di Michele Paris
Il
raggiungimento di un accordo definitivo sul nucleare iraniano sembra
dovere slittare almeno di qualche giorno rispetto alla scadenza
originariamente fissata per la mezzanotte di martedì 30 giugno. Il
prolungamento delle discussioni in corso a Vienna è dovuto alle
difficoltà nell’arrivare a un’intesa su una manciata di questioni
ritenute cruciali dai governi occidentali che fanno parte del gruppo dei
P5+1 (USA, Cina, Russia, Francia, Gran Bretagna e Germania), anche se
la laboriosità delle trattative indica soprattutto l’assenza della
volontà politica da parte americana di riconoscere la piena legittimità
delle aspirazioni di Teheran, non solo nell’ambito del nucleare.
Il
fine settimana appena concluso ha fatto registrare fitti incontri tra
il capo della delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Mohammad
Javad Zarif, con i rappresentanti di USA, Francia, Gran Bretagna,
Germania e Unione Europea. Lo stesso diplomatico iraniano è poi tornato a
Teheran nella giornata di domenica per consultazioni con il governo e
l’entourage della guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ma sarà di
ritorno a Vienna già martedì.
Il segretario di Stato USA, John
Kerry, è rimasto invece nella capitale austriaca, mentre i suoi omologhi
Laurent Fabius (Francia), Philip Hammond (GB) e Frank-Walter Steinmeier
(Germania) torneranno nelle ore immediatamente precedenti la scadenza,
assieme ai ministri degli Esteri di Russia e Cina.
Domenica, la
responsabile della politica estera UE, Federica Mogherini, aveva
affermato che vi erano speranze sul rispetto del termine del 30 giugno,
anche se molti giornali hanno riportato i preparativi delle varie parti
per prorogare le trattative e delineare un accordo nei giorni
successivi.
I punti sui quali sono arenati i negoziati riguardano
in particolare le modalità e i tempi con cui dovrebbero essere
cancellate o sospese le sanzioni che gravano sulla Repubblica Islamica e
la natura delle ispezioni internazionali nei siti nucleare iraniani.
Particolarmente controverse sono poi le ispezioni presso le
installazioni militari, teoricamente utili per verificare ipotetici
programmi condotti dall’Iran in passato per giungere alla costruzione di
armi nucleari.
Il governo francese si è fatto carico nei giorni
scorsi di “proporre” condizioni più stringenti in questi due ambiti,
nonché di imporre limiti alle attività iraniane di ricerca e sviluppo
sul nucleare. Come hanno spiegato molti analisti, l’iniziativa di Parigi
è stata chiaramente coordinata con gli Stati Uniti e Israele.
Singolarmente,
tutte queste condizioni erano state respinte da Khamenei nel corso di
un discorso pubblico tenuto la scorsa settimana e destinato in larga
misura a placare i timori degli oppositori dell’accordo sul fronte
domestico.
L’ayatollah, il quale ha dato tempo fa la propria
approvazione ai negoziati, era ricorso a una retorica combattiva,
criticando gli Stati Uniti - sostanzialmente in maniera corretta - per
volere la “resa” dell’Iran, escludendo tra, l’altro, l’accettazione di
restrizioni alla propria attività nucleare per un periodo di “10 o 12
anni”.
Khamenei,
inoltre, ha invocato la fine di tutte le sanzioni economiche, sia
quelle imposte dal Consiglio di Sicurezza ONU sia quelle del Congresso
USA o della Casa Bianca, immediatamente dopo la firma dell’accordo,
mentre le altre - cioè in ambito energetico o militare - potrebbero
essere smantellate in un periodo di tempo ragionevole. Washington, al
contrario, intende imbrigliare l’Iran in un lungo processo di graduale
allentamento delle sanzioni, le quali potrebbero in ogni caso essere
riapplicate automaticamente in caso di mancato rispetto dell’accordo.
Qualsiasi
ispezione dei siti militari, infine, è stata esclusa da Khamenei, vista
anche la risaputa fragilità delle presunte prove presentate in passato
all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) circa gli
esperimenti iraniani sul nucleare in questo settore.
L’insistenza
degli Stati Uniti e dei loro alleati su condizioni che difficilmente
possono essere accettate dal governo di Teheran senza capitolare e
subire pericolosi contraccolpi interni riflette in parte le pressioni
esercitate da più parti sull’amministrazione Obama per fare marcia
indietro sull’accordo o, quanto meno, per costringere l’Iran a fare
concessioni ancora maggiori.
Alle manovre del Congresso di
Washington e all’isteria di Israele continuano ad aggiungersi voci
esterne, come quelle di cinque ex consiglieri del presidente americano, i
quali hanno messo in guardia dal firmare un accordo che non conterrebbe
nemmeno gli standard minimi fissati dal governo USA per sventare la
minaccia nucleare iraniana.
Da parte sua, Obama intende
finalizzare un accordo nel più breve tempo possibile, sia pure cercando
di ottene il massimo da Teheran. Un eventuale sforamento della scadenza
prevista dall’intesa preliminare raggiunta il 2 aprile scorso a Losanna
dovrebbe essere al massimo di pochi giorni, anche perché se la Casa
Bianca non presenterà un accordo al Congresso per ottenerne
l’approvazione entro il 9 luglio, il periodo di tempo a disposizione di
quest’ultimo per analizzarlo passerà da 30 a 60 giorni.
Ciò è
quanto previsto da una legge recentemente approvata dal Congresso stesso
e firmata da Obama come compromesso per superare le resistenze di
deputati e senatori di entrambi i partiti ai negoziati con la Repubblica
Islamica.
Il calcolo di Obama appare dunque parzialmente
differente da quello dei “falchi” di Washington, interessati in maniera
pura e semplice al cambio di regime a Teheran. La Casa Bianca, puntando
sulla disponibilità della leadership “moderata” in Iran e sul desiderio
di veder cessare le sanzioni economiche punitive, auspica un accordo che
preservi un meccanismo volto a fare pressioni sul regime anche nei
prossimi anni, sia attraverso la minaccia della reimposizione delle
stesse sanzioni o la richiesta dell’apertura dei siti militari alle
ispezioni internazionali.
In
questo modo, gli Stati Uniti contano di ottenere concessioni utili ai
propri interessi strategici in Medio Oriente o di limitare
l’integrazione economico-politico-militare dell’Iran con la Russia e la
Cina, veri obiettivi di Washington nella guerra per l’egemonia
planetaria. Parallelamente, sulla politica iraniana di Obama agiscono
anche gli interessi economici del business americano, stimolato, come i
propri rivali europei, a tornare su un mercato enorme e in un paese con
ingenti risorse energetiche.
La disposizione all’accordo
dell’amministrazione Obama per risolvere una crisi fabbricata e dai
contenuti quasi esclusivamente politici non ha perciò nulla a che vedere
con il rispetto dei diritti dell’Iran a sviluppare un programma
nucleare pacifico e a giocare un ruolo di spicco su scala regionale.
Infatti,
anche durante le trattative dei mesi scorsi non sono mai mancate le
minacce militari da parte americana nei confronti della Repubblica
Islamica e, nel caso un accordo definitivo dovesse uscire dall’ultimo
round di negoziati a Vienna, c’è da scommettere che non mancheranno
nemmeno in futuro.
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