Fare i conti con la Rete vuol dire addentrarsi su un terreno
scivoloso, dove i limiti della cassetta degli attrezzi dell’autore di
turno vengono impietosamente evidenziati. Non sfugge alla regola il
saggio di Benedetto Vecchi, La Rete dall’utopia al mercato (manifestolibri - ecommons, 2015).
Vecchi non affronta di petto il tema annunciato dal titolo, ma tenta di
farlo emergere progressivamente, costruendo un mosaico fatto di decine
di tessere, ognuna delle quali prende in esame le idee di uno dei tanti
autori che si sono occupati di Internet dagli anni Novanta a oggi.
Evitando di seguirlo su questo terreno, mi concentrerò sui nodi
fondamentali del suo discorso e, per agevolare il compito al lettore,
anticipo il punto di vista da cui prende le mosse la mia analisi
critica: le tesi postoperaiste – campo teorico nel quale si inscrive il
contributo di Vecchi – scontano, fra le altre, tre evidenti aporie
associate alla nostalgia nei confronti di altrettanti “paradisi
perduti”.
Il primo lutto è ascrivibile alla perdita delle speranze – stroncate dall’uso capitalistico dell’innovazione digitale – che l’utopia hacker aveva
suscitato fra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni del
Duemila. Del resto il distacco di Vecchi da ciò che avrebbe potuto
essere e non è stato (l’utopia che si è fatta mercato) non è mai
definitivo, per cui il retrogusto di quella speranza, ancorché fondata
oramai solo sull’immaginario, continua ad aleggiare fra le righe,
smentendo il senso del titolo. Il secondo lutto mancato si riferisce a
un evento ben più lontano nel tempo ma ancora tanto attuale da
sovradeterminare ogni passaggio del discorso: in barba alle impietose
smentite della storia, i postoperaisti (né Vecchi fa eccezione) restano
abbarbicati al dogma secondo cui il lavoro vivo, lungi dall’essere
oggetto passivo dell’accumulazione capitalistica, ne determina
costantemente la direzione di sviluppo. Di qui il disorientamento per il
venir meno di una figura centrale dell’antagonismo di classe quale è
stato l’operaio massa, e il tentativo di riesumarne la funzione
raggruppando le proliferanti identità del nuovo proletariato sotto la
categoria di moltitudine. Infine il terzo lutto mancato, il più
paradossale, nella misura in cui riguarda un approccio teorico che
dichiara d’aver preso congedo dalla dialettica storicista: mi riferisco
al persistente riferimento alla tesi marxiana secondo cui la
contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di
produzione è destinata a raggiungere il punto di rottura nel momento in
cui la potenza del general intellect divenga
tale da svelare la “miseria” della legge del valore – momento che si
ritiene superato con l’avvento dell’economia della conoscenza. Questo
evento, che negli anni Sessanta e Settanta veniva inquadrato nel
concetto di tendenza, viene ora considerato come pienamente
realizzato, al punto da determinare la forma stessa degli attuali
rapporti di produzione, i quali possono apparirci ancora capitalisti
solo in ragione della costituiva ambivalenza della realtà sociale in cui
viviamo. Vediamo ora di districare i tre nodi in questione seguendo
l’ordine appena elencato.
A tratti Vecchi sembra ammettere che la transizione dall’utopia al mercato (che personalmente definirei come la metamorfosi dell’originaria narrativa hacker –
fondata sui principi della condivisione delle conoscenze e della
collaborazione competitiva fra tecnici informatici professionali e
amatoriali – nell’attuale narrativa neomanageriale) è un processo compiuto e irreversibile. Ciò avviene, per esempio, laddove afferma che, dietro a un cybercapitalismo che
si basa sulle nuove tipologie di “lavoro libero”, si annida in realtà
un modo di produzione in cui l’unica libertà concessa resta quella di
vendere la propria forza lavoro. Oppure laddove allude al “patto
luciferino” che lega imprese e professional,
accomunati da un unico obiettivo: garantire una crescita di
produttività in grado di tradursi in costante aumento del valore delle
azioni (passaggio in cui si avverte un’eco delle tesi di Dardot e Laval
sulla costruzione dell’homo competitivus come
soggetto antropologico neoliberista). O infine laddove, nel contesto di
un’analisi del mondo Apple, si parla di convivenza fra forme di lavoro
servile e militarizzato con i knowledge workers e
la potenza della cooperazione sociale messa a profitto (colpisce però
la mancata analisi del conflitto di interessi fra questi diversi strati
di classe).
Eppure Vecchi non riesce a dare per chiusa la partita. Al contrario: è
evidente come restino potenti le seduzioni che continua a subire sia da
parte delle sirene anarcocapitaliste di Yochai Benkler, sia degli
annunci di democrazia diretta e partecipativa di Manuel Castells (il
guru della “autocomunicazione di massa”). Così, quando si misura con il
discorso di Benkler, non resta insensibile alla tesi secondo cui il
fatto che la conoscenza sia divenuta il principale mezzo di produzione
comporterebbe automaticamente la messa in discussione della sua
appropriazione privata. Per Benkler – che rivendica esplicitamente la
propria vicinanza alle visioni “libertariane” degli anarco capitalisti –
ciò significa postulare la possibile transizione a un “capitalismo
senza proprietà”, fondato sulla cooperazione/competizione fra piccoli
produttori indipendenti, disponibili a condividere conoscenze sulla base
di un’inedita economia del dono. Vecchi, pur non sposando
esplicitamente tale tesi, sembra concordare sul fatto che le strategie
di enclosure dei
beni immateriali “non riescono a bloccare la condivisone del sapere in
quanto tratto distintivo di Internet”. Al contempo tenta di tradurre la
visione di Benkler nel lessico marxiano, postulando “l’intrinseca
eccedenza” di saperi e conoscenze rispetto alle norme imposte dai
rapporti di produzione vigenti.
Come conciliare queste oscillazioni con la presa d’atto della resa dell’utopia hacker al
patto luciferino con il capitale? Semplice: basta postulare la
“assoluta ambivalenza” dell’attitudine hacker. Ambivalenza che viene
chiamata in causa anche laddove Vecchi, dialogando con Castells, ne
rilancia l’idea secondo cui “lo spazio dei flussi” (cioè lo spazio
virtuale delle relazioni sociali mediate dalla Rete) sarebbe il contesto
in cui “prendono forma nuove procedure per la decisione politica al di
fuori del monopolio dello stato”. Eppure Vecchi non ignora le analisi
critiche – che cita del resto ampiamente – di Evgenj Morozov e altri
autori (compreso il sottoscritto) nei confronti della presunta vocazione
democratica della Rete; ciò non gli impedisce di sostenere che, pur
essendosi convertita in una tecnologia di controllo sociale, la Rete
resterebbe il contesto dove poter immaginare sia una politica di
riappropriazione della ricchezza sia un modello alternativo di
organizzazione politica. Immaginare è sempre lecito, resta da stabilire
se, prima di assumere la Rete a modello, anche solo immaginario, non
convenga appurare se gli algoritmi che governano lo spazio dei flussi
siano strumenti neutri, dei quali basterebbe riappropriarsi per
rovesciarne senso e funzione (ma di questo più avanti).
Passiamo al secondo nodo. L’idea che la direzione di sviluppo
dell’accumulazione capitalista sia interamente determinata dalla
necessità di superare la resistenza operaia, è un dogma fondativo
dell’operaismo, per cui si capisce come risulti difficile prendere atto
della disfatta del lavoro vivo nei
decenni successivi al ciclo di lotte conclusosi con gli anni Settanta.
Pur di non riconoscere che l’inversione del rapporto di forze fra lavoro
vivo e capitale è stato il frutto storicamente determinato e
contingente del modello produttivo fordista, ci si è arrampicati sugli
specchi per identificare, di volta in volta, nuove figure in grado di
incarnare la tendenza: operaio sociale, lavoratori della conoscenza,
lavoro autonomo di seconda generazione sono stati variamente convocati
per recitare la parte del nuovo soggetto in grado di esercitare pratiche
autonome di “autovalorizzazione”.
Di fronte all’irriducibile polimorfismo della nuova forza lavoro
globale, invece di analizzarne nei dettagli la composizione, stabilendo
una gerarchia fra i diversi strati in base al tasso di antagonismo
praticato (e non virtuale!), si è preferito ricorrere alla categoria
passepartout di moltitudine. Un concetto privo di ogni concreta
determinazione sociale e politica, in cui si tenta di insufflare vita
definendone un’improbabile identità produttiva. Ciò emerge con
particolare chiarezza quando ci si misura con la sfida della produzione
in Rete, e infatti Vecchi – consapevole dell’impossibilità di attribuire
un ruolo di “avanguardia” alle addomesticatissime schiere dei knowledge workers impiegati
nel ciclo high tech – se la cava estendendo illimitatamente il concetto
di lavoro cognitivo, per cui la totalità delle relazioni sociali
mediate dalla Rete diventa cooperazione sociale produttiva di saperi sans phrase.
Peccato che il concetto di produttività sociale diffusa – assieme a
quello secondo cui l’accumulazione originaria non è un evento storico
puntuale, bensì un processo ricorsivo di estensione degli ambiti di vita
subordinati al rapporto di capitale – siano stati tematizzati da Marx
secoli prima dalla rivoluzione digitale né costituiscano, di per sé, il
presupposto di un processo di soggettivazione antagonista (ma sono al
contrario utilizzabili, vedi Dardot e Laval, come materiali per la
costruzione del soggetto neoliberista).
Veniamo ora al terzo nodo, il più aggrovigliato, per cui sarò
costretto ad accennarvi sinteticamente semplificando drasticamente i
termini della questione. Come ho già sostenuto in scritti precedenti,
sono convinto che, se c’è una categoria marxiana che occorre relegare in
soffitta, è proprio quella della presunta contraddizione fra forze
produttive e rapporti di produzione. Residuo di una visione hegeliana
della storia, e di una fiducia positivista nel ruolo progressivo della
scienza e della tecnica, tale visione, tanto ottimista da avvicinarsi
pericolosamente a una teoria del crollo, dovrebbe apparire superata a
chiunque nutra una sia pur minima consapevolezza che le
innovazioni scientifiche e tecnologiche, non solo non sfuggono alla
sovradeterminazione da parte dei rapporti di dominio della classe
capitalistica sulle classi subordinate, ma li incarnano in modo diretto
ed esplicito.
Non lo hanno compreso Lenin e Gramsci, affascinati
dall’organizzazione “scientifica” del lavoro, al punto da vedere nel
fordismo/taylorismo uno strumento di cui il proletariato avrebbe potuto
impadronirsi per volgerlo ai propri fini. Non lo capiscono i
postoperaisti che, in alcuni scritti raccolti nel volume Gli algoritmi del capitale (ombre corte, 2014),
arrivano a teorizzare che gli algoritmi che governano i flussi dei dati
in Rete non sono “del” capitale perché ne incarnano la logica di
razionalizzazione e dominio della produzione sociale, ma solo perché i
rapporti di forza impediscono ai lavoratori della conoscenza di farne
buon uso.
Non lo capisce Vecchi, il quale partendo dal presupposto neoschumpeteriano che
l’innovazione – nella misura in cui è oggi frutto di un processo
collettivo e sociale – sia di per sé positiva, denuncia il tentativo di
stati e imprese di frenarla e dirottarla dagli indirizzi che tenderebbe a
seguire spontaneamente ove “liberata” dalla governance capitalista. Dal
che discende che “la mossa migliore è sempre quella di stare dentro e
contro il regine di accumulazione capitalistico”. Detto altrimenti:
l’ambivalenza dell’attuale modo di produrre genera continuamente le
condizioni del suo superamento. Con buona pace del detto gramsciano che
invita ad associare l’ottimismo della volontà al pessimismo della
ragione.
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