A sentir parlare di debito pubblico, il lettore medio cattolico si fa la croce pensando al terrore che gli ispirano i Cottarelli e i Draghi di turno.
Quelli che si sentono “di sinistra” ma non fanno lo sforzo di concepire la società e le classi come un insieme organico, percorso da una feroce lotta di classe, si limitano a far spallucce considerandolo un falso problema oppure una “scusa” con cui i governanti di turno fottono i cittadini, i lavoratori, ecc.
Il che ha un suo fondo di verità, ma solo se si guarda alla superficie del problema.
Sentir parlare di moneta, di tassi di interesse, per di più in relazione al debito pubblico, provoca reazioni di fuga ancora più rapide. Eppure tutta la gestione politica dell’economia – nazionale o continentale che sia, visto che l’Unione Europea scrive ormai la parte essenziale della legislazione macroeconomica e fiscale dei singoli paesi – passa inevitabilmente per il debito pubblico e la moneta.
Il solo fatto di non averne più una propria, e condividere invece quella “comunitaria” (che è ben diverso da “comune”), ha prodotto una lunga seria di problemi che hanno un riflesso immediato sulla vita quotidiana di tutti noi. Soprattutto per quelli che di moneta in tasca ne hanno poca.
Su questi punti la destra italica, espressione fondamentalmente di una borghesia piccola e media – con scarsa o nulla proiezione internazionale e persino nazionale (a carattere locale, insomma) – ha battuto per anni. Facendo infine identificare la critica dell’euro come “causa” dei molti peggioramenti avvenuti nella condizione di quella classe smandrappata.
Ma pur non essendo affatto la “causa” del declino del paese e della ricchezza dei suoi abitanti – o per lo meno non l’unica – certamente l’adozione dell’euro ha avuto parecchi effetti distorsivi. E non solo per il nostro paese ed i nostri lavoratori; non solo per le nostre pensioni, scuole, sanità, ecc, ma per quelle di tutta Europa.
Il nodo è appunto l’intreccio tra moneta e debito pubblico. Che è complesso e complicato, ma non un mistero. Né un fatto che non riguardi i salariati o pensionati, gli studenti o i disoccupati.
Già il maestro di tutti noi scriveva infatti: “Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico.
Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.”
Va da sé che se “l’unica proprietà collettiva” è un debito da ripagare, la questione è di nostro diretto interesse. È insomma una questione di classe. Perché parte della ricchezza prodotta, per questa via, prende altre strade, verso altre tasche, e svuota di molto il significato (quantitativo) di ogni giusta richiesta di redistribuzione meno diseguale.
In questi giorni, sapete già, viene “celebrato” il ventesimo anniversario dell’adozione dell’euro. E una dettagliata analisi delle conseguenze – fatta su Milano Finanza da Guido Salerno Aletta – mostra che in quella scelta ci sono stati paesi (e capitali) che ci hanno guadagnato moltissimo – uno solo, com’era anche preventivabile che fosse – e parecchi perdenti. Tutti gli altri.
L’impalpabile ma ferreo potere del denaro che si presenta come debito non ha certo impedito che si producesse una crisi lunghissima di cui non si vede fine (anche prima della pandemia), ma ha sicuramente permesso di riscrivere le filiere produttive e le catene del valore a livello continentale.
Paesi come l’Italia, è il caso di sottolineare, sono rimasti impiccati a regole che non funzionano – se l’intento fosse stato davvero quello di “arricchire tutti”, come prometteva quell’imbonitore di Romano “Mortadella” Prodi – oppure funzionano benissimo (nell’indirizzare i flussi di ricchezza che vengono sacrificati per ripagare il debito pubblico).
I lavoratori dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro, perché il “recupero strutturale dei conti con l’estero”, sotto la spinta congiunta del debito pubblico e del nuovo “metro di misura della ricchezza”, è stato “alimentato dalla svalutazione salariale”.
Quindi la moneta è “affar nostro”, perché anche attraverso quella ci viene saldata intorno la gabbia dello sfruttamento e della povertà.
Buona lettura.
Quelli che si sentono “di sinistra” ma non fanno lo sforzo di concepire la società e le classi come un insieme organico, percorso da una feroce lotta di classe, si limitano a far spallucce considerandolo un falso problema oppure una “scusa” con cui i governanti di turno fottono i cittadini, i lavoratori, ecc.
Il che ha un suo fondo di verità, ma solo se si guarda alla superficie del problema.
Sentir parlare di moneta, di tassi di interesse, per di più in relazione al debito pubblico, provoca reazioni di fuga ancora più rapide. Eppure tutta la gestione politica dell’economia – nazionale o continentale che sia, visto che l’Unione Europea scrive ormai la parte essenziale della legislazione macroeconomica e fiscale dei singoli paesi – passa inevitabilmente per il debito pubblico e la moneta.
Il solo fatto di non averne più una propria, e condividere invece quella “comunitaria” (che è ben diverso da “comune”), ha prodotto una lunga seria di problemi che hanno un riflesso immediato sulla vita quotidiana di tutti noi. Soprattutto per quelli che di moneta in tasca ne hanno poca.
Su questi punti la destra italica, espressione fondamentalmente di una borghesia piccola e media – con scarsa o nulla proiezione internazionale e persino nazionale (a carattere locale, insomma) – ha battuto per anni. Facendo infine identificare la critica dell’euro come “causa” dei molti peggioramenti avvenuti nella condizione di quella classe smandrappata.
Ma pur non essendo affatto la “causa” del declino del paese e della ricchezza dei suoi abitanti – o per lo meno non l’unica – certamente l’adozione dell’euro ha avuto parecchi effetti distorsivi. E non solo per il nostro paese ed i nostri lavoratori; non solo per le nostre pensioni, scuole, sanità, ecc, ma per quelle di tutta Europa.
Il nodo è appunto l’intreccio tra moneta e debito pubblico. Che è complesso e complicato, ma non un mistero. Né un fatto che non riguardi i salariati o pensionati, gli studenti o i disoccupati.
Già il maestro di tutti noi scriveva infatti: “Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato — dispotico, costituzionale o repubblicano che sia — imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è il loro debito pubblico.
Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che un popolo diventa tanto più ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.”
Va da sé che se “l’unica proprietà collettiva” è un debito da ripagare, la questione è di nostro diretto interesse. È insomma una questione di classe. Perché parte della ricchezza prodotta, per questa via, prende altre strade, verso altre tasche, e svuota di molto il significato (quantitativo) di ogni giusta richiesta di redistribuzione meno diseguale.
In questi giorni, sapete già, viene “celebrato” il ventesimo anniversario dell’adozione dell’euro. E una dettagliata analisi delle conseguenze – fatta su Milano Finanza da Guido Salerno Aletta – mostra che in quella scelta ci sono stati paesi (e capitali) che ci hanno guadagnato moltissimo – uno solo, com’era anche preventivabile che fosse – e parecchi perdenti. Tutti gli altri.
L’impalpabile ma ferreo potere del denaro che si presenta come debito non ha certo impedito che si producesse una crisi lunghissima di cui non si vede fine (anche prima della pandemia), ma ha sicuramente permesso di riscrivere le filiere produttive e le catene del valore a livello continentale.
Paesi come l’Italia, è il caso di sottolineare, sono rimasti impiccati a regole che non funzionano – se l’intento fosse stato davvero quello di “arricchire tutti”, come prometteva quell’imbonitore di Romano “Mortadella” Prodi – oppure funzionano benissimo (nell’indirizzare i flussi di ricchezza che vengono sacrificati per ripagare il debito pubblico).
I lavoratori dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro, perché il “recupero strutturale dei conti con l’estero”, sotto la spinta congiunta del debito pubblico e del nuovo “metro di misura della ricchezza”, è stato “alimentato dalla svalutazione salariale”.
Quindi la moneta è “affar nostro”, perché anche attraverso quella ci viene saldata intorno la gabbia dello sfruttamento e della povertà.
Buona lettura.
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L’eredità del Marco
L’eredità del Marco
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
Lasciamo parlare i numeri a vent’anni dalla entrata in circolazione dell’euro, ed ormai a trenta dall’approvazione del Trattato di Maastricht che ha dato vita all’Unione, per la stabilità delle finanze pubbliche e nelle relazioni finanziarie internazionali emerge un quadro che si è andato progressivamente ed irrimediabilmente squilibrando.
Mentre la sola Germania ha tratto un enorme profitto dall’introduzione della moneta unica, evitando gli aggiustamenti valutari ricorrenti che ne evitavano il progressivo accreditamento ed il saccheggio dei mercati altrui, il sistema di regole che ha cercato di presidiare ulteriormente le finanze pubbliche con il Fiscal Compact, e le successive azioni calmieratrici dell’onere dei debiti che sono state assunte ripetutamente dalla Bce, si sono dimostrati del tutto insufficienti.
L'adozione dell’euro ha avuto un effetto negativo sui rapporti economici e finanziari internazionali, che fino al 2002 vedevano un sostanziale equilibrio nei conti con l’estero di Francia, Italia e Spagna: il venir meno dei saldi valutari ha nascosto dinamiche che sono ancora oggi dirompenti. Nel periodo 1992-2001, la bilancia dei pagamenti correnti della Germania era stata sempre negativa, per una percentuale annua oscillante attorno al 1% del pil.
Con l’euro, dal 2002 in avanti, questo segno è virato in positivo, con andamenti crescenti fino a raggiungere lo stratosferico +8,6° nel 2014, con una media annua di oltre il +6% nell’intero ventennio. Neppure la Cina lo ha fatto così a lungo, avendo progressivamente riassorbito il surplus per evitare una eccessiva dipendenza dalla domanda estera.
La posizione finanziaria internazionale netta (IIP) della Germania, che era in attivo per appena 142 miliardi di euro alla fine del 2001, e con punte annuali precedentemente negative derivanti dal debito estero contratto per finanziare la Riunificazione, alla fine del secondo trimestre del 2021 è arrivata alla astronomica cifra di 2.110 miliardi, un valore pari al 61% del Pil.
Il debito pubblico della Germania che nel 1982 era pari al 41,4% del Pil, nel 2002 era già salito al 59,9%: a Berlino, i vincoli di Maastricht non avevano fatto alcuna presa.
Dopo il picco dell’81,2% nel 2012, a causa dei massicci interventi pubblici a favore del sistema bancario rimasto impelagato negli investimenti non solo americani, questa percentuale era scesa al 59% nel 2019 alla vigilia della crisi sanitaria.
Merito anche dei tassi negativi sul debito pubblico tedesco derivanti dal Qe della Bce: la spesa per interessi è crollata di due terzi, dai 63,5 miliardi di euro pagati nel 2012 (2,3% del Pil) ai 20,9 miliardi del 2020 (0,6% del Pil), davvero una inezia. Nel 2021, il rapporto debito/Pil della Germania è risalito al 72,5%; tra una crisi e l’altra in trent’anni è aumentato dunque di 31,1 punto percentuali.
Nel silenzio generale, la Francia ha avuto la sorte peggiore: non avendo svalutato nel 1992, per essere stata protetta dalla Bundesbank mentre la lira italiana e la sterlina venivano strapazzate dalla tempesta speculativa, ha visto peggiorare la bilancia dei pagamenti correnti, già costantemente negativa a partire dal 2007.
L’IIP, da un attivo netto di 75,5 miliardi di euro nel primo trimestre del 2002, è precipitata a –842,7 miliardi di euro nel secondo semestre del 2021. Questo passivo, che peggiora di continuo, ormai supera il 30% del pil.
Anche sul debito pubblico il baratro si è dimostrato senza fine: se nel 1992, con i 40,2% del pil era appena inferiore a quello della Germania, ancora nel 2002 lo appaiava con il 60,2%, per un decennio le regole di Maastricht non avevano funzionato. Da allora questo rapporto è peggiorato senza freni, arrivando al 115,5% nel 2021: dal 1992 la Francia ha dunque accumulato 75,6 punti percentuali di maggior debito rispetto ai 31 della Germania.
La progressiva divaricazione tra le posizioni fiscali e finanziarie di Francia e Germania non potrebbe essere più pericolosa per la stabilità dell’intera Unione.
Le vicende dell’Italia sono state notoriamente assai travagliate: sul versante della bilancia dei conti correnti, avendo beneficiato della svalutazione della lira, recuperò subito rispetto al -2,6% del 1991: l’avanzo eccezionale del 2,9% nel 1996 fu raggiunto anche grazie al nuovo scivolamento della lira rispetto al marco, passata dal cambio medio di 1.000 lire nel biennio ‘93-‘94 al picco di 1.245 lire raggiunto a metà di aprile nel 1995.
Il ritorno al governo del centrosinistra ricondusse il cambio a 990 lire per 1 marco, livello che si consolidò nel 2001 con la adozione della moneta unica.
Da quella data in avanti, il saldo della bilancia dei pagamenti correnti dell’Italia è stato sempre negativo e tale rimase fino al 2012 quando la stretta fiscale adottata dal governo Monti ridusse drasticamente la domanda interna e le importazioni.
A partire da allora c’è stato un recupero strutturale dei conti con l’estero, alimentato dalla svalutazione salariale. L’IIP, che aveva toccato il picco negativo di 405 miliardi di euro alla fine del 2014, è arrivata a +69 miliardi nel secondo trimestre dello scorso anno, con un cammino diametralmente opposto a quello compiuto dalla Francia.
Sul versante del debito pubblico, il rapporto sul Pil che era già del 112,5% nel 1992, si portò al 130,3% nel 1994: una percentuale quasi tripla rispetto a quella di Francia e Germania. Nel 2002 era scesa al 106.3% registrando così un netto miglioramento rispetto al forte peggioramento di Germania e Francia. Dal minimo del 103,9% nel 2009, alla vigilia della crisi americana, si arrivò al 126,5% nel 2012 e poi al 135,1% nel 2014 per via del nuovo collasso determinato dalla stretta del governo Monti.
La stabilizzazione a questo livello proseguì fino al 2019, per schizzare poi al 154,7% nel 2021 per il crollo del prodotto derivante dalla pandemia ed i sostegni erogati: tra risanamento e crisi, in trent’anni il debito è cresciuta di 42,3 punti. Abbiamo fatto molto meglio della Francia, ma assai peggio della Germania, anche a causa del peso degli interessi: se nel 2012 erano arrivati al 5,2% del pil, nel 2020 pesavano ancora per il 3,5% nonostante gli interventi della Bce.
La vicenda della Spagna è stata la più singolare: il passivo della IIP, che già era di 70,1 miliardi nel 2002, è peggiorato fino agli strabilianti -1.003 miliardi di euro nel terzo trimestre 2009; l’indebitamento bancario sull’estero, finalizzato a investimenti speculativi in campo immobiliare, era stato incessante ed incontrollato.
In troppi ci sguazzavano. De allora, il passivo è riaffiorato di assai poco, arrivando a -909 miliardi di euro nel secondo trimestre 2021 (86% del pil). Il debito pubblico, che era stato pari al 45,4% del pil nel 1992, salì al 51,2% nel 2002: se erano ancora quasi dieci punti inferiore rispetto a Francia e Germania, neppure a Madrid le regole di Maastricht avevano fatto presa. I lavoratori dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro, perché il “recupero strutturale dei conti con l’estero”, sotto la spinta congiunta del debito pubblico e del nuovo “metro di misura della ricchezza”, è stato “ alimentato dalla svalutazione salariale”.
Sulla Grecia c’è ben poco da dire: non c’è un solo anno in cui le statistiche internazionali riportino un attivo della bilancia dei pagamenti correnti. L’IIP è peggiorata sempre: dai 103 miliardi di euro nel 2003 è caduta a -210 miliardi nel 2021, una cifra che supera il 175% del pil ellenico. Il rapporto debito/Pil è passato dall’80,6% del 1992 al 105,8% del 2002, per arrivare al 206,7% nel 2021: una catastrofe ben nota ma non per questo meno terribile.
Le vicende di Portogallo e Irlanda si avvicinano assai a quelle di Grecia e Spagna: anche qui i debito interni e quelli bancari verso l’estero sono andati fuori controllo. Nel 2021, l’IIP di Lisbona è passiva per 207 miliardi di euro (105% del Pil) mentre il rapporto debito/Pil è arrivato al 1308%; a Dublino l’IIP è passiva per 611 miliardi di euro mentre il rapporto debito/Pil è crollato dal 120% nel 2013 al 57% nel 2021, essendo stati accollati al sistema bancario gli oneri del suo salvataggio che era stato effettuato per l’emergenza a spese dei contribuenti.
Numeri aspri, vicende complesse, prospettive incerte: prima di festeggiare gli anniversari, c’è ancora assai da riflettere.
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