“Crescere consuma”, pensa Teresa, la protagonista adolescente del recente romanzo di Enrico Pompeo, Nessuno ha dato la buonanotte (MdS Editore). E forse consuma ancora di più quando si è incapsulati, come tanti adolescenti, in un universo familiare che rappresenta una gabbia senza via d’uscita, una sorta di microcosmo votato al conformismo che “consolida il potere effettivo della classe dirigente in qualsiasi tipo di società basata sullo sfruttamento”, come scrive David Cooper ne La morte della famiglia. Enrico Pompeo affresca con maestria un universo familiare in progressivo disfacimento, in lenta ma crescente implosione dall’interno, quando comincia a crearsi una frattura, evidente già dalla frase che dà il titolo al libro e che chiude il primo capitolo. Un disfacimento che avviene in pochi giorni, dalla fine di maggio fino alla metà di giugno (i vari capitoli recano infatti le date come titolo), ma che probabilmente già covava al suo interno una miccia pronta ad accendersi. Se il gruppo familiare appare, dall’esterno, come un meccanismo perfetto, esso è inserito all’interno della macina di una quotidianità fatta di conformismo e di aspirazioni a un sempre maggiore benessere. Ed ecco perché, come suonano i versi della canzone di De André posti in esergo al romanzo, si tratta di “una storia da dimenticare”, di “una storia sbagliata”. Una “storia sbagliata” che si perde nel conformismo di mille giorni uguali a sé stessi, in cui i dolori e i problemi lievitano nel silenzio. Non si tratta, beninteso, di una famiglia alto-borghese e benestante, la cui disgregazione, quasi per un influsso demonico, è raccontata ad esempio dai film Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini e Il sacrificio del cervo sacro (The Killing of a Sacred Deer, 2017) di Yorgos Lanthimos, ma di una appartenente alla classe medio-alta, che aspirerebbe ad arricchirsi e a comprare una casa più grande e più bella.
Ci vuole una scintilla per far gradatamente accendere la miccia e in questo caso la scintilla è la figlia Teresa, ragazzina di terza media prossima all’esame che ha compiuto un atto di bullismo mettendo su Instagram la foto di alcune sue compagne di classe. Ma si tratta di un atto compiuto per difendersi a sua volta da altre offese ricevute da quelle stesse compagne. Allora, il fragile equilibrio familiare si spezza: la convocazione della preside mette in subbuglio soprattutto la madre, fino ad allora preoccupata soltanto del suo aspetto esteriore e della sua carriera in banca: la figlia potrebbe rischiare addirittura la non ammissione agli esami! Nelle pagine di Enrico Pompeo viene messo quindi il dito sulla piaga di un problema, purtroppo, assai presente nell’universo scolastico contemporaneo, quello del cosiddetto cyber-bullismo. Un problema dietro al quale ci sono i risvolti più disparati, che dovrebbero essere contestualizzati ogni volta con circospezione e delicatezza. Nel caso di Teresa si tratta di un gesto (sicuramente sbagliato) che, paradossalmente, sembra offrirle una sponda di maturazione, la consapevolezza di essere da sola, in certi momenti (le compagne avevano scritto “Teresa putt…” “sulla porta del bagno delle femmine” durante una gita), e di doversi difendere senza aspettarsi alcun aiuto da un mondo degli adulti distratto e intrappolato nelle sue fatuità ciniche e burocratiche.
Nessuno ha dato la buonanotte, oltre a rappresentare la lenta disgregazione di un microcosmo familiare, delinea anche la graduale presa di coscienza di Teresa, in un vero e proprio processo di formazione e di crescita. Quello di Pompeo può infatti essere letto come un romanzo di formazione in cui l’adolescente Teresa entra gradatamente nel mondo degli adulti. Attenzione, però, lei vorrebbe diventare un’adulta diversa da tutti quelli che la circondano: la madre Linda, il padre Giorgio, impegnato soltanto a guadagnare di più, il maestro di tennis, un personaggio fatuo che si lascia trasportare dagli eventi (“sono proprio come un tubo di palline vuoto”, dirà di sé). Infatti – come afferma in un dialogo con quest’ultimo, scelto per darle lezioni in vista dell’esame – “con i suoi non ci parla da un po’, gli risponde, perché pensano solo al lavoro e ai soldi e si arrabbiano subito”. Sull’universo familiare di Teresa grava una cappa di convenzioni e di vuoto, fatto di apparenze e di denaro; un universo decostruito da rapporti sociali digitalizzati e spersonalizzanti (nel corso della narrazione, in corsivo, compaiono spesso messaggi ‘whatsapp’ che circondano i personaggi). Una volta uscita da scuola, dopo l’esame, Teresa vede tutti questi adulti come sulla scena di un teatro, fatua “commedia umana” di un mondo a lei estraneo:
Poi la ragazza li vede: c’è sua mamma, con un giacchetto improbabile a questa temperatura, che si muove verso l’auto come se stesse imparando a camminare; un po’ più distante c’è suo padre, con la stampella, che va a scatti, sembra stia preparandosi a combattere contro un esercito di nemici immaginari.
Gira lo sguardo e trova anche il suo allenatore, in un angolo del cortile, lontano da tutti, come al solito, che se non lo cerca qualcuno non si nota mai se c’è o no.
Crescere consuma, pensa Teresa.
‘Io non lo so come sarò da grande, ma come loro mai e poi mai. La mamma, sempre a voler essere la migliore, e poi, alla prima difficoltà grossa, si è spenta. Mio padre che pensa solo a sé stesso e così si è perso tutto e se n’è andato senza neanche salutarmi. E quell’altro, poi, che fa il misterioso, quello che sta sulle sue, e invece è solo una maschera. Poveracci, magari non è nemmeno tutta colpa loro. Quando si casca, all’improvviso, la senti la botta, te ne accorgi. Se invece scivoli piano piano, ti sembra di star bene e invece ti trovi solo e non sai cosa fare’ (pp. 184-185).
Teresa è ormai adolescente, è ormai uscita dall’infanzia, ma il suo sguardo è ancora liminale, a metà fra il mondo incantato dell’infanzia e quello disincantato dell’età adulta e i suoi pensieri non sono troppo diversi da molti personaggi di bambini e adolescenti della letteratura che desiderano andare al di là del cinico mondo degli adulti perché credono ancora nell’avventura di una vita vera, degna di essere vissuta, come i piccoli protagonisti di Bambini bonsai (2010) di Paolo Zanotti che, in un mondo futuro devastato, affrontano la pioggia incuranti delle paure degli adulti, scavalcando la loro presunzione, “le loro stupidissime buone idee, sfidando i confini per squarciare il cielo”. Teresa, come i personaggi del romanzo di Zanotti (ma anche come altri personaggi ‘classici’, ad esempio l’Alice di Lewis Carrol o il Jim de L’isola del tesoro di Stevenson), è sola nell’affrontare i problemi, ed è sola, in fondo, anche nella sua esperienza di crescita. Riuscirà in questo percorso anche “assecondando una passione amorosa scomoda e proibita”, come leggiamo nel risvolto di copertina e sulla quale non vorrei adesso rivelare di più. Chissà quanto c’è, in Teresa, oltre al nome, della Teresa protagonista della canzone di De André (autore molto amato da Pompeo), Rimini, che “parla poco”, “guarda verso il mare” e “porta una lametta al collo vecchia di cent’anni”, anche lei schiacciata da un mondo fatuo che la ingloba e la addita al pubblico ludibrio, ma sembra che poco se ne curi, nella sua solitudine e nel suo coraggio, perché è pur sempre “figlia di pirati”.
E se gli adulti prenderanno ciascuno una via d’uscita da quel mondo fatuo e piccolo-borghese, una volta sfiorati dal demonico tocco di una miccia che ormai ha fatto esplodere tutto (come nel finale di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni), entrando in ‘dimensioni’ estreme che rappresentano tutte una ormai tardiva ribellione alle loro vite precedenti, probabilmente l’unica a salvarsi sarà Teresa. Di fronte a lei ci sarà un viaggio, un’uscita da quel mondo, non una via di fuga ma probabilmente l’inizio di un percorso autonomo di libertà ed emancipazione.
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