Circa quattro anni fa in un testo comunque simpatico, The Martians Have Landed! A History of Media-Driven Panics and Hoaxes (McFarland, 2011), Robert Bartholomew, un sociologo della medicina, si prese, tutto sommato allegramente, la responsabilità scientifica di definire i lineamenti storiografici di quattro secoli di panico mediale. In un lavoro non profondissimo, ma di respiro storico e ricchissimo di aneddoti, dove – dalle primissime gazzette del’600 fino a youtube – emergevano episodi spontanei o generati, governati o impazziti di panico mediale che risultavano aver effetto sulla popolazione e sulla politica. Come si vede dal testo di Bartholomew, che la veridicità dei media possa esser stata controllata da pochi – come quando le radio locali americane annunciarono che gli Usa erano sotto attacco nucleare nei primi anni ’80 – oppure verificata da molti – come gli eventi dell’uragano Katrina avvenuti in piena epoca digitale – il panico di massa si intreccia naturalmente con i media. Da prima ancora della rivoluzione industriale. Spesso in maniera estremamente pervasiva nel momento in cui episodi, e disastri, realmente drammatici si intrecciano con voci incontrollate o immesse nei circuiti di comunicazione con l’intelligenza, e tramite la logistica, della propaganda.
Se si mettono a confronto le dinamiche di panico generate dalle più recenti ondate di notizie (barconi, Grecia, Isis) con il testo di Bartholomew si vede proprio che è l’intreccio tra fatto reale ed invenzioni vere a creare delle vere e proprie ondate di terrore mai del tutto metabolizzate sui social network o nella microfisica dell’interazione sociale. Guardiamo ai barconi il cui terrore atavico dell’invasione da uno spazio indefinito, il mare, finisce ormai per regolare i ritmi, e i conflitti, della vita politica istituzionale da oltre un ventennio. Eppure se leggiamo statistiche vediamo che la stragrande maggioranza dell’immigrazione residente in Italia non è approdata con i barconi. In 20 anni, e più, di sbarchi di ogni tipo il paese non è stato attraversato poi da nessuna epidemia. Eppure anche recentemente gli autisti dei mezzi pubblici milanesi hanno chiesto pubblicamente la disinfestazione dei pullman prima di mettersi al lavoro. Da grandi consumatori di Facebook, infatti, avevano letto di tutto sulla diffusione istantanea di malattie immaginarie in Italia. I barconi non hanno dato poi occasione di formarsi a nessuna cellula del radicalismo islamico eppure – dal Gia algerino ad Al-Qaeda poi all’Isis – ogni generazione della Jihad è stata vista su quelle barche. Non solo: la produzione di panico sui barconi, intesi come mezzi da sbarco del califfato, non cessa mai. Mescolando notizie del mainstream, notizie di facebook, mondo del vero e mondi di ciò che è ritenuto come verosimile. Il panico si diffonde: sgradito persino allo stesso ceto politico, quando non sa come governarlo, segna però il potere di ogni tipo di media nella costruzione del discorso politico. I media, e ciò che viene chiamata “la politica”, trattano, confliggono, si alleano, si comprano e sciolgono patti continuamente. Quando nel discorso politico domina il panico i fatti sono due: o il media è completamente in mano ai dispositivi della propaganda o, al contrario, le dinamiche di potere mediale, che si accumulano tanto più il panico si diffonde, mettono in difficoltà governance e politica. Invece, e si tratta di qualcosa da non trascurare, panico mediale e finanza seguono un altro genere di rapporto. Il panico favorisce la volatilità degli scambi, e quindi è ottimo per chi sa governare la speculazione a breve. E, come dicono gli osservatori attenti alle dinamiche di scambio di borsa, un evento eclatante genera panico tra gli operatori solo se non è stato scontato da ribassi o prodotti finanziari assicurativi. Se l’aleatorietà delle condizioni meteo ha finito per creare le condizioni per la nascita di prodotti finanziari altamente speculativi, il panico in fondo è solo un terreno per offrire qualcosa di nuovo in questo genere di prodotti. Salvo quando il terreno ti si apre sotto i piedi.
Che dire allora della Grecia? La corsa frenetica a far vedere le file ai bancomat ormai è una sorta di gioco stagionale della rappresentazione, che si svolge tra media europei. Fa tanto panico ottobre 1929. Eppure, per le banche francesi e quelle tedesche, vere testate nucleari del debito, il panico Grecia è stato risolto lungo gli ultimi 5 anni. Scaricando la questione greca sul debito sovrano di una serie di stati, sulla Bce e sul Fmi. L’uso del panico, nei servizi mainstream, suggerisce invece Tsipras come responsabile di quanto sta accadendo. “Tsipras il vigliacco” come tuonano in coro sia le gazzette tedesche che qualche gazzetta italiana che ha il marchio storico del servilismo. Ma l’adrenalina da panico delle file, peraltro ordinate, ai bancomat greci non prelude al botto di fine di mondo, magari con Tsipras responsabile, come invece maliziosamente suggeriscono i media. Piuttosto ad una lenta, altamente complessa sul piano della governance amministrativa e finanziaria, ristrutturazione, se non eutanasia, della zona euro. Peccato però che il vero panico, quello da urlo di Munch, si raggiungerebbe se le dimensioni della bolla finanziaria costruita da Fmi e banche centrali di tutto il mondo fossero chiare sugli schermi delle tv globali. Ma quella non si fa vedere mescolando fatti reali ad episodi che gonfiano il petto dal panico. In Grecia il panico si costruisce giocando su un vecchio terrore del ‘900, quello dell’ottobre ’29, quando quella dimensione è persino artigianale rispetto a quello che sta accadendo. Certamente la Grecia passerà brutti momenti ma il gioco del panico avrà sempre lo scopo di indirizzarla come responsabile di tutto questo.
Per quanto riguarda gli attentati del venerdì di Ramadan, tratta di tre episodi diversi tra loro. Il primo in ordine di tempo, quello francese è legato al quel genere di spontaneismo armato generato nelle banlieue francesi, in questo caso di Lione. Nonostante la bandiera dell’Isis sventolata sul luogo della decapitazione della vittima, la confessione del responsabile, che nega di essere il classico detenuto politico, fa definire come affrettata la scelta di Hollande di lasciare il vertice Ue, e tornare in Francia, “causa terrorismo”. Vicenda drammatica, specie per chi ci lascia la testa, ma è inimmaginabile che episodi del genere minaccino la Francia quanto la guerra lampo dell’estate del ’40. Eppure il flusso di adrenalina del venerdì francese, unito a quello tunisino, ha fatto pensare questo. Con tanto di esperti di terrorismo pronti a spergiurare, in diretta, di essere di fronte ad un attacco globale. Oltretutto non è neanche chiaro se gli attentatori tunisini della spiaggia del resort facciano parte di Ansar-al-Sharia. E oltretutto, nonostante i più recenti avvicinamenti, è ancora da dimostrare che Ansar-al-Sharia sia affiliata oggi ad Isis perlomeno nelle sue maggiori componenti. Non a caso ci sono osservatori sul posto che ritengono che tutto questo stia favorendo non chissà quale mutazione politica ma il cambio di gestione del più importante vettore di riciclaggio della Tunisia: proprio il turismo. Quanto alla vicenda degli scontri tra sciiti e sunniti in Kuwait è talmente legata a fattori locali che pensare di legarla a una vicenda francese non chiara, e ad una tunisina molto opaca, è pura ciarlataneria. Oppure il panico, il terrore che lega tanti fatti tra loro, spiegandoli col linguaggio della paura, è merce pregiata nel mondo mediale, specie quando travolge la stessa politica (con Hollande che quasi urla “non facciamoci prendere dalla paura” dovendo governare le ondate di panico) con i media ancora più protagonisti e intrecciati così nella comunicazione sociale.
Borsa, migranti, Isis. Non importa cosa accade l’importante è inserirlo nel format del panico. Il resto agisce in stato di emergenza, come le ondate di affermazioni sull’inesistenza del “contagio” greco, tentativi di governo del panico da parte delle istituzioni. Se il linguaggio, come cantava Laurie Anderson, è un virus, l’informazione è un’epidemia. Da circoscrivere.
Redazione, 29 giugno 2015
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