Come va la trattativa per la pace in Ucraina? All’incirca nello stesso modo in cui procede la guerra sul terreno: per frizione e consunzione, arretrando un passo alla volta ma negando di averlo fatto.
È ovviamente il vertice di Kiev a procedere in questo modo – sul piano della trattativa – spinto dagli Usa e frenato dai “volenterosi”. La situazione sul campo peggiora ogni giorno e “facilita”, per così dire, anche la disponibilità a “concessioni dolorose” quando la prospettiva è di doverne fare a breve di ancora più pesanti.
Lo stesso Zelenskij appare ormai rassegnato, le sue “resistenze” presentano smagliature evidenti e sembrano riguardare più le modalità del cedimento che non la sua entità.
Nel fiume di interviste che concede quotidianamente ha spiegato che Trump sta facendo da giorni pressione perché il suo piano sia accettato o rifiutato entro Natale, anche se una data precisa non sembra esser stata fissata.
Nei giorni scorsi aveva già accettato l’ipotesi di indire nuove elezioni, entro due o tre mesi, chiedendo però all’Occidente “misure di sicurezza” per garantire il voto. Formula ambigua, come si vede, che lascia spazio a interpretazioni non tranquillizzanti (tipo “truppe dei volenterosi momentaneamente sul terreno”) e che potrebbero mandare all’aria tutto il processo.
Anche sul riconoscimento di aver perso territori sono stati fatti passi consistenti. Resta in piedi una discussione sul “fino a dove” (sull’attuale linea del fuoco oppure sugli interi oblast non del tutto conquistati, con o senza una “zona cuscinetto”e di quali dimensioni, con restituzione oppure no di piccole zone occupate a Kharkiv e Sumy), vincolando oltretutto la decisione a un referendum popolare. Perché è evidente che non tutti i gruppi di potere, e specialmente l’ala nazista del governo e dell’esercito, sono al momento d’accordo. Meglio dunque dare la parola al popolo...
Tutte questioni che però devono essere risolte presto. Domani a Parigi si terrà l’ennesimo vertice dei “volenterosi” (Francia, Germania, Gran Bretagna e Polonia), ma non è al momento chiaro se Trump – la potenza effettiva del fronte euro-atlantico – sarà presente o meno. La sua portavoce Karoline Leavitt ha dichiarato che è “ancora tutto in aria”, perché “Il presidente è estremamente frustrato da entrambe le parti in questa guerra ed è stufo di riunioni solo per il gusto di riunirsi”.
Più in dettaglio è emerso che durante l’ultima videoconferenza tra Trump e i quattro leader europei i partecipanti “hanno discusso dell’Ucraina con parole piuttosto forti”. Fuori dalle cautele del linguaggio diplomatico lo scontro deve essere stato alquanto “pugilistico”.
Il problema, come abbiamo provato più volte a chiarire, è che tutto questo “dibattere” sui singoli punti tra statunitensi ed europei prescinde allegramente dalla realtà: qualsiasi “piano” venga rabberciato qui deve essere poi presentato alla Russia con qualche speranza che venga preso in considerazione come base della trattativa vera e propria.
Parecchi esperti di politica internazionale fanno per esempio presente che le “garanzie di sicurezza” devono essere tali per entrambe le parti, dunque anche per la Russia. Non esiste insomma una “pace” che garantisce una parte ma lascia l’altra “scoperta”. In soldoni, per Mosca, ciò significa che la Nato non deve entrare in Ucraina e viceversa.
Può invece aderire all’Unione Europea, che certamente esce da tutta questa vicenda molto ridimensionata come soggetto potenzialmente “competitivo” rispetto a Usa, Russia, Cina.
Non è stato sottolineato da molti, ma il fatto stesso che la UE in quanto “insieme di 27 paesi” non sia stato mai in grado di prendere alcuna iniziativa – né diplomatica, né militare – è una prova di debolezza infinita. Il ruolo attivo è stato assunto infatti dal gruppo dei “volenterosi”, ossia da quattro paesi UE più la Gran Bretagna che è fuori. Gli altri hanno vagato senza direzione stabile...
La rappresentante per la politica estera, la svalvolata Kaja Kallas, parla tutti i giorni come se stesse contando qualcosa («Mosca dovrà fare rinunce, l’Ue resisterà»), ma – per esempio – il segretario di stato Marco Rubio si rifiuta sistematicamente persino di incontrarla, a riprova del fatto che una politica estera europea ridotta alle paranoie baltiche non può neanche essere presa in considerazione.
Anche il segretario pro-forma della Nato, l’olandese Mark Rutte, continua a spargere allarmi (“siamo noi il prossimo obiettivo di Putin”), forse senza rendersi esattamente conto della gravità di quel che dice e dei rischi che va seminando.
In più, arriva dagli Usa uno studio – poi smentito – secondo cui l’amministrazione Trump starebbe lavorando, o vedrebbe con favore, all’ipotesi di promuovere un gruppo di paesi europei (Austria, Ungheria, Italia, la Germania aiutando i nazisti dell’Afd a vincere le prossime elezioni) per dissaldare sostanzialmente l’Unione Europea.
Non è del resto una novità che gli Stati Uniti abbiano sempre visto con sufficienza, o di malocchio, il tentativo europeo di costituirsi come “polo imperialista concorrente”. Già George “Dabliu” Bush aveva insistito sul differenziare il trattamento tra la “nuova Europa” (Polonia, baltici e altri ex paesi dell’Est), e la “vecchia Europa” degli stati fondatori. Con il secondo mandato di Trump questa ostilità sembra aver definitivamente decollato...
Nell’insieme, al dunque, si vanno alzando molti cigni neri sopra una costruzione che ha blindato – sì – i bilanci pubblici dentro una camicia di forza (l’austerità), ma non ha mai prodotto una visione storica all’altezza delle dichiarazioni.
Un insieme che alla prova del conflitto, perciò, si è scomposto e fatica a trovare un senso strategico, prima ancora che un ruolo al tavolo delle trattative.
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