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18/10/2011

Non sono d’accordo con chi condanna le violenze.

"E' meglio essere violenti, se c'è violenza nei nostri cuori, che vestire i panni della non violenza per nascondere l'impotenza. C'è speranza perché il violento diventi non-violento. Non c'è speranza per colui che è impotente".
                                          Mahatma Gandhi

Se per trent’anni si è spinta la società dei consumi oltre il limite stesso del denaro, il "conflitto" è il meno che possa accadere. 
Ho letto centiaia di articoli, analisi e opinioni sugli scontri di Roma. In tutti si stigmatizza la violenza senza se e senza ma. Fiumi di parole per criticare chi ha distrutto vetrine e auto, critiche perché “avevano l’iPhone”, perché sono “fuori dalla democrazia” o perché sono dei “poveracci”. Alla fine di questa lava di parole mi resta un solo sentimento: la tristezza. Anni di informazione da stadio hanno trasformato questo mondo in un’arena in cui il migliore è colui sa puntare il dito verso il fango piuttosto che investigarlo. Il migliore è colui che si “eleva” sopra questo “fango” per dirci cosa è giusto e cosa è sbagliato. Il migliore è colui che decide chi può indignarsi e chi no. Il migliore è colui che celebra per giorni la morte di Jobs e poi critica il manifestante sfasciavetrina che compra l’iPhone.
Per trent’anni in Italia abbiamo perorato un’idea di emancipazione sociale non legata alla scolarizzazione – tipica della cultura contadina – ma al possesso di prodotti. Chi si sente indenne da questo pensiero rilegga le prime pagine dei giornali che hanno condotto un’interminabile celebrazione di uno degli uomini più ricchi del mondo, il quale ha costruito la sua fortuna economica sulla decentralizzazione della produzione in Cina e sulla sua enorme capacità comunicativa capace di trasformare il prodotto in culto. Qual è il frutto di questa celebrazione se non l’istigazione all’acquisto? 
Perché siamo così ipocriti da parlare, ancora oggi, di uno spettacolo a Broadway sulla vita di Steve Jobs e poi ci indignamo se un giovane vuole un oggetto Apple? Chi ha deciso dove mettere la soglia di ciò che si può desiderare? Il PD? Sel? L’IDV? Gli intellettuali di questa gauche caviar? Solo gli operai di Termini possono “incazzarsi” o può farlo il ragazzo per il quale l’iPhone è l’unico oggetto di riscatto sociale? 
Ciò che è terribile che da una parte si perora un sistema che pretende la crescita attraverso l’aumento dei consumi – da cui dipende l’aumento della produzione e non viceversa - e dall’altro si stigmatizza chi li acquista se non è conforme al gruppo che può possederlo. Dire che sono dei “poveracci”, inoltre, pone lo scrivente in una posizione di superiorità che non vuole sforzarsi di capire i perché di una reazione violenta. E’ fin troppo facile dire “sono delle merde”; e soprattutto ricorda i discorsi post 11 settembre in cui da destra a sinistra si diedero la mano per scatenare la guerra in Afghanistan – si leggano in proposito le ultime dichiarazioni di Di Pietro su una Legge Reale 2 che ha subito trovato una sponda favorevole in Maroni -.
Ricorda il pensiero unico che non vuole capire ma solo accusare. Sa di società che esclude chi non si siede al tavolo delle regole prestabilite. Sa di gruppo chiuso che per nulla al mondo pretenderà mai di riscrivere, realmente, le regole di una società allo sbando. Se è questa l’Italia che sognate, mi spiace ma io non ci sto. Non ci sto anche se a scrivere le regole fosse il 99% della popolazione, perché è da chi non si allinea che, spesso, nascono i cambiamenti. I cambiamenti non emergono da un gruppo di amici che si tutelano, ma da visioni differenti, da incontri di mondi differenti. I cambiamenti non nascono nel seno della reazione “indignada” del “cancelliamo il debito?” (anche se fosse tra trent’anni che facciamo? Lo ricancelliamo?). I cambiamenti non nascono in seno a questo consumismo laico. E nemmeno in seno alla frase fascista che condanna le violenze “senza se e senza ma”. Quanto è reazionario il pensiero unico buonista postveltroniano? Ciò che dovrebbe indignare è che in questo sentimento nazionalpopolare non c’è ricerca di dialogo ma solo la solita Italia fatta di guelfi e ghibellini. Non conta se in questo caso i guefli siano la stragrande maggioranza, perché non hanno necessariamente ragione tout court. E non starò qui a tediarvi con vecchi discorsi sulle maggioranze oceaniche...
Sulle bacheche dei reazionari del “senza se e senza ma” si continua a citare Pasolini e la sua Valle Giulia senza attualizzarlo e senza aprire gli occhi alla diversità che emergono dagli scontri. Perché la violenza è diversità, che ci piaccia o no. E’ un sentimento umano che esisteva prima di noi e continuerà ad esistere anche dopo piazza San Giovanni. Stigmatizzarla non aiuterà a fermarla ma ne accrescerà solo le dimensioni. Se non fosse chiaro guardate questo video del Fatto Quotidiano e la frase del manifestante “pacifico” che invita il “black-bloc” a coordinarsi con loro. La violenza è un sentimento che esiste in ciascuno di noi, comprenderne i fattori scatenanti è uno sforzo necessario
Sono stanco di questa Italia ipocrita sempre pronta a delineare il limite dell’indignazione. Di quest’Italia che condanna la violenza “senza se e senza ma” ma che celebra Piazza Tahrir o la fine di Ben Ali.
Se la rabbia cresce, sale, esplode e ha bisogno di sfogarsi, un motivo ci sarà. Cerchiamolo, invece di sentirci migliori. Poniamoci la domanda se sia giusto continuare a perorare modelli di vita irragiungibili – vedi il caro Jobs – o se questo porterà, prima o poi, ad una condizione per cui chi non può accedervi si stancherà di fare il precario/emarginato a vita e si unirà a chi già ha rotto le vetrine. E allora saranno ancora di più mentre noi continueremo a sentirci migliori. La rabbia crescerà e potrebbe trovare sponda negli strati più esposti della popolazione
Invece di continuare a emarginarli cerchiamo di capirne le ragioni; ascoltare servirà a capire quali bisogni abbiamo “indotto” e poi non siamo stati in grado di mantenere. Ascoltiamo anche se non ci vogliono parlare, anche se è difficile, anche se all'inizio diranno che "noi non discutiamo di politica con i giornalisti". E' difficile, è vero... Se fosse semplice sarebbe banale e non saremmo qui a scriverne. Ascoltandoli possiamo inziare ad immaginare un mondo in cui non ci sia, per forza, una continua richiesta di consumo dei beni. Ascoltiamo i "black bloc" (perdonatemi la banalizzazione), ascoltiamo gli spacciatori, ascoltiamo i carcercarati, ascoltiamo i folli, ascoltiamo gli immigrati, ascoltiamo gli emarginati: solo loro ci possono dire dove abbiamo sbagliato. Solo ascoltandoli possiamo inziare ad immaginare un mondo che non sia esclusivo e top-down ma che sia, veramente, partecipato. L’informazione è specchio di questa realtà che guarda dall’alto in basso le persone, basta leggere il Corriere di oggi che, riguardo al caso dell’uomo con il giaccone, parla di “ingenuità del popolo della Rete”. Come se in rete esistesse un “popolo”, magari anche un po’ di serie b...
In fondo è tutto qui il problema pretendiamo un mondo 2.0 ma solo quando non tocca il nostro orto o destabilizza le nostre certezze. Non siamo pronti, davvero, ad ascoltare tutti ma solo chi non si allontana troppo dal nostro pensiero (fermatevi a riflettere, ad esempio, su come navigate e vi informate in rete). L'ascolto serve per costruire un'alternativa alla violenza e finché non saremo capaci di offrirne una, continueremo a costuire una società fondata solo sulla repressione. Ne arrestiamo 800? Benissimo, tra sei mesi ce ne saranno altri 800 che ne prendereanno il posto, perché non avremmo affrontato le ragioni sociali e culturai che spingono al "conflitto".
I tempi non sono maturi per una società post-capitalista data la mancanza di modelli economici antagonisti. I tempi non sono maturi per gettarci alle spalle il capitalismo perché crediamo di avere ancora troppo da perdere.
Ma siamo sicuri che ci sia rimasto ancora qualcosa?

Mi sa che ho un tantino sottovalutato la portata della cagnara romana del 15.

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