La crisi ha avuto il merito di chiarire che lo sviluppo economico non è un problema di ingegneria finanziaria. Soddisfare le esigenze sociali non può essere il risultato di qualche funambolismo finanziario, ma del buon funzionamento dell’economia reale, rispetto alla quale la finanza deve tornare in posizione servente.
Il ruolo sociale della finanza è quello di fornire i mezzi per avviare e sostenere un progetto imprenditoriale, incassare il dovuto compenso per il servizio al credito e basta. Tutto il resto è semplicemente usura.
Ma ripristinare la centralità dell’economia reale è possibile solo emancipando le imprese dalla finanza. A partire dagli anni settanta, le grandi imprese da conglomerati industriali sono diventate grandi holding finanziarie con delle appendici industriali: il profitto è venuto sempre di più dai giochi finanziari e sempre meno dalle attività industriali, c’è stato un sostanziale divorzio fra impresa ed azionisti, i manager si sono orientati sempre di più sull’investimento finanziario ecc.
Una vicenda esemplare in questo senso è quella della Fiat: nei primi anni ottanta, il settore auto era guidato da Vittorio Ghidella, un ingegnere di temperamento autoritario (regista, ricordiamolo, della storica sconfitta del sindacato nel 1980), ma vero manager industriale che aveva risollevato in pochi anni l’azienda dallo stato di crisi in cui l’aveva trovata. Nel 1985 Ghidella propose un accordo con la Ford, finalizzato anche ad un radicale rinnovo tecnologico, ma questo avrebbe comportato dividendi ben più magri, per diversi anni, quel che gli azionisti (in gran parte puri rentier) videro con orrore.
Ghidella venne sconfitto da Cesare Romiti, presidente della Fiat (sostenuto dall’avvocato Agnelli) che teorizzò che per la Fiat “non esiste solo il settore auto”, spalancando la strada alla prevalenza degli impieghi finanziari su quelli industriali.
Ghidella venne sostanzialmente licenziato, ma quella di Romiti non fu una grande idea: in meno di 6-7 anni la quota della Fiat sul mercato auto crollò e l’azienda tornò in crisi. A fine anni novanta, la Fiat attraversò la crisi più grave della sua storia e fu sul punto di essere ceduta dalla famiglia Agnelli; poi ebbe una ripresa con l’arrivo di Sergio Marchionne, che, pur non alieno dalla dimensione finanziaria, tuttavia ridette all’azienda una strategia industriale capace di recuperare consistenti quote di mercato.
La trasformazione definitiva del capitale industriale in capitale finanziario significa la produzione di Denaro a mezzo Denaro, saltando la fase della Merce. Quel che, sul lungo periodo, può dare risultati molto spiacevoli anche sul piano finanziario.
Dunque, la ripresa della manifattura in Occidente passa per la sua sottrazione al potere finanziario, con una netta separazione fra industria e finanza, che deve restare esterna alla proprietà. Questo non significa che l’impresa industriale non possa avere impieghi finanziari: è del tutto accettabile che una parte degli avanzi di bilancio siano capitalizzati in questo modo, anche per ridurre il ricorso a prestiti esterni in momenti in cui occorra rinnovare gli impianti o far fronte ad una contrazione di mercato. Ma il problema è di proporzioni: il capitale di una impresa manifatturiera deve essere impiegato nel suo settore produttivo, l’impiego finanziario può essere accettabile se resta una quota minoritaria e produce una parte minoritaria dei profitti. Quando la rendita finanziaria di una impresa eccede certi limiti, deve essere reinvestita in attività economiche reali.
Neppure è da escludere una partecipazione finanziaria all’azionariato di impresa, anzi questo può essere auspicabile al fine di ridurre il ricorso a prestiti bancari, ma questo è accettabile se si parla di azioni di risparmio senza diritto di voto. L’impresa industriale o di servizi deve restare nelle mani di imprenditori del settore, che pensano in termini di impresa industriale o di servizi, non in termini finanziari.
Certamente, non si tratta di una trasformazione di poco conto ed è ragionevole attendersi che, se questa prospettiva dovesse prender corpo, intorno ad essa si svolgerebbe un conflitto feroce. Ma per riportare il tema dello sviluppo reale al centro del dibattito politico questo è un passaggio qualificante di ogni progetto che vada in questo senso.
Peraltro, se il problema è quello di riportare la manifattura in Occidente, occorre comprendere che sulle multinazionali c’è da fare scarsissimo affidamento: per loro natura esse non si radicano in nessun posto e sono pronte a migrare da un continente all’altro se ritengono più conveniente farlo (che poi i loro calcoli siano sempre indovinati, anche nel lungo periodo, questo è altro affare), Se vogliamo radicare saldamente un nuovo sistema industriale, quantomeno in Europa, occorre puntare su altro.
Non è possibile pensare che la rinascita di un sistema manifatturiero in Occidente possa essere la pura e semplice riproposizione di quel che c’era prima della globalizzazione, quasi spostando le lancette dell’orologio indietro di 30 anni: non è detto che la Storia abbia una direzione di marcia precisa (come pensano gli storicisti) ma sicuramente non torna mai indietro ed anche quando si verificano processi involutivi, nulla torna mai come prima.
Dunque, occorre pensare ad altro, guardando al di là della globalizzazione neo liberista, e non indietro in nome di nostalgie irrealizzabili. La risposta “in avanti” noi crediamo possa essere l’economia sociale di cui ormai si parla in varie forme e modi.
Anche in Italia, si torna, dopo decenni, a parlare di azionariato dei dipendenti, anche se in un quadro sostanzialmente conforme all’ordinamento esistente.
Ma forse occorre avere il coraggio di “andare oltre”. L’infelice frase di Mario Monti sulla “monotonia del posto fisso” ha avuto, però, il merito di essere involontariamente rivelatrice: significa che il grande capitale – di cui Monti è espressione coerente e dichiarata – non è disposto ad offrire altro ai giovani europei che un “monotono precariato”. D’altro canto, anche lo Stato può offrire poche prospettive. Per sottrarsi ad un destino di stabile precarietà i giovani non hanno che una strada: quella dell’autoimprenditorialità. Occorre pensare ad una robusta rete di imprese di produzione e di servizio autogestite dai rispettivi lavoratori, che facciano leva sullo scambio in compensazione e su un forte spirito di innovazione di prodotto. Questo significa garantire credito agevolato, esenzioni fiscali per i primi 7 anni e sgravi successivi. Imprese basate sull’autogestione, nelle quali tutti i dipendenti siano azionisti, come base di quella nuova cultura del lavoro di cui si avverte urgente bisogno. Eventualmente lo Stato potrebbe diventare “socio” (attraverso una sua agenzia) acquistando la metà delle azioni – anche allo scopo di esercitare un opportuno controllo sulla correttezza della gestione e dell’uso del credito concesso – che poi sarebbero riacquistate gradualmente dalla società, man mano che i profitti lo consentano.
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