Nuova importante vittoria militare per le forze della resistenza curda in Siria che dopo aver conquistato una settimana fa Tal Abyad, strategica città al confine con la Turchia, hanno cacciato ieri i jihadisti dello Stato islamico (Is) da una base militare situata 30 chilometri più a sud, a soli 50 chilometri dalla roccaforte fondamentalista di Raqqa. Le Unità di Protezione del Popolo e le Unità di Protezione delle Donne hanno assunto ieri il pieno controllo della base Liwa (Brigata) 93 "facendo retrocedere le linee di difesa dell'Isis alle porte di Raqqa". La base conquistata è cruciale perché consente di controllare le strade che collegano Raqqa alle altre località in mano ai jihadisti, sia nella provincia di Aleppo a Ovest che in quella di Hasakah a Est. Secondo varie fonti i curdi sarebbero anche entrati nei quartieri periferici della città di Ain Issa, vicino alla base Brigata 93.
La nuova avanzata curda non è affatto piaciuta al regime turco. Ankara ha infatti di nuovo ammonito gli Stati Uniti e l'Occidente in generale sulla necessità di non varcare "linee rosse" alla luce dell'avanzata delle forze curde nel Nord della Siria, ribadendo in sostanza che non ci possono essere revisioni di confini o assetti territoriali che mirino alla creazione di uno Stato curdo autonomo, obiettivo che tra l’altro il movimento di liberazione curdo ha da tempo abbandonato. A riferire il nuovo altolà turco alla tolleranza statunitense nei confronti dell’avanzata curda in Siria è stato il quotidiano Hurriyet, che ha riportato alcuni stralci di un documento che illustra la posizione dell’Akp sulla situazione creata ai suoi confini dalle recenti e continue vittorie militari dei combattenti delle Unità di difesa del popolo (YPG) contro le milizie jihadiste dello Stato islamico. Nel documento – approvato dal presidente Recep Tayyip Erdogan e inoltrato a una serie di cancellerie occidentali, in particolare quella statunitense – Ankara afferma di temere possibili stravolgimenti demografici sul versante siriano del confine. "Nessuno può agire perseguendo i propri specifici interessi solo perché combatte contro lo Stato islamico e la struttura demografica della regione non può venire modificata con un processo presentato come fatto compiuto", afferma il documento.
Nel frattempo la Turchia e Israele provano a riavvicinarsi approfittando di colloqui convocati in segreto a Roma tra il direttore generale del ministero degli Esteri di Tel Aviv, Dore Gold, e il suo omologo turco, Feridun Sinirlioglu, per anni ambasciatore di Ankara in Israele. L'incontro avrebbe avuto luogo ieri, scrivono sia il quotidiano Haaretz che il sito di notizie israeliano Ynetnews: secondo quest'ultimo, Gold, appena nominato, è volato a Roma all'insaputa del consigliere per la sicurezza nazionale Yossi Cohen, responsabile dei colloqui tra Israele e la Turchia. E il nuovo direttore generale, viene precisato, non ha reso nota in anticipo la sua missione neppure a Joseph Ciechanover, il precedente emissario del premier Netanyahu per la Turchia. In base alle indiscrezioni, all'inviato israeliano sarebbe stato chiesto di valutare la possibilità di porre fine alla crisi bilaterale esplosa alcuni anni fa quando Ankara iniziò a sostenere Hamas e poi le forze militari israeliane assaltarono il convoglio marittimo di solidarietà con i palestinesi partito dalla Turchia. Nell’assalto alla Mavi Marmara, una delle imbarcazioni della Freedom Flotilla che tentava di portare aiuti umanitari a Gaza violando il blocco, le teste di cuoio di Tel Aviv uccisero 10 cittadini turchi e ne ferirono altri 50.
A spingere per un riavvicinamento formale tra Tel Aviv e Ankara – che comunque in tutti gli ultimi anni non hanno mai realmente sospeso i rapporti economici e militari – sarebbe stata la Casa Bianca, che però dovrebbe preoccuparsi dalla eventuale saldatura degli interessi israeliani e turchi nella regione. Non è un segreto che se da una parte il regime islamista turco sostiene lo Stato Islamico e altre realtà jihadiste contro il governo Assad e i curdi ed ha rifiutato di collaborare con Washington e la coalizione militare che combatte – seppur senza grande impegno – i fondamentalisti in Iraq e Siria, anche Israele non ha mai alzato un dito contro Al Nusra e lo stesso Is che pure occupano ampi territori ai suoi confini. Negli ultimi anni sia Ankara che Tel Aviv hanno allentato i rapporti con Washington in nome di una loro strategia regionale che non sempre coincide – ed anzi spesso collide – con gli interessi statunitensi in Medio Oriente.
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