di Ennio Remondino
Mica avrete creduto che l’elezione di Trump avrebbe portato davvero la fine della guerra in Ucraina in 24 ore? Trump non ferma le guerre e non porta la pace, soprattutto in Medio Oriente dove continuerà ad armare e a coprire il suo grande amico Netanyahu su qualunque altra nefandezza voglia compiere. E anche col suo amico Putin per l’Ucraina, la svolta non sarà facile, e con molti rischi, soprattutto per noi europei. Un disimpegno Usa dall’Ucraina mal gestito potrebbe diventare per il miliardario d’avventura la sua disordinata fuga dall’Afghanistan che aveva lasciato a Biden.
Prima delle minacce 2025, la memoria dei 100 anni buoni che ci hanno lasciato
Jimmy Carter, presidente Usa per un solo mandato, morto all’età di 100 anni, tra i capi di Stato Usa forse il più sottovalutato, ma con straordinari successi di una vita per il bene comune. Con l’aiuto dell’ambasciatore Giuseppe Cassini, dal manifesto, copiamo a man bassa una biografia di valori dimenticati dai più. Cassini lo colloca nell’Empireo degli statisti operatori di pace, semivuoto. «Vi si troverebbe, al massimo, con Gandhi, Nehru, Olaf Palme e Willy Brandt, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, Mandela, Luther King e Michail Gorbaciov». Senza litigare se uno di voi vuole escludere qualcuno o aggiungere pochi altri.
Un presidente senza più eredi
I suoi primati dimenticati: «Gli accordi di pace di Camp David tra Egitto e Israele; riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba; blocco degli esperimenti sulla Bomba N (al neutrone); firma del trattato Salt II con l’Urss per limitare le armi strategiche; restituzione a Panama della sovranità sul Canale; storica visita a Washington di Deng Xiaoping; riforma dell’immigrazione con regole più umanitarie; nomina di afro-americani negli alti ranghi della giustizia federale, in un sistema piagato dal razzismo; raddoppio dei parchi nazionali; finanziamenti alla ricerca sull’energia solare (primo presidente a parlare di cambi climatici e a montare pannelli solari alla Casa Bianca). Ovviamente ognuno di questi provvedimenti gli procurò acerrime inimicizie».
1979 dopo Camp David, discorso profetico
«Aleggiano attorno a noi i sintomi di una crisi dello spirito americano, disse. Troppi di noi venerano il consumismo. Ci identifichiamo con ciò che possediamo e non con ciò che facciamo; ma accumulare beni materiali non può riempire il vuoto di una vita priva di scopo». Infine l’affondo: «Credevamo che la nostra fosse una nazione del voto, non delle pallottole (ballot, not bullet), finché non furono uccisi i fratelli Kennedy e Luther King. Ci avevano insegnato che i nostri eserciti erano invincibili e le nostre cause giuste, finché non subimmo l’agonia del Vietnam. La Presidenza era rispettata come una carica onorevole, finché non subimmo il trauma del Watergate».
Di lui si citano spesso gli accordi di Camp David, ma si dimenticano i suoi sforzi per frenare l’insediamento di coloni ebrei in Cisgiordania. Il 13 giugno 1980 un Consiglio Europeo riunito a Venezia approvò la Dichiarazione per il riconoscimento di uno Stato palestinese».
Trappola Iran e «October suprise»
Il fallito tentativo di liberare gli ostaggi americani segregati nella loro ambasciata a Teheran segnerà la fine del suo mandato. «Ci si dimentica, però, che gli studenti iraniani assalirono l’ambasciata solo quando seppero che i ‘falchi’ di Washington avevano deciso di ospitare lo Scià malato contro il parere personale di Carter, convinto che accogliere lo Scià in quel clima incandescente avrebbe infiammato le folle in Iran. E così fu. Peggio: si scoprì in seguito che – mentre gli algerini mediavano per il rilascio degli ostaggi – il capo della campagna di Reagan, Bill Casey, si incontrava in segreto a Madrid con emissari di Khomeini per spingerli a tirare in lungo la crisi fin dopo le elezioni Usa a novembre». Se ne occupò allora anche il Tg1, con l’inchiesta «Cia-P2», che cambiò la vita professionale all’autore e di alcuni vertici dell’allora gloriosa testata.
Con Reagan l’era del ‘turbo capitalismo’
Nel 1981 si apriva con Reagan l’era del ‘turbo-capitalismo’, all’insegna di altro mantra, rinnovato ora da Trump: «Il governo non è la soluzione, il governo è il problema». Carter nel 2003 si battè contro l’aggressione all’Iraq. Dietro i principi di guerra giusta. «Per esser tale, una guerra deve osservare criteri ben definiti. Primo, va iniziata solo come extrema ratio. Secondo, le armi devono distinguere i combattenti dai civili. Terzo, la violenza va proporzionata alle offese subite. Quarto, l’attacco va legittimato dal Consiglio di Sicurezza. Ora la nostra statura nel mondo è compromessa e non potrà che declinare ancora, se agiremo in contrasto con l’Onu». È esattamente ciò che si sta verificando costantemente oggi da personaggi molto vicino alle amministrazioni Usa sia repubblicane sia Dem. O alla Russia di Putin se preferite altri protagonisti analogamente colpevoli.
2024, chi governa perde e l’Europa si sposta a destra
Il 31 dicembre 1999, a Mosca, Boris Eltsin annuncia la consegna del potere a Vladimir Putin, ci ricorda Francesco Strazzari. A 25 anni esatti di distanza, il grande anno elettorale 2024 delle democrazie, s’è chiuso con la sconfitta di tutte le forze politiche presentatesi al governo, Usa inclusi. E la guerra che la Russia di Putin ha scatenato in Ucraina 1.043 giorni fa, «lascia la propria impronta negli scenari più disparati, dal Baltico alla Corea del Nord, dall’Azerbaigian alla Siria. Nel frattempo a Parigi come a Berlino è difficile decifrare il segno e il contorno della maggioranza politica che governa. Fra Bruxelles e Strasburgo, la Commissione e il Parlamento europei si trovano il baricentro politico spostato a destra». Con Elon Musk – consigliere di Trump e amico di Meloni – che un giorno evoca la guerra civile nel Regno Unito e quello dopo appoggia l’estrema destra dell’AfD in Germania.
‘Burden sharing’, condivisione degli oneri con gli alleati
Scommessa sulla prima mossa di Trump sull’Ucraina e in Europa? Lui passerà direttamente al disimpegno degli oneri (burden shifing), scaricando tutto il peso di una guerra non ancora risolta e di una ricostruzione da brivido che dovrà venire, sulle spalle e sulle tasche dell’Europa servile complice. E ancora da Stazzari. «Un disimpegno mal ponderato dall’Ucraina rischia di diventare per Trump quello che il caotico disimpegno americano dall’Afghanistan è stato per Biden. Per quanto prema sugli europei (pattugliamento del fronte ucraino), o sui paesi del Golfo, ritirarsi dalla Siria o dall’Ucraina è oggi tutt’altro che semplice: sono in gioco equilibri globali e i teatri di guerra sono tra loro connessi.
Antagonismo militarista e nazionalismo sono sintomi di patologie strutturali più profonde: le stesse cavalcate da chi predica, a ogni latitudine, la democrazia come raggiungimento di grandi risultati per i quali è necessario spaccare ogni regola e ogni diritto».
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