-lavoro.[26] Lo stesso Braverman aveva fatto riferimento, in Lavoro e capitale monopolistico, all'affermazione presente nel “Frammento sulle macchine” dove Marx aveva scritto: «Il processo di produzione ha cessato di essere un processo di lavoro inteso come un processo dominato e governato dal lavoro».[27] In discussioni recenti, il "Frammento sulle macchine" è stato talvolta utilizzato erroneamente per sostenere che Marx vedeva la teoria del valore-lavoro come gradualmente sostituita dalla produzione meccanica e dall'automazione.[28] Tuttavia, ciò è stato smentito dalle analisi di come il successivo concetto di "lavoratore complessivo" di Marx abbia demistificato l'intero processo di meccanizzazione e automazione, dimostrando sia la continua centralità del lavoro che la teoria del valore-lavoro.[29]

L'approccio di Braverman all'apparente contraddizione associata alla sussunzione del processo lavorativo alla macchina fu quello di concentrarsi esattamente sul concetto di “lavoratore complessivo” di Marx, non solo per spiegare la permanente centralità del lavoro nella produzione, ma anche per indicare nuove possibilità rivoluzionarie. Nel concetto di lavoratore complessivo, il lavoro era visto da Braverman, come da Marx, come materializzato in un processo organico, che comprendeva sia la gerarchizzazione del lavoro che la meccanizzazione.

In risposta a Ure, a proposito di automazione e lavoratore complessivo, Marx aveva scritto nel Capitale:

Il dottor Ure, il Pindaro della fabbrica automatica, la descrive da un lato, come «cooperazione di classi diverse di operai, adulti e non adulti, i quali con abilità e diligenza sorvegliano un sistema di macchinari produttivi ininterrottamente mosso da una forza centrale (il primo motore)», dall'altro come «un enorme automa composto di innumerevoli organi meccanici e autocoscienti, i quali agiscono in vicendevole accordo e senza interruzione per produrre uno stesso oggetto, cosicché tutti questi organi sono subordinati a un'unica forza motrice semovente». Queste due formulazioni non sono affatto identiche. Nell'una il lavoratore complessivo combinato, ossia il corpo lavorativo sociale, si presenta come soggetto dominante e l'automa meccanico come oggetto [objekt]; nell'altra l'automa stesso è il soggetto e i lavoratori sono soltanto coordinati, come organi coscienti, ai suoi organi incoscienti e, insieme a questi, sono subordinati alla forza motrice centrale. La prima formulazione vale per qualsiasi applicazione di macchinari su larga scala, l'altra caratterizza la sua applicazione capitalistica e quindi il moderno sistema di fabbrica. A Ure piace, quindi, rappresentare la macchina centrale da cui parte il movimento non solo come automa ma come autocrate: «In queste grandi officine la benefica potenza del vapore raccoglie intorno a se le miriadi dei suoi sudditi».[30]

In questa contraddittoria presentazione delle ripercussioni dell'automazione, da parte di Ure, la prima descrizione che corrisponde, come suggerito da Marx, al fenomeno del lavoratore complessivo, è coerente con lo sviluppo della produzione socialista. La seconda corrisponde al mito della macchina stessa, dotata di un general intellect, in cui il lavoro è totalmente assente o ridotto a uno stato abietto e senza cervello. Per Ure, «quando il capitale arruola la scienza al suo servizio, alla mano refrattaria del lavoro verrà sempre insegnata la docilità».[31] Per Marx, al contrario, la risposta rivoluzionaria consisteva nel coinvolgere la scienza a favore del lavoratore complessivo, in modo da potenziare il libero sviluppo sociale.

Il punto d'arrivo dell'analisi di Braverman, sulla base di quella del Capitale di Marx, fu lo sviluppo di un approccio rivoluzionario alla divisione del lavoro, alla meccanizzazione, all'automazione e all'Intelligenza Artificiale, in cui il lavoratore complessivo era, perlomeno potenzialmente, il soggetto attivo del lavoro sociale. Tale concezione si opponeva fortemente alle feticistiche caratterizzazioni  delle macchine – la concezione preferita di Ure e Taylor – come un «enorme automa composto da diversi organi meccanici e intellettuali», e funzionante come un insormontabile autocrate della produzione, con i lavoratori ridotti a semplici appendici.

Il lavoratore complessivo, l'intelligenza artificiale e la riunificazione della produzione


In definitiva, nella critica di Braverman, la tecnologia moderna, compresa l'automazione e l'intelligenza artificiale nell'era digitale, rappresentava una forte tendenza a riunificare un processo lavorativo che era stato degradato dalla divisione capitalistica del lavoro. Significativamente, tutte le operazioni della fabbricazione degli spilli, elencate da Smith all'inizio di La ricchezza delle nazioni, erano ora unite in un'unica macchina, consentendo la riunificazione del processo lavorativo stesso. Tuttavia, il capitalismo nella sua fase monopolistica, in cui lo sfruttamento del lavoro e il processo di valorizzazione erano ancora radicati nel principio di Babbage, cercava costantemente di utilizzare livelli più elevati di meccanizzazione e automazione per reintrodurre quella che era ormai una divisione del lavoro sempre più arcaica. Come dichiarava Braverman, «Il processo ri-unificato, in cui l'esecuzione di tutte le fasi è incorporata nel meccanismo di lavoro di un'unica macchina, sembrerebbe ora renderlo adatto a un collettivo di produttori associati, nessuno dei quali deve dedicare tutta la propria vita a una singola funzione e tutti possono partecipare all'ingegneria, alla progettazione, al miglioramento, alla riparazione e al funzionamento di queste macchine sempre più produttive». Tuttavia, queste possibilità tecnicamente aperte al lavoratore complessivo – come risultato degli sviluppi delle forze produttive – sono ostacolate dalle relazioni sociali di produzione del capitalismo monopolistico. «Così, il modo di produzione capitalistico impone ai nuovi processi sviluppati dalla tecnologia, una divisione del lavoro sempre più profonda, indipendentemente dalle possibilità offerte della macchine».[32]

Come Marx stesso riconobbe nella sua concezione del lavoratore complessivo, e come Braverman avrebbe evidenziato nel contesto del capitalismo monopolistico, le nuove possibilità tecnologiche per la libertà umana, in cui gli esseri umani sono potenzialmente i soggetti della produzione, sono rivolte contro di loro. Il lavoratore diventa un mero oggetto mercificato, in un mondo in cui la gestione del capitale utilizza la nuova tecnologia delle macchine per rafforzare la divisione dettagliata del lavoro, trattando la macchina, sempre più "intelligente", come soggetto della produzione. Nei termini di Braverman, il lavoratore complessivo di Marx è stato degradato dal  capitalismo monopolistico. «Nel momento in cui la produzione è diventata collettiva e il singolo lavoratore è stato incorporato nel corpo collettivo dei lavoratori, questo è diventato un corpo il cui cervello è stato lobotomizzato o, peggio, rimosso completamente. Il suo stesso cervello è stato separato dal corpo, essendo divenuto proprietà del  moderno management, per poter controllare e rendere meno costosi la forza lavoro e i processi lavorativi».[33]

Ma se il concetto di Ure, di lavoro collettivo ridotto alla logica delle macchine, era chiaramente presente nel capitalismo monopolistico, il lavoratore complessivo di Marx, combinato con lo scienziato collettivo di Sweezy, rappresentava le nuove possibilità rivoluzionarie che emergevano man mano che le macchine diventavano più automatizzate, incorporando la conoscenza del processo lavorativo sviluppata nel corso della storia umana. Una maggior istruzione dei lavoratori in campo scientifico e ingegneristico attraverso le scuole politecniche – resa possibile dall'aumento della produttività – avrebbe potuto portare alla riunificazione e al potenziamento del lavoro e della creatività umana. Ironia della sorte, più questo diventava realizzabile, più il sistema educativo capitalistico si degradava, mantenendo i lavoratori sotto la dominazione del principio di Babbage, che si basava sulla svalutazione della conoscenza del lavoratore.

Quindi, nella società monopolistico-capitalistica l'istruzione è sempre più soggetta alla stessa logica della divisione dettagliata del lavoro. In questo senso, l'imperativo del sistema era chiaro fin dall'inizio. Come ha scritto Frank Gilbreth, uno dei fondatori del management scientifico: «Addestrare un lavoratore significa semplicemente metterlo in condizioni di seguire le direttive del suo programma di lavoro. Una volta fatto questo, il suo addestramento è finito, qualunque sia la sua età».[34] Questo principio, unito alla degradazione del lavoro, è alla base dell’intensiva degradazione  dell'istruzione nelle scuole pubbliche statunitensi e altrove. Nei livelli scolastici K-12 [N.d.T. corrispondente al percorso nella nostra scuola primaria e secondaria], scienza, cultura, storia e pensiero critico, vengono sistematicamente rimossi o ridimensionati e, in particolare nei primi anni scolastici, sono sempre più destinati a un processo riduttivo imposto dai test standardizzati. È come se il sistema avesse finalmente trovato i mezzi per sfruttare appieno l'adagio del politico e moralista britannico Adam Ferguson: «L'ignoranza è la madre dell'industria», sottolineando che i lavoratori sono tanto più produttivi dal punto di vista del capitale, quanto più sono privi di cervello.[35] La digitalizzazione dell'istruzione, anziché espandere la conoscenza e la creatività, sta portando all'opposto: una implacabile standardizzazione. L'obiettivo sembra essere quello di convertire la maggior parte della popolazione in ciò che C. Wright Mills definiva «robot allegri».[36] Con l'ascesa di modelli linguistici su larga scala e con la crescita dell'intelligenza artificiale generativa – in grado di incorporare masse di dati in ingresso e sintetizzare artificialmente le informazioni in "reti neurali" secondo algoritmi predeterminati – gli studenti universitari sono sempre più incoraggiati ad utilizzare queste tecnologie come sostituto meccanico dell'apprendimento reale.[37] Piuttosto che al lavoratore complessivo o allo scienziato collettivo, l’attenzione è rivolta all'intelligenza artificiale come intelligenza artificiale collettiva.

Dietro a tutto ciò, nella "dimora nascosta" della produzione, si cela la continua degradazione del lavoro umano. Google ha assunto centomila lavoratori temporanei e a contratto per scannerizzare libri ad un ritmo incalzante, regolato da una colonna sonora, come parte del suo piano per digitalizzare tutti i libri del mondo (stimati in 130 milioni di volumi). Sebbene il progetto sia stato in gran parte abbandonato, era visto come un meccanismo per lo sviluppo dell'intelligenza artificiale generativa.[38] La realtà nascosta dell'era digitale/Intelligenza Artificiale è l'aumento del numero di lavoratori temporanei e a contratto, nascosto dalla mistica del cloud computing [ N.d.T. erogazione di servizi offerti attraverso la rete internet]. Le nuove piattaforme di lavoro online impiegano milioni di lavoratori a contratto. Le indagini online sulla forza lavoro nazionale, condotte da gruppi aziendali come il McKinsey Global Institute, «indicano [che] tra il 25 e il 35 percento dei lavoratori» negli Stati Uniti hanno «svolto, nel mese precedente all'indagine, lavori atipici o gig work [N.d.T. Lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo], come primo lavoro o lavoro secondario. Ciò significa che negli Stati Uniti, almeno 41 milioni di persone sono state impegnate in una qualche forma di gig work [o di piattaforma], generalmente come lavoratori temporanei. Sebbene innumerevoli posti di lavoro siano minacciati dall'Intelligenza Artificiale – le cui stime variano notevolmente – il lavoro non viene tanto sostituito in generale, quanto reso più temporaneo e precario.[39]

Tuttavia, ci sono tendenze opposte a questa degradazione, apparentemente inesorabile, del lavoro. Come Marx aveva osservato, nuove lotte volte alla «trasformazione rivoluzionaria di tutta la società» emergono inevitabilmente laddove l'espansione del potenziale umano, associato allo sviluppo delle forze produttive, è limitata dai rapporti sociali di produzione.[40] Le odierne lotte di classe nel processo lavorativo non sono dirette contro la nuova tecnologia digitale o l'intelligenza artificiale, ma contro la riduzione degli stessi esseri umani a meri algoritmi. Solo in un socialismo sviluppato, o in un sistema di sviluppo umano egualitario e sostenibile, il lavoratore complessivo, come incarnazione del general intellect, può controllare le condizioni di produzione a beneficio dell’intera società.

Note

[1]
Vedi Matteo Pasquinelli, The Eye of the Master: A Social History of Artificial Intelligence, Verso, Londra, 2023; Pietro Daniel Omodeo, The Social Dialectics of AI, Monthly Review 76, n. 6, novembre 2024, pp. 40–48; Simon Schaffer, Babbage's Intelligence Calculating Engines and the Factory System, Critical Inquiry 21, n. 1, autunno 1994, pp. 205, 209–210, 220–223.

[2] Karl Marx, Il Capitale, pp. 881-887, 896-900.

[3] Kurt Vonnegut Jr., Piano Meccanico, Feltrinelli, Milano, 2004, pp. 25-26. Le particolari caratterizzazioni della Prima e della Seconda rivoluzione industriale utilizzate nel romanzo, furono attribuite da Vonnegut all'informatico e matematico americano Norbert Wiener.

[4] Rick Wartzman, The First Time the Nation Freaked Out Over Automation, Politico, 30.05.2017.

[5] M. Sweezy (pubblicato in forma anonima), The Scientific-Industrial Revolution, Model, Roland & Stone, New York, 1957, pp. 10, 27–36; Marx, Il capitale, Libro 1, 348, 355, 368, 425. Negli anni quaranta e cinquanta, Paul A. Baran aveva svolto degli studi per la società di Wall Street Model, Roland & Stone per ottenere un introito aggiuntivo. Nel 1956–1957, tuttavia, stava completando The Political Economy of Growth e chiese a Sweezy di aiutarlo nella ricerca. Sweezy finì per scrivere The Scientific-Industrial Revolution per aiutare Baran. Dato che la richiesta proveniva da una società di investimenti di Wall Street che desiderava offrire una visione ottimistica delle opportunità di investimento, Sweezy fu costretto a indirizzare la sua monografia in quella direzione, che differiva notevolmente dalle sue opinioni al riguardo. Tuttavia, come disse a Baran all'epoca, la ricerca sulla scienza di base e sulle sue implicazioni sociali ed economiche che un simile progetto comportava era straordinariamente preziosa, ed è qui che risiede l'importanza del suo contributo. Vedi Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, The Age of Monopoly Capital , a cura di Nicholas Baran e John Bellamy Foster, Monthly Review Press, New York, 2017, p. 146, 503.

[6] Sweezy, The Scientific-Industrial Revolution, pp. 28–30.

[7] Leo Huberman e Paul M. Sweezy, The 'Triple' Revolution, Monthly Review 16, n. 7, novembre 1964, pp. 417–23. Vedi anche George e Louise Crowley, Beyond Automation, Monthly Review 16, n. 7, novembre 1964, pp. 423–439. Nel loro articolo, Huberman e Sweezy scrissero: «La nostra conclusione è che l'idea di un reddito universale garantito non è il grande principio rivoluzionario che gli autori di 'Triple Revolution' credono che sia. Se applicata nel nostro sistema attuale, sarebbe come la religione, un oppio dei popoli che tende a rafforzare lo status quo. E in un sistema socialista sarebbe del tutto inutile e potrebbe fare più male che bene» (Huberman e Sweezy, “The 'Triple' Revolution,” p. 122). Alternative più radicali a un reddito di base universale (meno del socialismo) sono la piena occupazione garantita e una politica di servizi pubblici universali. Su quest'ultima, vedi Jason Hickel, Universal Public Services, Jason Hickel (blog), 94.08.2023.

[8] Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Monopoly Capital, Monthly Review Press, New York, 1966, pp. 8–9, 72..

[9] Vedi John Bellamy Foster, introduzione a Braverman, Labor and Monopoly Capital, Monthly Review, New York, 1998, pp. XI-XIV.

[10] Herbert Marcuse citato da Bruce Brown, Marx, Freud, and the Critique of Everyday Life, Monthly Review Press, New York, 1973, p.14.

[11] Paul M. Sweezy, prefazione a Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino, 1978, pp. VIII.

[12] Sul ruolo di Braverman come operaio addetto alla produzione, vedi Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, p. 5.

[13] Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, p. 153. Oltre al resoconto di Sweezy sulla rivoluzione tecnico-scientifica e sullo “scienziato collettivo”, Braverman incorporò l’analisi di Sweezy sull'“era sintetica” basata sullo sviluppo della chimica organica.

[14] Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Roma, 2006, p. 67.

[15] Pasquinelli, The Eye of the Master, pp. 53–76.

[16] Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, pp. 80-84; Pasquinelli,The Eye of the Master, p. 17, 104.

[17] Charles Babbage, On the Economy of Machinery and Manufactures, Cambridge University Press, Cambridge, 2009, facsimile dell'originale pubblicato da Charles Knight nel 1831, pp. 143–145, 186.

[18] Babbage, On the Economy of Machinery and Manufactures, pp. 137–138.

[19] Andrew Ure, The Philosophy of Manufactures, Charles Knight, Londra, 1835, pp. 19–23.

[20] Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, p. 83.

[21] Marx, Il capitale, Libro 1, 425-426, 656-657; Karl Marx, Grundrisse, Penguin, Londra 1973, pp. 693–705.

[22] Pasquinelli, The Eye of the Master, p. 109.

[23] Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, p. 169; Richard Edwards, Contested Terrain, Basic Books, New York, 1979.

[24] Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, pp. 85-91; Frederick Winslow Taylor, Shop Management, in Frederick Winslow Taylor, Scientific Management, Harper and Brothers, New York, 1947, p. 105; Foster, introduzione a Braverman, Labor and Monopoly Capital, p. XVII.

[25] Marx, Il capitale, Libro 1, 350-355, 425; Pasquinelli, The Eye of the Master, pp. 99, 104–105, 108–110, 116–118; Braverman, Lavoro e capitale monopolistico , 308, 320–21; Rob Beamish, Marx, Metodo e divisione del lavoro, University of Illinois Press, Urbana, 1992, pp. 110–113, 126–132.

[26] Marx, Grundrisse, 693–705.

[27] Braverman, Lavoro e capitale monopolistico , pp. 169.

[28] Vedi Paolo Virno, Grammatica della moltitudine, Rubettino, Catanzaro, 2001, pp. 101-105.

[29] Considerata dal punto di vista del valore, come ha spiegato Michael Heinrich, l'analisi di Marx del lavoratore complessivo ha infranto la mitologia della macchina e la nozione di "general intellect". [l'analisi] Era collegata all'ulteriore elaborazione della teoria del valore (posteriore ai Grundrisse) tramite le distinzioni tra valore e valore di scambio, tra lavoro concreto e lavoro astratto, e l'eleborazione del concetto di plusvalore relativo. Secondo Marx, il fine ultimo dell'introduzione di macchinari nella produzione capitalistica era di aumentare il tasso di plusvalore o lo sfruttamento del lavoratore (sia individuale che collettivo). Michael Heinrich, The 'Fragment on Machines': A Marxian Misconception in the Grundrisse and its Overcoming in Capital, in Marx's Laboratory: Critical Interpretations of the Grundrisse, a cura di Riccardo Bellofiore, Guido Starosta e Peter D. Thomas, Haymarket, Chicago, 2013, pp. 197–212. Vedi anche Cheng Enfu, The Creation of Value by Living Labour, Canut International Publishers, Canut, Rurchia, 2005, pp. 109–111.

[30] Marx, Il capitale. Libro I, p. 426; Ure, Philosophy of Manufactures, p. 13, 18.

[31] Ure, Philosophy of Manufactures, p. 368.

[32] Braverman, Labor and Monopoly Capital, p. 320. [N.d.T. Testo presente in Appendix 2 e assente nell'edizione italiana]

[33] Braverman, Labor and Monopoly Capital, p. 321.  [N.d.T. Testo presente in Appendix 2 e assente nell'edizione italiana]

[34] Frank Gilbreth citato da Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, p. 450.

[35] Adam Ferguson citato da Marx, Il capitale, Libro 1, p. 368.

[36] John Bellamy Foster, Education and the Structural Crisis of Capital, Monthly Review 63, n. 3, luglio-agosto 2011, pp. 6–37; C. Wright Mills, , The Sociological Imagination, Oxford University Press, Oxford, 1959, p. 175.

[37] Jason Resnikoff, Contesting the Idea of Progress: Labor’s AI Challenge, New Labor Forum , 10.09.2024, newlaborforum.cuny.edu; Katy Hayward, Machine Unlearning: AI, Neoliberalism and Universities in Crisis, Red Pepper, 25.08.2024, redpepper.org.uk.

[38] Moritz Altenried, The Digital Factory, University of Chicago Press, Chicago, 2022, pp. 3–4; Jennifer Howard, What Happened to Google’s Effort to Scan Millions of University Library Books?, EdSurge, 10.08.2017; How Many Gig Workers Are There? Gig Economy Data Hub, consultato il 23 ottobre 2024.

[39] Il FMI stima che l'Intelligenza Artificiale «avrà un impatto" sul 40% dei posti di lavoro nel mondo e il 60% sulle economie avanzate. Non è chiaro cosa questo significhi effettivamente e quali siano le tempistiche, al di là del clamore. H. Daron Acemoglu, economista del MIT, ha stimato che «solo una piccola percentuale di tutti i posti di lavoro, un misero 5%, è matura per essere rilevata, o almeno fortemente aiutata, dall'IA nel prossimo decennio». Kristalina Georgieva, AI Will Transform the Global Economy. Let's Make Sure It Benefits Humanity, IMF Blog, 14.01.2014; Jeran Wittenstein, AI Can Do Only 5% of Jobs, Says MIT Economist Who Fears Crash, Bloomberg , 02.10.2024. Sulla precarietà, vedi R. Jamil Jonna e John Bellamy Foster, Marx's Theory of Working-Class Precariousness, Monthly Review 67, n. 11, aprile 2016, pp. 1–19.

[40] Karl Marx, Per la critica dell'economia politica, in Marx Engels Opere 29, Lotta Comunista, Milano, 2023, p. 300; Karl Marx e Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino, 1948, p. 100.

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