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12/12/2025

Piazza Fontana, sono stati loro...

Milano, venerdì 12 dicembre 1969. A metà pomeriggio la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, brulica ancora di correntisti. Chi vende bestiame, chi sementi, chi aziende intere. Il salone è un alveare. Le voci rimbalzano tra le colonne. Il fruscio delle carte si mescola ai passi. Poi: tutto si spezza.

Alle 16:37, ventitré minuti prima della chiusura, sotto un tavolone ottagonale al piano terra esplode una bomba. Dieci chili di tritolo. Dieci chili che spazzano via corpi e le illusioni di un Paese che ancora crede nella propria innocenza.

L’edificio vomita vetro e sangue. L’aria si riempie di schegge. I corpi volano in alto, sbattuti come manichini. Urla. Sangue. Panico. Nessuno capisce subito, ma tutti sanno: è una strage.

Il bilancio: diciassette morti e ottantotto feriti. La strategia della tensione ha bisogno di corpi da contare.

Ma Milano non basta. La regia è troppo ambiziosa per un solo atto. Roma trema alla stessa ora. Tre bombe. Tre colpi nel cuore della capitale.

La prima alle 16:45: Banca Nazionale del Lavoro, sotterraneo tra via Veneto e via San Basilio. Tredici feriti. Una strage mancata.

Alle 17:16, Altare della Patria, seconda terrazza, lato Fori Imperiali. Otto minuti dopo, di nuovo lì: lato scalinata dell’Ara Coeli. Come a dire: la vostra patria è una menzogna.

Anche a Milano, alla Banca Commerciale di piazza della Scala, c’è una bomba che aspetta il suo turno. Ma il caso la disinnesca: il timer si inceppa.

Alle 21:30 gli artificieri della polizia fanno brillare l’ordigno nel cortile interno. Distruggono le prove insieme alla bomba. Qualcuno ha fretta di cancellare le tracce, nascondere le firme, proteggere i veri colpevoli.

Quel 12 dicembre le bombe seguono una direttrice precisa: Milano-Roma. Denaro-Potere. È un messaggio in codice per chi sa leggere nel sangue.

Lo scopo: spingere il governo Rumor a consegnare le chiavi a chi promette ordine. Non vogliono il caos. Vogliono l’opposto: l’ordine della paura. La vera posta in gioco: fermare un Paese in movimento. Spegnere l’autunno caldo del lavoro organizzato. Arginare l’onda del ’68.

Un anno dopo, ancora complotti: è il turno del golpe Borghese, il colpo di Stato abortito all’ultimo minuto. Stessa logica: usare la paura per cambiare tutto, affinché nulla cambi.

E la regia? Cercare nelle stanze dei bottoni, dove si mescolano sette occulte, servizi marci, fascisti redivivi, fanatici d’America, signori dell’economia, generali coperti di stelle. Sono stati loro. E hanno continuato a esserlo.

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Le mele marce dell’informazione

1

I fatti sono noti. Il 12 dicembre 1969 a Milano esplode una bomba che devasta la Banca Nazionale dell’Agricoltura. 17 i morti. Una strage passata alla Storia come “la madre di tutte le stragi”. È l’inizio della “Strategia della tensione”.

Una guerra non ortodossa lunga un decennio, accompagnata da un’altra guerra, per certi versi, ancora più subdola: quella condotta dal “Sistema dell’Informazione ufficiale”. Missione: manipolare un’opinione pubblica disorientata e impaurita. Del resto una guerra senza propaganda non si è mai vista.

La paternità della strage è immediatamente attribuita agli anarchici. Facile. Sono loro i bombaroli per eccellenza. È particolarmente viva nel Paese la ferita provocata dall’esplosione di due ordigni il 25 aprile 1969, sempre a Milano. Nel giorno dell’anniversario della Liberazione, nel capoluogo lombardo, esplodono infatti due bombe: una alla Fiera Campionaria e l’altra all’Ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni, nella stazione di Porta Garibaldi, ferendo una ventina di persone.

Il quotidiano “Il Giorno”, titola subito: «Sono bombe anarchiche». Il “Corriere della Sera” opera con la stessa logica che proporrà solo qualche mese più tardi, all’indomani della strage di Piazza Fontana, suggerendo immediatamente ai suoi lettori i colpevoli. Alludendo addirittura alle bombe del 1928, che «anche allora fu un gesto criminale di un gruppo anarchico».

Allora sul selciato di piazzale Giulio Cesare, all’ingresso della Fiera di Milano, per una granata restarono a terra venti morti e più di quaranta feriti. Tutta gente che era venuta ad assistere alla visita di re Vittorio Emanuele III.

Tornando alle bombe del 25 aprile, si attestano subito sulla linea colpevolista oltre al “Corriere”, anche “Il Tempo” e “La Nazione”. Un millimetro più cauta “La Stampa” di Torino.

Seguono le bombe sui treni di agosto. L’8 ed il 9 agosto 1969 esplodono otto bombe posizionate su diversi treni delle Ferrovie dello Stato, presso le stazioni di Chiari, Grisignano, Caserta, Alviano, Pescara, Pescina e Mira, mentre altre due bombe vengono ritrovate, inesplose, nelle stazioni di Milano Centrale e Venezia Santa Lucia.

Nel racconto della carta stampata si trasmette l’idea che l’Anarchia è disordine, sangue, morte. Si prepara il terreno. Si costruisce una sorta di pregiudizio di colpevolezza.

Sul quotidiano di Via Solferino, Mario Cervi, il gemello di Indro Montanelli, tratteggia l’immagine di un Paese in attesa di «misure insieme repressive e preventive che oggi non sono più dilazionabili e rinunciabili».

Il collega Alberto Grisolia, sembrerebbe legato ai servizi segreti, nelle pagine interne della cronaca di Milano si prodiga nell’indicare la suggestione di un altro precedente storico, a suo avviso, di marca anarchica: «Un tragico precedente: lo scoppio del Diana. La bomba esplose la sera del 23 marzo 1921. Autori furono tre anarchici».

La suggestione rimbalza anche nelle altre testate di Destra come “Il Giornale d’Italia”, “La Notte”, “Il Resto del Carlino”. Anche “L’Osservatore Romano” soffia sul fuoco degli anarchici e più in generale sulla stagione della Contestazione. Scrive: «Un’ondata di anarchia si abbatte sul paese».

L’attentato alla Fiera di Milano di aprile, le bombe sui treni di agosto, la morte dell’agente Annarumma il 19 novembre, durante una mobilitazione di piazza, rappresentano una catena di atti terroristici che culminerebbero con la strage di Piazza Fontana. Di questa ricostruzione se ne fa interprete, nel discorso di fine anno, anche il capo dello Stato, Giuseppe Saragat. C’è bisogno di ordine, di ripristino dell’ordine pubblico. Bingo.

Per i quotidiani della sinistra storica “L’Unità”, “L’Avanti” e “Paese Sera” la matrice è invece inconfondibile: di marca fascista. Mentre i giornali della sinistra rivoluzionaria, sono ancora più espliciti: la Strage, non è solo fascista è di Stato.

È “La Stampa” a riportare le parole del commissario di Polizia, Luigi Calabresi, che a sole poche ore dall’attentato dichiara di guardare all’«estremismo di sinistra», perché «non sono certo quelli di destra che fanno queste azioni. Sono i dissidenti di sinistra: anarchici, cinesi, operaisti (Potere operaio, Lotta continua)».

Due giorni dopo «una spinta e l’anarchico Pinelli vola giù» da una finestra della Questura di Milano.

2

La strage di Piazza Fontana ha segnato inequivocabilmente una spaccatura nella storia della Repubblica. Un evento che darà il via alla strategia della tensione. Formula, coniata da una giornalista inglese, che ebbe come obiettivo, usando le parole di Aldo Moro, «di rimettere l’Italia nei binari della “normalità” dopo le vicende del ’68 e del cosiddetto autunno caldo».

La strage nella Banca Nazionale dell’Agricoltura ha rappresentato però, anche, il punto di non ritorno del giornalismo italiano. Infatti, come abbiamo abbozzato nella prima parte, la stampa italiana in larghissima parte ha deliberatamente sposato, sin dal primo minuto, le versioni ufficiali delle indagini che indicavano i colpevoli nella pista anarchica.

Scorrendo quindi le pagine della stampa nazionale nei primi giorni seguiti alla strage, il “Corriere della Sera”, è sempre il primo a pubblicare notizie sulle indagini, soprattutto grazie alla penna del cronista Giorgio Zicari, collaboratore del SID.

Sarà Giulio Andreotti in un’intervista rilasciata a “Il Mondo” del giugno 1974 a confermare le accuse che si stavano muovendo nei confronti di Zicari e Giannettini come informatori del SID, “Servizio informazioni difesa” (sciolto nel 1977 e al suo posto furono create due strutture: una civile e una militare SISDE e SISMI).

Altro snodo strategico dei servizi segreti saranno le agenzie di stampa, che inonderanno di redazionali, articoli in apparenza asettici e senza firma, i quotidiani locali.

La svolta narrativa è del 16 dicembre. Il mostro da sbattere in prima pagina ha un’identità: Pietro Valpreda. È davvero una pubblica gogna quella che il giornalismo italiano costruisce ai danni di un uomo le cui vicende più intime sono presentate come sintomi di un sordo rancore verso la società.

A dare agli italiani la notizia dell’arresto è la diretta Rai del telegiornale della sera, prima tramite le parole ripetute di Rodolfo Brancoli – “un appartenente al gruppo anarchico 22 marzo è stato riconosciuto da un testimone” – poi, con assoluta e perentoria certezza, dal giovane inviato Bruno Vespa che in collegamento dalla questura di Roma dichiara: «Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili».

Il giorno successivo, il 17 dicembre, sulle prime pagine è un diluvio di titoli malvagi. Uno degli articoli che più ferocemente traccia l’identikit di Valpreda è a firma di Vittorio Notarnicola (La furia della bestia umana, “Corriere d’Informazione”, 17 dicembre 1969)
«La bestia umana è stata presa [...]. Il massacratore si chiama Pietro Valpreda, ha trentasette anni, mai combinato niente nella vita; rottura con la famiglia; soltanto una vecchia zia, che stira camicie e spazzola cappotti, gli dà una mano; viene dal giro forsennato del be-bop, del rock, un giro dove gli uomini sono quello che sono e le ragazze pure. S’è dimenato sulle piste delle balere fuori porta e sotto le strade del centro, faceva il boy, uno di quei tipi con le sopracciglia limate e ritoccate a matita grassa che fanno ala, in pantaloni attillatissimi, alla soubrette […]. Un passo dietro l’altro, Pietro Valpreda si avvia a diventare la bestia […] Così nasce un Pietro Valpreda. Da questo entroterra arriva al massacro».
Dal momento dell’arresto, Valpreda è oggetto di una campagna di criminalizzazione senza precedenti, nonostante abbia un alibi di ferro. La prozia Rachele ha testimoniato che il pomeriggio del 12 dicembre il nipote era a casa sua con l’influenza, e per questo è stata incriminata per falsa testimonianza nonostante il suo avvocato difensore Guido Calvi abbia fatto mettere a verbale al PM Vittorio Occorsio come il tassista Rolandi avesse dichiarato che, prima del confronto, gli era stata mostrata dai Carabinieri di Milano una fotografia del ballerino anarchico, dicendogli che era la persona che avrebbe dovuto riconoscere, un fatto che invalidava alla radice il riconoscimento.

Di fronte a questa ondata di fango il 23 dicembre si costituisce a Milano il “Comitato per la libertà di stampa e per la lotta contro la repressione”, cui aderiscono circa 150 giornalisti di differenti testate impegnati a denunciare le trame reazionarie del potere esecutivo e giudiziario. Aprendo la via alla controinformazione sollecitata dalla “discussa” morte dell’anarchico Pino Pinelli e dal “provvidenziale” arresto di Pietro Valpreda.

Nonostante l’emergere di lì a breve della pista neofascista alternativa a quella anarchica per la strage, Valpreda rimane in carcere fino al 1972. Sarà assolto in via definitiva soltanto nel 1987.

Il giornalismo di Stato è il peggiore dei giornalismi.

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