Un piano di dismissione gigantesco, proporzionale a quello che
coinvolse la ex Germania dell’Est dopo la riunificazione del 1990. E’
questa la richiesta che la Deutsche Bank ha fatto
all’Europa, e in particolare al governo tedesco, in suo rapporto di
qualche mese fa e che ora abbiamo potuto leggere grazie al sito Alencontre.org. Il documento è del 20 ottobre 2011
e si intitola “Guadagni, concorrenza, crescita” ed è firmato da Dieter
Bräuninger, economista della banca tedesca dal 1987 e attualmente Senior
Economist al dipartimento Deutsche Bank Researc. Un testo importante
perché aiuta a capire meglio cosa sono “i mercati finanziari”, chi è che
ogni giorno boccia o promuove determinate politiche di questo o quel
governo. La richiesta che è rivolta direttamente alla cosiddetta Troika,
Commissione europea, Bce e Fmi è quella della privatizzazione massiccia
e profonda del sistema di welfare sociale e di servizi pubblici per un
valore di centinaia di miliardi di euro per i seguenti paesi: Francia,
Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda. Il rapporto stretto con
gli “attacchi” dei mercati internazionali si vede a occhio nudo.
Gli autori del rapporto hanno come modello di riferimento per questo piano di privatizzazione il vecchio Treuhandanstalt
tedesco (l’Istituto di Gestione fiduciaria che, tra il 1990 e il 1994
garanti la dismissione di cira 8000 aziende dell’ex Ddr soprattutto a
vantaggio delle imprese dell’Ovest). Stiamo parlando di un valore
patrimoniale di 600 miliardi di marchi tedeschi del 1990 secondo le
stime ufficiali, circa 307 miliardi di euro attuali. Nonostante
quell’agenzia abbia terminato il suo lavoro con una perdita di 256
miliardi di marchi, lo schema viene riproposto nel documento Deutsche
Bank – e a giudicare dalle intenzioni, anche dai progetti governativi: “La
situazione difficile sui mercati finanziari non è un ostacolo – scrive
il rapporto. Una modalità consisterebbe nel trasferire gli attivi a
un’agenzia incaricata esplicitamente di privatizzazione. Questa potrebbe
in seguito, a seconda della congiuntura dei mercati, scaglionare la
vendita nel tempo”. Si mette tutto in un fondo comune, dunque,
senza fare di questa o quella privatizzazione l’emblema del progetto, in
modo da non sapere più cosa e quando viene venduto, aggirando eventuali
opposizioni.
Il capitolo che riguarda l’Italia è molto dettagliato, al pari di
quelli degli altri stati. Dopo aver fatto una breve disamina della
situazione pregressa – dall’Iri alle privatizzazioni di Telecom e delle
altre grandi aziende - il documento ammette che “lo stato nel suo
complesso nel corso dell’ultimo decennio si è ritirato in modo
significativo” da diversi settori. Però esistono ancora “potenziali
entrate derivanti dalla vendita di partecipazioni in grandi aziende”.
Almeno 70-80 miliardi. Ma “particolare attenzione meritano gli edifici
pubblici, terreni e fabbricati. Il loro valore è stimato dalla Cassa
Depositi e Prestiti per un totale di 421 miliardi”. E, si aggiunge, “la loro vendita potrebbe essere effettuata relativamente con poco sforzo”.
“Secondo i dati ufficiali, è di proprietà dello Stato (comprese
le regioni, i comuni) un patrimonio complessivo di 571 miliardi, ossia
quasi il 37% del Pil”. Quindi, non si tratta di vendere solo qualche quota di Eni o Enel ma interi pezzi del patrimonio pubblico “in particolare l’approvvigionamento di acqua”, misura che appare “utile” soprattutto per via delle “enormi perdite, fino al 30%, dell’acqua distribuita”.
In effetti il testo dedica molto spazio ai servizi pubblici, non solo l’acqua pubblica: “A
differenza delle telecomunicazioni, certe parti del settore energetico e
dei trasporti (innanzitutto ferroviari) sono ancora suscettibili di
privatizzazioni radicali e di una deregolamentazione, da condurre
nell’insieme dell’Europa”. E nel testo non c’è alcun imbarazzo a
scrivere che “in principio, la privatizzazione di servizi pubblici di
interesse generale presenta dei vantaggi, come ad esempio
l’approvvigionamento d’acqua, la gestione delle fognature, l’assistenza
sanitaria e le attività non statali dell’amministrazione pubblica”.
Oltre all’Italia, come detto, il rapporto si occupa di altri paesi. La Francia,
ad esempio dovrebbe avere circa 88 miliardi di euro di beni
capitalizzabili sul mercato, il 4,6% del Pil ma, spiega la Deutsche
Bank, “l’intervento statale nell’economia va oltre queste cifre”. Ci
sono le infrastrutture, le centrali idroelettriche a partire dall’Edf
che è di proprietà statale e ampi spazi del settore bancario. Per quanto
riguarda la Spagna, l’accento è posto sulla vendita di
aeroporti, sui servizi di navigazione, i cantieri navali, le Poste, le
ferrovie. Infine, per quanto riguarda la Grecia, si
ricorda che gli impegni presi dal paese nei confronti della Troika
riguardano il 22% del Pil, circa 50 miliardi di euro di privatizzazioni.
Ma, si sottolinea, “lo Stato controlla il 70% del Paese”, quindi c’è
ancora molto da fare.
Fonte
Ormai è chiaro come il sole che la finanza tedesca vuole fare in Europa quanto ha fatto la finanza americana 20 anni fa in Sud America.
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