L’imporsi della Cassa depositi e Prestiti (Cdp) negli scenari economici e finanziari del paese ha destato un’attenzione mediatica nei suoi confronti ormai sistematica. Sembra, infatti, impossibile ogni operazione di politica economica che in vario modo non si relazioni con qualcuna delle articolazioni interne alla Cdp, il cui raggio d’azione investe molteplici interessi spaziando dalle infrastrutture alla sicurezza, dal finanziario all’innovazione tecnologica, dall’agroalimentare al turismo, e oltre ancora. Una gamma vastissima di settori che la pone come l’istituto di riferimento della finanza pubblica nei confronti dei soggetti finanziari e/o industriali privati nazionali e internazionali oppure fondi sovrani interessati al business nei settori strategici del paese. Infatti non appare concepibile ad esempio, per restare all’attualità, un piano d'intervento privatistico o infrastrutturale che non ponga la Cdp come referente obbligato.
La distanza dalla funzione originaria della Cdp, istituto addirittura pre risorgimentale, quale strumento di raccolta del risparmio attraverso la rete degli sportelli postali per il finanziamento degli enti territoriali è ormai siderale. Anzi, la stessa storia della Cdp potrebbe tranquillamente proporsi come espressione delle trasformazioni economiche e sociali del nostro paese, analizzate attraverso il ruolo e le funzioni della finanza pubblica. Procedere lungo questa strada potrebbe certamente risultare illuminante per comprendere le ragioni della “ribalta” economico e finanziaria assunta dalla Cdp, e l’approdo finale ci condurrebbe inevitabilmente nei reticoli degli incroci finanziari, spesso di difficile interpretazione, che rappresentano il carattere proprio dei sistemi finanziari negli scenari della competizione globale.
Allora, per cercare di cogliere l’essenza dell’attuale strategicità della Cdp, partiamo dalla data della sua privatizzazione il 2003 realizzata dal ministro dell’economia Tremonti che nel pieno della sua stagione di finanza creativa, trasforma la Cdp in SpA conferendone il 30% delle azioni nelle mani di 65 fondazioni bancarie. Ciò modifica strutturalmente la natura dell’Istituto di via Goito, in primo luogo perché privatizza il sistema di finanza pubblica elevando il mercato e la redditività d’impresa a guida della sua funzione, anche per la necessità di remunerare l’azionista bancario che si cela sotto le spoglie delle fondazioni, a cui nel corso degli anni, a dispetto di crisi e stagnazioni, sono stati riconosciuti dividendi spesso a due cifre per importi pari a centinaia di milioni; in secondo luogo, il patrimonio della Cdp che nel frattempo si è arricchito di parte rilevanti del sistema infrastrutturale a rete, non solo Poste ma Eni, Terna, Snam ecc, è anch’esso a fortiori sottoposto alla stessa logica di gestione, in sostanza ciò che residua dal forsennato piano di privatizzazione degli anni ’90 è comunque interno alle dinamiche di mercato e investito dai processi di finanziarizzazione dell’economia; in terzo luogo, la longa manus delle banche per tramite delle fondazione entra con un ruolo strategico nello statuto imponendosi di fatto come soggetto decisionale degli assetti di potere interni e delle scelte gestionali.
E questi aspetti, pur rilevanti, sarebbero ancora insufficienti a spiegare l’importanza del ruolo assunto della Cdp che deriva dalle caratteristiche del suo patrimonio, in origine pubblico ma gestito con criteri privatistici, che afferisce a valore reale, circa 18 miliardi ad attivi di 300 e liquidità fresca drenata dagli sportelli postali di oltre 200, e non a processi di ingegneria finanziaria. L’articolazione interna della Cdp svela il ventaglio impressionante di rami d’attività, oltre alle menzionate reti energetiche, l’immobiliare, gestione e partecipazione a processi di privatizzazione Fintecna, assicurazioni con Sace, F2i società gestione risparmio, fondo strategico Italia per l’internazionalizzazione, ecc , a loro volta titolari di pacchetti azionari distribuiti, è il caso di dirlo, in ogni dove dai ponteggi Dalmine a porti ed aeroporti alle relazioni con i fondi sovrani del Kuwait e del Qatar.
La dimensione della Cdp sembra quindi essere prossima alla banca d’affari, con un portafoglio di beni nazionali consistente, posto al crocevia dei flussi di investimento degli investitori istituzionali, strumento di attrazione del capitale finanziario in cerca di valorizzazione.
La gestione e la crescita del patrimonio della Cdp non è tuttavia l’orizzonte strategico deciso dall’esecutivo Renzi, come avvenuto con la trasformazione in Spa, l’istituto di via Goito si appresta ad un nuovo cruciale passaggio, in nome delle riforme strutturali.
Gli impegni assunti dal governo in sede UE sul piano di contenimento del debito pubblico prevedono piani di dismissioni del patrimonio pubblico per complessivi 18 miliardi da conseguirsi entro il 2015. La road map delle cessioni intacca in modo rilevante proprio il patrimonio della Cdp nelle componenti di maggior pregio: oltre alla vendita già avvenuta ai colossi cinesi di State Grid Corporation del 35% del Cdp Reti, si delineano le cessioni di quote di Sace, Eni, Enav e Poste. Il patrimonio e la redditività della Cdp sono messe pesantemente in discussione e il cambio dei vertici della Cdp SpA con l’avvento dell’uomo di Salini-Impregilo Claudio Costamagna già rappresentante per l’Italia della banca d’affari Goldman Sachs, indicano chiaramente l’accelerazione dei progetti di dismissioni chiesti dalla troika.
La scelta effettuata chiarisce gli orizzonti internazionali del processo di dismissione del patrimonio della Cdp e la necessità di trovare acquirenti oltre l’asfittico mercato dei capitali nostrano. Lo shopping del patrimonio industriale italiano effettuato a mani basse dai paesi dominanti dell’Unione si arricchisce della possibilità di acquisire parti rilevanti del patrimonio infrastrutturale nazionale, indubbiamente una ghiotta opportunità di investimento e valorizzazione dei loro surplus di bilancio.
Le fondazioni bancarie, pur riconvertendo le loro azioni da privilegiate ad ordinarie e portando la loro quota al 20% circa, sono comunque statutariamente decisive per le designazioni ai vertici e hanno contrattato il loro assenso chiedendo garanzie sugli utili dei prossimi due anni, chiarendo che per il 2015 non dovranno essere inferiori ai 159 milioni ricevuti nel 2014 e 2013.
L’atteggiamento di basso profilo delle Fondazioni, leggasi banche, che si sono “limitate” alla richiesta di un prolungamento biennale della loro “mano morta” come ristoro per la perdita dell’investimento, senza animare alcuna polemica sulla dismissione di componenti strategiche del patrimonio nazionale, fornisce la misura della sussunzione delle componenti dominanti della nostra borghesia nelle tecnostrutture sovranazionali e chiarisce ulteriormente l’inconsistenza delle ipotesi sovraniste nelle politiche nazionali in ambito UE.
Intanto un tassello fondamentale della struttura della Cdp, Poste Italiane, per mezzo del suo ad Francesco Caio, ha presentato nella City a fondi sovrani, fondi pensione e fondi di investimento anglosassoni il piano di privatizzazione. Per attuare il piano di ristrutturazione interna, Poste Italiane ha dovuto attendere il disco verde dell’Authority delle comunicazioni alla consegna della posta a giorni alterni sul 25% del territorio nazionale, alla reintroduzione della posta ordinaria con tariffa a partire da 0,95, mentre per la prioritaria la tariffa iniziale sarà presumibilmente di 3 euro, mentre si è già provveduto alla chiusura di numerosi uffici collocati in piccoli centri e ritenuti poco redditizi.
Come evidente la privatizzazione non si coniuga più neanche propagandisticamente con efficienza ed economicità, al contrario il taglio dei servizi e l’aumento dei costi sono organici alla privatizzazione. Allora un buon numero di esuberi e il ridimensionamento delle modalità di accesso ai servizi universali possono rappresentare il miglior viatico possibile per l’ingresso sul mercato di Poste Italiane.
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