M-I bastardi, se incroci gli sguardi
Sopra i quattro quarti vai via in quattro parti
("King Of The Jungle", Club Dogo)
Il 12 gennaio sono tornati i Club Dogo, pubblicando il loro album omonimo dopo dieci anni da “Non siamo più quelli di Mi Fist”, che risale al 2014. Questo comeback ha chiuso un cerchio, per la formazione milanese ma anche per l’intera scena, diventando un album simbolico, di quelli che riescono a rendere evidente a tutti qualcosa che i più attenti tra di noi hanno già notato, ascoltando l’hip-hop italiano recente: la trap è in grave crisi, dopo anni di disordinata, sicuramente limitata ma anche innegabile innovazione di una scena che prima era assai meno rilevante, vivace e ricca. Il ritorno dei Club Dogo, cioè del gruppo che ha rappresentato insieme a Fabri Fibra la rinascita dopo il periodo critico tra i due millenni che aveva ridotto l’hip-hop italiano all’underground, è stato un pretesto ideale per riflettere su cosa sia successo nel frattempo. Dieci anni, più o meno, considerando che era già trap italiana la “Cioccolata” raccontata da Maruego nel (lontano) 2014.
“Torno a grande richiesta perché il rap oggi fa schifo”, dicono i Dogo, e a volte viene voglia di essere d’accordo, quantomeno per assecondare il sentimento di noia e frustrazione che travolge i timpani sempre più spesso ascoltando i nuovi singoli e album dei troppi nomi che cercano di scalare la classifica su Spotify, riempire gli immancabili palazzetti, ambire ai sempre più popolari concerti negli stadi.
Nel corso di sette album, dal fondamentale "Mi Fist" (2003) al dimenticabile "Non siamo più quelli di MI Fist" (2014), la parabola dei Club Dogo è stata sovrapponibile a quella di un rap italiano che dall'underground ritorna al mainstream, anche a costo di mischiarsi con la sensibilità pop. La traiettoria dei Club Dogo, però, sembrava essersi naturalmente conclusa, anche alla luce dell'emersione di una nuova scuola, grossolamente bollata tutta come trap, che ha reso velocemente obsoleto quel linguaggio un po' cyber e un po' gangsta. "Club Dogo" non è la dimostrazione che sono tornati quelli di "Mi Fist", ma la conseguenza di una fase di stanca ideale per guardarsi indietro e ripensare alla propria storia. Chiaramente ci sono stati altri prima, dagli Assalti Frontali ai Sangue Misto, ma l'influenza del trio milanese è stata palesata da un decennio di racconti dalla metropoli meneghina. I Club Dogo sono i capostipiti di un modo di raccontare Milano e la sua vita tra business e criminalità. Questo album ha messo a fuoco la loro influenza sui giovani rapper, facendo perno sul mestiere di tre che, a tutti gli effetti, sono veterani della scena.
Non è però un buon segno che a salvare il 2024 dall’oblio debbano arrivare dei rapper ultraquarantenni come Jake La Furia e Guè, anzi. D’altronde, meglio il loro modo di raccontarsi, sgraziati e tamarri come sempre, di molte altre proposte pubblicate da tanti dei loro figli artistici. Non ha convinto allo stesso modo quello che poteva essere l’album della maturità di Shiva, “Milano Angels”, la controparte positiva di "Milano Demons" del 2022, ancora troppo invischiato nei cliché della nostra trap.
Scartare verso un modello collegato in modo più diretto alla scena statunitense può essere uno stimolo interessante, come dimostrato da Diss Gacha, un rapper torinese classe 2001 che ha trovato il modo di distinguersi dai tanti concorrenti per l’uso di uno slang creativo, brani immediati che uniscono trap e stilemi del southern-hip-hop con una sensibilità pop capace di rendere alcuni singoli delle hit presso un pubblico di giovani e giovanissimi. “Cultura italiana pt. 1” è il suo primo (mini-)album, 21 minuti che allargano a una narrazione un po' più amalgamata. È stato "completato" da "Cultura italiana pt.2", che è di fatto un repack. Le canzoni sono spassose e sopra le righe, ma già iniziano a farsi spazio momenti più riflessivi che tendono a scadere in alcuni cliché del rap italiano contemporaneo. Speriamo che il futuro smentisca un ormai generale pessimismo: troppi nuovi nomi si sono persi dopo i primi singoli.
Esempi in questo senso sono il ritorno di thasup come Yungest Moonstar nel confuso “Sfaciolate Mixtape”, che sperpera il talento di Davide Mattei proprio ora che serviva una solida conferma di essere diversi e creativi, pronti a durare anche quando la sovrapproduzione pop-rap lascerà spazio a un altro trend. Si apprezza molto la scelta dell'album in solitaria (o quasi) in quest'epoca di featuring epidemico, ma a sostenerlo servono brani da ricordare, qui clamorosamente latitanti. Discorso diverso per "Casa gospel" in coppia con la sorella Mara Sattei, tra r'n'b e rimandi al... gospel. La direzione non sembra molto chiara, insomma.
Non va meglio neanche a un altro nome di primo piano della nostra trap come Capo Plaza, che quest’anno ha aggiunto “Ferite” alla sua discografia. A livello di narrazione, le novità sono poche: il racconto di se stessi, vincenti contro un mondo infame e ostile. In sette anni dalla hit “Giovane fuoriclasse”, tre album e un mixtape il content dei suoi brani non è granché cambiato e, nonostante il dispiego di mezzi della Warner, l'album manca di hit. Non è andata meglio al collega Dani Faiv, che ha tentato di rilanciare il suo album del 2023 con il repack “Ultimo piano B”: arrivati a questo punto è difficile immaginare che al rapper siano mancate le occasioni, visto il dispiegamento di mezzi nelle produzioni e nelle ospitate.
E se non stupisce che sia evitabile anche “Benediction” di Boro, l’album con cui il rapper torinese cerca di seguire le orme di Fred De Palma e abbracciare il reggaeton, con iniezioni di elettronica da discoteca delle più dozzinali, lascia più perplesso “Popolari” di Rhove, l’album con cui l’autore di “Shakerando” avrebbe dovuto finalmente capitalizzare quel successo. Invece, ce lo siamo ascoltati in pochi e temo che ancora meno se lo ricorderanno tra qualche anno.
Se è facile considerare “Pianeta di Miller” di Mr. Rain un album che anche prima di ascoltarlo promette assai poco, e che probabilmente piacerà a tanti, nella semplicità disarmante delle sue soluzioni, è lecito cercare altrove un po’ di ossigeno. Per esempio, si potrebbe puntare su un nome femminile: la Rose Villain che non aveva fatto male con l’esordio “Radio Gotham” e che è tornata con “Radio Sakura”, peccato che il cambio di frequenza sia stato disastroso: un album che, per essere troppo ambizioso, finisce per risultare confuso, incoerente e troppo spesso banale. Meglio l’esordio della chiacchieratissima e divisiva Angelina Mango, che in “Pokè Melodrama” gioca con il rap contaminandolo con un mix sfrontato di stili pop alla rinfusa in cui gettare mood diversi. C'è da sperare che in futuro punti sugli aspetti più distintivi, senza cercare una scorciatoia nella banalità pop più sciatta. Vedremo, con buona pace degli hater e di chi ha già capito tutto sulla carriera appena iniziata di una donna ancora ventitreenne.
C’è però un nome che ha ottenuto ancora più successo su Spotify di Angelina Mango e che è molto più vicino alla scena hip-hop e all’immaginario dei Club Dogo da cui siamo partiti: Anna. “Vera baddie” è riuscito a fare quello che “Popolari” ha completamente mancato: trasformare una one hit wonder in qualcosa di più. Visto che poco o nulla di Anna conta più dell'immagine che si è coltivata online e nelle apparizioni pubbliche, e visto che i brani di successo dove è artista principale sono davvero pochi, a giugno 2024, "Vera baddie" punta sull'espansione di quel poco che si è già ascoltato, virando al pop-rap profumato di reggaeton che rappresenta un po' il modello di certo mainstream del periodo. In sostanza, si cerca di fare delle foto, dei video e dei post sui social di un album che possa finalmente posizionare stabilmente Anna nella musica italiana del periodo. Quello che era un gioco con "Bando" nel 2019 nel 2024 dovrebbe diventare qualcosa di più concreto con "Vera baddie". A ben vedere, è un album che già dal titolo sembrerebbe voler definire la sua rap persona, con tanto di linguaggio e di posizionamento rispetto al resto della scena: una queen cattiva e ambiziosa che usa uno slang italo-inglese per parlare a un pubblico di under 20.
Il
risultato è, al contempo, soddisfacente e deludente: da un lato, il
successo è finalmente stato raggiunto (per quanto possa essere
importante per noi ascoltatori) visto che Anna ha tenuto l'album in cima
alla classifica per ben 10 settimane, facendo meglio di qualsiasi altra
donna dai tempi di Giusy Ferreri nel 2008 (11 settimane); dall'altro
lato, "Vera baddie" è un contenitore che colleziona featuring e potenziali hit
d'alta classifica senza tentare nessuna zampata, anzi ripiegando verso
una scaletta senza grandi ambizioni, se non un generico divertimento
misto a un telefonato ego trip. Con i parametri, e
per le orecchie, di chi è cresciuto ascoltando gli album, e non delle
playlist buone a vincere il gioco dello streaming, è sconclusionato e
confuso, faticoso da sorbire nonostante duri tre quarti d'ora. Dopo
cinque anni d'attesa, quello che sarà con tutta probabilità l'album più
ascoltato dell'anno in Italia è sostanzialmente mediocre, divertente qua
e là, ma non stupisce e soprattutto fatica a distinguersi da molti
altri. Se non è sintomo di crisi tutto questo, cosa può esserlo? Che uno
degli altri album più ascoltati dell’anno è “Icon” di Tony Effe, per esempio: una raccolta di brani dal content inesistente, con produzioni poco originali, prolisso e dopato dai featuring. Ovviamente, l’hanno chiamato immediatamente sul palco di Sanremo.
C’è poi un gruppo di rapper che sta tenendo viva la fiamma della celebrità mainstream, come il Lazza di “Locura” e il Geolier di “Dio lo sa”: due approcci molto diversi, con risultati entrambi pieni di ombre. "Locura" è un "Sirio" con più mezzi e ambizione, che sfrutta l'enorme successo raggiunto (è notizia di questi giorni che proprio "Sirio" ha ottenuto l'ambito riconoscimento Fimi del disco di diamante). La confezione è sfarzosa, anche apprezzabile nell'alternarsi di stili e nei numerosi dettagli, ma il content rimane quasi sempre dimenticabile. Nell'introspezione i testi di Lazza finiscono per ripetersi o scadere nel banale, mentre le sparate arroganti hanno fatto il loro tempo ed escono depotenziate da un liguaggio da PEGI 12. La forza sta nei singoli episodi più riusciti, invidiabili da molti del nostro mainstream.
Per il rapper napoletano più famoso dell’ultimo decennio, invece, è ancora più complicato parlarne senza essere assaliti da fan e hater.
Anche se è diventato assai più difficile affermarlo rispetto a quattro
anni fa, perché ora è famosissimo e quindi divisivo, Geolier ha del
talento. Rischia solo di essere soffocato da aspettative esagerate: come
può questo ventitreenne riuscire al contempo a fare brani buoni per i
liceali con il cuore infranto ma anche quelli per le serate brave della
tarda adolescenza? Le collaborazioni con i nomi affermati ma anche
quelle dove lui spinge gli altri meno conosciuti? È semplicemente
troppo, come troppe sono 21 canzoni in oltre un'ora, praticamente due
album in uno per gli standard del 2024. Crescere, come rapper,
significherà scegliere e accettare l’incoerenza di un percorso che non
può continuare a essere sia street sia Sanremo, sia racconto introspettivo che hit usa-e-getta.
Mentre
tanti altri nomi cercano di lasciare il segno ma ancora sembrano
acerbi, due hanno già centrato un album più di sostanza, Simba La Rue e Kid Yugi.
Il primo con “Tunnel” porta all’ascoltatore un concentrato di violenza
che usa un linguaggio oscuro e feroce, raccontando un profondo disagio.
Il secondo ha preso una strada inedita per i rapper della sua
generazione, pur con dei caveat: i testi del suo "I nomi del diavolo" sono arricchiti da un lessico ampio e personale, anche se battono troppo spesso sui cliché
del rap di strada e della trap. Non è un album impeccabile, com’è
comprensibile per un rapper ancora molto giovane, ma comunque questi
limiti non bastano a sgonfiare l'interesse per uno dei pochi della
nuovissima scena che mostra personalità e abilità non comuni. Molte più
riserve su uno dei rapper italiani più ascoltato su Spotify, Baby Gang,
che quest’anno con “L’angelo del male” avrebbe potuto svoltare verso un
racconto diverso, mettendo a frutto il suo talento, e invece è rimasto
soffocato da molti featuring e condizionato, forse, dai guai giudiziari. Rimaniamo speranzosi.
Di tutti gli altri, che chiaramente né chi vi scrive né nessuno con le giornate di 24 ore può aver ascoltato integralmente, è doveroso citare anche il ritorno autoriale di Piotta con “‘na notte infame”: in una scena rap che troppo spesso racconta un mondo di favole criminali ad uso social, questo decimo album di studio suona come una felice eccezione. Anche scrittore, Tommaso Zanello aveva forse bisogno di una grande storia da raccontare per trovare l'ispirazione giusta per quello che è l'unico album della discografia che, pur nella sua totale diversità, può affiancarsi al sottovalutato esordio. Il suo album più personale e doloroso, innervato da pensose immagini cantautorali e ammantato di una malinconia che s'intreccia con la nostalgia e con l'elaborazione del lutto per la scomparsa del fratello Fabio, conosciuto come "Il professore" e scrittore prolifico di testi legati al misticismo e alla spiritualità.
Un po' diversa la situazione di MadMan,
tra i più impressionanti rapper italiani a livello tecnico ma ancora
impantanato in troppi testi sessuali e nelle solite spacconate su
"Lonewolf". I due La Créme MACE e Jack The Smoker hanno pubblicato, rispettivamente, "Maya"
e "Sedicinoni": due album molto diversi, il primo ideale sintesi dei due precedenti e capace di sofisticati brani di un nuovo pop-rap (ma
anche di qualche passaggio minore) e il secondo un album di hip-hop
dall'animo hardcore che tuttavia non cambierà nulla nella scena né nella
discografia del titolare nonostante il featuring di sua maestà Conway The Machine.
C’è poi chi continua a fare storia a sé, in un modo neanche troppo ruffiano con la critica, come Dargen D’Amico: nell’imprevedibile svolgersi della sua carriera, questa volta con “Ciao America” alterna elettronica e richiami al passato abstract. Un album minore in una discografia maggiore. Sul fronte degli eccentrici troviamo anche il prolifico Gionni Gioielli, attivo sia con il progetto MxRxGxA
con “Be Great F.C.” sia a nome proprio con il meno brillante “Travolti
da un insolito destino nell'azzurro mare dell'estate”. Nulla che sposti
di molto la storia di un produttore e rapper che fa discorso a sé, come
ci è già capitato di raccontare in passato. Vale un discorso simile
anche per il producer Dj Fastcut, tornato per “Dead Poets 4 - Ad Honorem”.
Come al solito nella discografia del titolare, dietro al microfono si
succedono numerosi rapper più o meno sconosciuti al grande pubblico,
garantendo un invidiabile dinamismo ai pezzi: spesso chi partecipa si
gioca, con una strofa, la possibilità di farsi conoscere al pubblico di rappusi
ai quali Dj Fastcut sembra rivolgersi e questo comporta un'attenta
ricerca della massima efficacia e creatività. Ideale antidoto
all'indigestione trap degli ultimi anni, "Dead Poets 4 - Ad Honorem" è
da ascoltare al massimo volume e ripetutamente, immergendosi con
l'opportuna consapevolezza nel suo turbine di immagini violente,
citazioni e rime letali. All'opportunismo delle ospitate del mainstream, pensate per garantire stream
sicuri e altrettanto certi dischi di platino, si contrappone un'idea di
hip-hop come cultura da condividere e vivere, un movimento al quale
partecipare rimanendo fedeli alla tradizione ma anche innervandola di
una densità travolgente.
Mentre Nayt prosegue a seguire una direzione tutta sua con “Lettera Q”,
un album concentrato sul potere del linguaggio e sull’importanza, e la
delicatezza, delle relazioni interpersonali, il rapper italo tedesco
Giuseppe Licata detto Pufuleti rimane un segreto ben custodito del nostro underground: l’ultimo album, “Gotico romanzo”,
torna a un formato più breve ed è ancora più narcotico e trasognato,
con un ruolo centrale rivestito sorprendentemente dalla chitarra e molti
brani che approdano a un cantautorato contemporaneo suonato con
l’enfasi di un sonnambulo. Il progetto Pufuleti si conferma quindi
ancora in evoluzione, estraneo a ogni traiettoria tipica del music business. Prima o poi ne dovremo parlare un po’ più approfonditamente.
In extremis e quando tutto sembrava perduto, sono risorti anche gli Uochi Toki, ma come collettivo (!), per “Litost”. Un album dove radunano amici fuori di testa quasi quanto loro per dare un seguito a “Cambiare idea”,
che risale al 2021. Quest’anno è arrivato anche il più carbonaro
“Bandcamp Plays 2010-2024”, una raccolta di rarità come la si sarebbe
chiamata un tempo. È un album che cerca di risolvere una carriera che ha
portato, anche attraverso album eccezionalmente creativi, a una
difficile relazione con l’idea stessa di hip-hop: qua risolvono con più
musica strumentale e riducendo di molto il ruolo al microfono di Napo.
Anche questo è un modo per indicare un cambiamento nell’hip-hop
italiano.
Se l’anno è stato segnato dalla reunion dei Club Dogo, è doveroso raccontarne altre due di gruppi hip-hop altrettanto importanti, pur per motivi assai diversi: i Co’Sang e gli Articolo 31.
I primi quindici anni dopo ritornano forti di una scena che ha
individuato in loro dei capofila, forse troppo sfortunati e bruciati
troppo velocemente. “Dinastia” è simile al contemporaneo “Club Dogo” o all'“Originali”
dei Sottotono, un ritorno di autocelebrazione che nel caso loro prende
la forma di un terzo capitolo diviso tra strada e racconto del successo
ottenuto. Ospiti di spicco, compreso chi in loro individua (o ha
individuato in passato) un modello, come la star del pop-rap napoletano
Geolier.
Ventuno anni dopo “Italiano medio” (2003) il duo milanese degli Articolo 31 torna al formato album, dopo essere già passato da Sanremo 2023,
dove si sono classificati sedicesimi con “Un bel viaggio”. Nel
frattempo è successo di tutto nell'hip-hop italiano in generale e nel
pop-rap più in particolare: la generazione dei Novanta ha lasciato il posto a quella della rinascita degli anni Zero, guidata a livello mainstream da nomi come Club Dogo e Fabri Fibra, poi ormai dieci anni fa la trap ha stravolto di nuovo la scena nostrana e Sfera Ebbasta, Ghali e tantissimi altri hanno raccolto un numero di ascolti inimmaginabili per i rapper di fine secolo.
Quale che sia il giudizio su come si è sviluppato l’hip-hop italiano in oltre trent’anni, si è palesata nel 2024 un’ideale chiusura di un cerchio, forse persino la fine del paradigma dominante pop-trap, attraverso il ritorno dei Club Dogo e, anche, degli Articolo 31. Con questo doppio comeback la scena milanese si autocelebra a posteriori della storicizzazione dei percorsi artistici, pur molto diversi, di due dei suoi gruppi più famosi e, per motivi differenti, influenti: se “Club Dogo” (2024) è sin dal titolo autocelebrativo e rinuncia a ogni nuovo messaggio e sound, perché il suo motivo d’esistere è proprio quello di essere una conferma di se stessi e del proprio stile, J-Ax e Dj Jad devono, furbescamente, esplicitare la loro influenza sul presente e il passato prossimo del nostro rap.
“Protomaranza”, in pieno stile J-Ax, è però più un titolo provocatorio che una chiave di lettura della carriera del duo, diventato nel corso dei Novanta una superpotenza commerciale del pop-rap paragonabile solo ai Sottotono (peraltro, tornati anche loro). Gli Articolo 31 gigioneggiano quando suggeriscono un ruolo da outsider, da “re degli ignoranti” di celentaniana memoria, perché in realtà sono sempre stati pronti ad assecondare un pubblico nutrito e trasversale, conquistato più dall'istrionismo di J-Ax che dalla piegatura nazional-popolare delle produzioni di Dj Jad.
Il ritorno dei Cor Veleno con “Fuoco sacro” e degli Assalti Frontali con “Notte immensa” è meno sorprendente o notiziabile, perché formazioni essenziali ma meno conosciute dal pubblico generalista; inoltre, difficile aggiungere qualcosa di sorprendente a due discografie tra le più titolate dell'hip-hop italiano. Tutto questo anche se i primi hanno pubblicato un album che si fatica a non inserire tra i migliori della carriera, e quindi uno dei migliori della scena capitolina quantomeno degli ultimi anni, e anche se i secondi non erano così in forma da troppo tempo.
Infine,
quando il quadro sembrava ormai definito nella sua indefinibilità,
perché nessuno oggi può sognarsi di aver ascoltato anche solo un decimo
di tutto l’hip-hop italiano che viene pubblicato, ecco che arriva a
sorpresa il ritorno di Marracash. L’album dopo il Premio Tenco,
dopo la maturazione nei contenuti e dopo il riconoscimento del rapper
come autore e musicista, non solo per gli impallinati di hip-hop. “È finita la pace”
è un disco che rischia di rimanere schiacciato dalle aspettative,
tramortito dalle opinioni divergenti che ammorbano la rete in cui siamo
tutti impigliati. È un album di un rapper di 45 anni che commenta il presente, dalla politica alla società passando per la musica, senza featuring, senza singoli di lancio, senza countdown sui social per fomentare l’hype.
Se “Persona” (2019) è stata una rinascita, perché Marracash è sembrato finalmente capace di cambiare registro e approccio, “Noi, loro, gli altri” (2021) ha segnato un vertice difficilmente replicabile ed “È finita la pace”, più che provare a replicare e superare, scarta di lato, supera qualche confine e, occasionalmente, torna anche verso un linguaggio più semplice, diretto, muscolare. In questo suo approccio, che ovviamente ha scontentato chi si aspettava un album ancora più strutturato dei precedenti (ma non vi sono bastati?), Marracash non ha fatto che confermare quello che il 2024 ha sussurrato a chi voleva ascoltare: a forza di ripetersi, l’hip-hop italiano si è trovato a voltarsi verso il proprio passato, alla ricerca di nomi storici e ritorni più o meno inaspettati, mentre troppi dei giovani faticano a trovare una loro dimensione, un quid, la cifra stilistica che permetta di emergere da una schiera di trapper e rapper fotocopia. Lui, invece, sta cercando ancora una via personale, in evoluzione continua. A chi vi scrive “È finita la pace” non sembra l’exploit che fu l’album precedente, ma è comunque capace di suggerire nuove traiettorie, approcci differenti, idee che meritano ulteriore esplorazione.
Per certi versi, quindi, il 2024 ha segnato la morte creativa di certo hip-hop italiano standardizzato, spremuto fino all’ultima goccia da un mercato rapace e opportunista, ma ha dimostrato anche che ai margini, e persino in alcuni nomi conosciuti dal grande pubblico, c’è ancora una scintilla creativa, buona per immaginare un 2025 emancipato, almeno un po’ di più, da una marmellata pop-latin-trap indigeribile e ormai terminale.
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