La maggior parte delle cronache dedicate in questi giorni agli avvenimenti in Kazakhstan sembrano caratterizzarsi per un comune grado di certezza, suddivisa grosso modo tra chi assicura trattarsi senz’altro dell’ennesima variante di majdan e chi è fermamente convinto degli innocenti obbiettivi di tutti i manifestanti.
Entrambi gli elementi sono certo presenti; ma non sono i soli e necessitano comunque di alcune precisazioni.
Prendiamo per quello che sono le ipocrite lamentazioni delle prefiche europeiste e dei bigotti liberali: a sbugiardare le loro finte lacrime sul sangue di «un popolo in rivolta contro un regime di plutocrati avidi e corrotti», basterebbero le centinaia di migliaia di lavoratori lasciati morire di covid, qui in Europa, in nome del PIL.
Per non parlare dei miliardi di profitti fatti dalle compagnie (energetiche, alimentari, ecc: un terzo delle entrate fiscali del budget kazakho viene da una trentina delle maggiori compagnie a partecipazione di capitale straniero), anche italiane, sulla pelle dei lavoratori kazakhi, in combutta con quei «plutocrati avidi».
Su quei miliardi non si piange mai. Soprattutto se è l’ENI a beneficiarne.
Ma andiamo con ordine. Della causa immediata, scatenante le attuali rivolte, aggravata dal passaggio al commercio elettronico del gas in borsa, dal 1 gennaio, è già stato scritto su questo giornale.
Resta da aggiungere dell’arrivo a Alma Ata delle forze di intermediazione degli Stati del ODKB (Armenia, Russia, Bielorussia, Tadžikistan, Kyrgyzstan, oltre allo stesso Kazakhstan) su richiesta del Presidente Qosym-Žarmat Tokaev: ufficialmente, a difesa di siti istituzionali kazakhi.
Nella sinistra russa si nutrono forti dubbi, oltre che sulla opportunità politica dell’invio di forze russe (scoppi dei nazionalisti ai danni dei 3,5 milioni di russi che vivono in Kazakhstan), sulla sua legittimità formale: l’intervento è previsto dall’art.4 del Trattato ODKB per il caso di “aggressione esterna” a un Paese membro, da parte di uno Stato straniero. A quanto pare, il contingente russo sarebbe stato inviato in fretta e furia, senza il voto del Senato…
Dunque, anche solo a voler astrarre per un attimo dalla lettura degli eventi fatta dalla stragrande maggioranza delle organizzazioni comuniste e socialiste, sia russe che kazakhe, di una rivolta popolare che il capitale intende soffocare con le armi dei 6 Stati membri del ODKB, qualche dubbio pare legittimo, quantomeno nella forma.
Al momento, sembra forzato parlare di “aggressione” da parte di uno Stato estero, nonostante sia pressoché scontata la presenza di gruppi islamisti provenienti dall’Afghanistan (i poliziotti decapitati sono un segnale) e di manifestanti ben addestrati a muoversi non come “folla disorganizzata e spontanea”.
Il fatto, inoltre, che la rivolta sia scoppiata quasi contemporaneamente in una quindicina di località diverse, indicherebbe una preparazione e un coordinamento da parte di settori dello stesso apparato kazakho, in concorrenza tra loro, anche fino ai vertici del potere.
L’indecisione mostrata da diversi reparti di polizia nei primi due-tre giorni, farebbe pensare a ordini contraddittori provenienti da apparati che rispondono a clan o feudi contrapposti in cui è divisa l’élite del Paese.
Per dire: una fetta significativa di clan è originaria della regione petrolifera di Mangišlak (in kazakho: Mangistau), che si affaccia sul mar Caspio, e non sembra affatto soddisfatta della propria esclusione dal potere.
In ogni caso, indicativa è stata, sin dalle prime ore della rivolta, tra il 1 e il 2 gennaio, la primissima reazione di un esponente tutt’altro che rivoluzionario quale il leader del KPRF, Gennadyj Zjuganov.
Nel suo commento, la parola “majdan” non figura nemmeno di sfuggita e le sue parole sono state che i fatti kazakhi debbano servire da monito per la politica sociale del Cremlino.
Successivamente, altri esponenti dello stesso KPRF, come Dmitrij Novikov o Leonid Kalašnikov, hanno accennato al pericolo che le proteste possano esser sfruttate da forze nazionaliste o esterne al Kazakhstan, ma l’accento lo hanno fatto cadere proprio sulle responsabilità del capitalismo feudale kazakho.
Come la Russia, il Kazakhstan è ricco di risorse naturali: gas, petrolio (12° posto mondiale per volume di riserve), uranio (maggiore produttore mondiale), ed è ai primi posti mondiali per riserve di rame, oro, carbone, bauxite, cromo, rame, ferro, tungsteno, piombo, zinco; senza dimenticare il suo ruolo quale crocevia tra Russia e Cina e nodo strategico per la “Silk Road Initiative”.
Ma, al pari della Russia, ben poco degli introiti da tali ricchezze rimane per le politiche sociali dello Stato, dopo le privatizzazioni post-sovietiche: il 70% del petrolio kazakho è destinato all’Europa e i 2/3 dell’industria estrattiva sono in mano a corporation transnazionali.
Qualunque esito abbiano le manifestazioni, le ragioni che hanno acceso la rivolta (molte delle aree attuali, nel 2016 erano state interessate da attacchi islamisti, da un lato, ma anche da rivolte popolari contro la riforma fondiaria, dall’altro) rimangono tutte; né è scomparso il pericolo che si cerchi di cavalcarla in una direzione majdanista.
Uno dei centri teatro delle attuali proteste, è la città operaia di Žanaozen, dove è iniziato lo sciopero: proprio a Žanaozen, nel 2011 un lungo sciopero degli operai petroliferi era stato duramente represso, con decine di lavoratori uccisi e centinaia incarcerati.
Oggi, scrive ad esempio ROTFront, le autorità kazakhe e la borghesia russa aggirano l’essenza di classe degli eventi, agitando lo spauracchio di “majdan”: allo scopo, sono all’opera, tra i manifestanti, provocatori e nazionalisti, che si danno al saccheggio e alle uccisioni indiscriminate.
Rispetto al 2011 o al 2016, la situazione socio-economica non è certo migliorata: disoccupazione, bassi salari, tariffe elevate, inflazione, debiti. Ad esempio, i Socialisti russi scrivono che nella già citata regione di Mangistau operano sia la “Mangistaumunaigaz”, che altre società energetiche, quasi tutte di proprietà di capitali privati cinesi e non sembra che i cinesi trattino i lavoratori kazakhi diversamente dal regime di Tokaev.
Nel primo semestre del 2021 gli investimenti diretti esteri nel Paese hanno superato gli 11 miliardi di dollari, con un incremento del 30% sul 2020 e tra le multinazionali presenti spiccano ENI, la francese Air Liquide, o i tedeschi della Linde.
Secondo fonti ufficiali kazakhe, ci sono oltre 700 società yankee, con i testa Chevron, Exxon Mobil, General Electric, Halliburton, ecc. Nel 2018, gli investimenti diretti USA erano stati di 2,79 miliardi di dollari e in totale, tra il 2005 e il 2018, di 33,76 miliardi.
Non è qui possibile fare un elenco sia pur sommario di tutta la presenza del capitale straniero in Kazakhstan. Secondo finprom.kz, nel 2020, gli investimenti diretti stranieri sono stati di 161 miliardi di dollari, di cui 30 americani e il numero di imprese straniere nel Paese è aumentato del 25% nell’ultimo anno.
Comune alle organizzazioni comuniste russe è la constatazione che tutta la politica seguita per trent’anni da Nursultan Nazarbaev (da cui poco differiva quella di Viktor Janukovič in Ucraina, che poi portò alle manifestazioni sfociate nel majdan) abbia posto le premesse per gli avvenimenti attuali, come come era stato per quelli del 2008, del 2011 o del 2016.
Di pari passo con l’accaparramento politico e materiale della propria famiglia, già negli anni ’90 Nazarbaev aveva aperto la strada alla penetrazione economica e politica USA, insieme al pieno appoggio materiale a Washington nelle guerre in Iraq e Afghanistan. Oggi, a fianco degli interessi yankee, in Kazakhstan non meno forti sono quelli russi, cinesi, turchi e Erdogan non fa mistero delle mire panturaniche di Istanbul.
Tornando alle manifestazioni attuali, il leader del Movimento socialista kazakho, Ajnur Kurmanov, ricorda come nelle regioni occidentali del Paese, dove sono iniziati gli scioperi, la tradizione di lotta sia abbastanza viva, sin da metà anni 2000, anche perché là, per ogni lavoratore occupato, ci sono 4-5 familiari disoccupati ed esiste una forte solidarietà tra i lavoratori, pur falcidiati dalla messa fuori legge di sindacati e partiti di classe (il PC kazakho è stato liquidato nel 2015 dalla Corte suprema).
E, comunque, lo scoppio attuale non è arrivato del tutto inatteso, dice Kurmanov: da un anno proseguono a ovest meeting e scioperi, per lo più proprio in imprese a capitale straniero e di fronte alla prossima prospettiva di licenziamenti di decine di migliaia di lavoratori.
Là, a ovest, nella regione di Mangistau, l’unica possibilità di lavoro è quella nelle imprese energetiche, soprattutto USA. Si va verso un “eccesso di popolazione” di oltre dieci milioni di persone, dato che alle società energetiche straniere sono sufficienti tre milioni di forza lavoro e due milioni nei servizi, su una popolazione che non arriva a 19 milioni.
L’Occidente, afferma Kurmanov, non ha granché interesse a porre fine al potere di Tokaev-Nazarbaev, che è orientato soprattutto verso Ovest.
Basti ricordare anche la sola presenza militare USA e NATO in Kazakhstan: centri di addestramento secondo gli standard NATO; Centri di arricchimento dell’uranio con la presenza di specialisti USA; avamposti di frontiera con apparecchiature fornite dagli USA per registrare scambi russo-cinesi e trasmettere i dati direttamente al Pentagono; un centro di osservazione per registrare i movimenti della flottiglia russa nel Caspio; numerosi laboratori biologici militari americani.
Corollario: ufficialmente, in Kazakhstan operano circa sedicimila ONG straniere; della borsa di studio “Nazarbaev” usufruiscono ogni anno circa 5.000 studenti, per soggiorni di studio in USA; attive nel paese anche molte scuole coraniche finanziate dalla Turchia.
In questo quadro, mentre quasi tutte le organizzazioni comuniste russe lanciano appelli di solidarietà alla lotta dei lavoratori kazakhi e mettono in guardia da strumentalizzazioni (quasi da subito, per dire, il banchiere kazakho Mukhtar Ablazov, che oggi vive tra Kiev e la Svizzera, si è proclamato “leader delle proteste”) e sopravvento di nazionalisti e islamisti, c’è anche chi, da Mosca, inquadra l’invio delle forze del ODKB in tutt’altra ottica.
Partendo da premesse falsamente “sovietiche”, si sostiene che, con l’invio delle forze russe, ci sarebbe stato «un cambiamento fondamentale nella politica mondiale. I giochi sono finiti; questa è la linea rossa tracciata dalla Russia, pronta a a difendere con le armi se stessa e i propri interessi.
Si è offerto sostegno a Tokaev e a tutte le forze distruttive è stato mostrato che i giochi sono finiti e si è disposti a colpire duramente. L’era della multi-vettorialità di Nazarbaev sta finendo: la posta in gioco è troppo alta. La Russia ha proclamato i propri diritti nello spazio post-sovietico e li sta assicurando con la forza».
È possibile che sia così. È possibile che Tokaev sposti la “multi-vettorialità” a prevalenza americana di Nazarbaev, verso una “multi-vettorialità” in cui predominino i capitali russi.
Ma la domanda rimane: cosa cambierà per i lavoratori kazakhi?
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