La prima approvazione in Consiglio dei Ministri del “ddl Calderoli” segna un passaggio preoccupante e, pertanto, da non sottovalutare anche se, in parte, dovuto ad esigenze propagandistiche della Lega per le elezioni regionali in Lombardia.
Di fronte a questa prevedibile situazione, nell’assemblea nazionale del 29 gennaio dei Comitati per il ritiro di ogni autonomia differenziata si è, opportunamente, fatto riferimento all’obiettivo di una manifestazione nazionale.
Quindi una manifestazione che non sia soltanto di realtà, Associazioni, Movimenti, forze politiche e sindacali meridionali ma che sappia parlare all’intero Paese perché, soprattutto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, l’autonomia differenziata è un pericolo per il sistema Paese e non è più un vero vantaggio nemmeno per alcune Regioni settentrionali.
Tuttavia per allargare il nostro angolo visuale, in modo da supportare meglio la mobilitazione in atto, è indispensabile non farsi trascinare nel teatrino politico che non ci viene risparmiato nemmeno su una tematica così importante e mirare ad analisi tendenzialmente strutturali.
Ad esempio, da anni la SVIMEZ, nei suoi rapporti annuali, fa riferimento ad un “doppio divario” quello tra il Nord Italia e il Sud e quello tra l’Italia e l’Europa.
In altri termini, se oggi è fondamentale avere una visione della “quistione meridionale” non più soltanto di tipo nazionale per il suo inevitabile intreccio con le politiche regionali e le strategie macroregionali europee, così la teoria della “locomotiva”, tanto cara ai liberisti nostrani, non si può vedere sganciata dal contesto europeo che dopo il 24 febbraio 2022 ha avuto un forte spinta alla meridionalizzazione in seguito all’accelerazione di processi geopolitici che, seppur già in atto, hanno avuto una prima intensificazione con la crisi pandemica.
Non a caso il Nobel statunitense Paul Krugman sin dal 1991 ha individuato una tendenza alla “mezzogiornificazione dell’Europa” [1] che oggi, però, non è più concentrata soprattutto nei Paesi del Sud Europa (i PIGS) ma si va progressivamente estendendo all’insieme del continente a partire dalla Germania, la nota “locomotiva” UE, che maggiormente risente le conseguenze negative in termini di competitività e produttività del proprio sistema economico per l’attuale crisi internazionale.
Quindi, a differenza di alcuni anni fa, uno dei pilastri dell’autonomia differenziata, ossia l’aggancio della locomotiva italiana (le tre Regioni battistrada) a quella tedesca è fortemente in crisi per le grosse difficoltà della “locomotiva-madre” che oggi faticosamente cerca di ridefinire una propria prospettiva strategica.
Tuttavia c’è un altro importante elemento che ha una data ben più lontana del febbraio dello scorso anno: le politiche liberiste da tempo hanno provocato un arretramento delle nostre “Regioni forti” rispetto alle analoghe Regioni europee.
Infatti già nel Rapporto SVIMEZ 2020 si fa presente che, in base al PIL pro-capite, la Lombardia dal 2000 al 2007 scivola dal 17° al 29° posto, nel 2009 è ancora al 29° posto e nel 2018 retrocede al 44° posto; l’Emilia-Romagna dal 25° posto del 2000 al 41° posto del 2007 e scende al 55° posto nel 2018; il Veneto passa dal 36° posto al 54° nel 2007 e al 74° nel 2018. [2]
A conferma di questi dati, con riferimento specifico ad una delle tre Regioni citate, si può leggere un articolo molto interessante e più recente pubblicato il mese scorso sul sito Sbilanciamoci dal significativo titolo “Meridionalizazione della Lombardia in Europa” dove l’ Autore – Roberto Romano – porta precise statistiche sulla divaricazione dell’economia lombarda rispetto a quella tedesca[3].
È questo arretramento che fa parlare di “meridionalizzazione” della Regione italiana più forte e del tendenziale allargamento dell’area meridionale del Paese aldilà dei suoi confini storici.
Il suggello alla situazione descritta è stato dato anche dal fatto che due Regioni dell’Italia centrale – Marche ed Umbria – corrono il rischio da alcuni anni di essere inserite tra i territori meno sviluppati per i cicli della programmazione europea.
Alla luce di quanto delineato, si comprende che oggi il peggioramento della situazione economico-sociale del Paese fa sì che la vera contraddizione – fuori e contro la propaganda leghista, dell’ideologia del merito e della pseudo-efficienza – è tra Regioni meno deboli e Regioni più deboli e, quindi, anche la nota e fortunata espressione di “secessione dei ricchi” – che molti di noi hanno condiviso – merita qualche ulteriore riflessione sulla sua integrale ed effettiva attualità perché, pur riferendosi ad un divario territoriale tuttora esistente, può generare degli equivoci con le classi subalterne settentrionali che sicuramente non si vedono tra i “ricchi”.
Insomma non si tratta solo di invitare qualche economista alle nostre iniziative da affiancare ai costituzionalisti ma comprendere che occorre rafforzare la lotta e la critica all’autonomia differenziata in termini di sfida sul modello di sviluppo anche perché sul breve-medio periodo la Germania intensificherà la tendenza che ha già manifestato negli ultimi anni agendo in proprio e cercando con ancora maggiore determinazione sbocchi extra-UE al proprio export (si veda il viaggio in Cina del suo Primo Ministro accompagnato da una folta delegazione della Confindustria tedesca) e, quindi, non è detto che voglia continuare ad essere una “locomotiva” prevalentemente europea.
Del resto, le posizioni di Bonomi e di vasti settori della Confindustria di estrema freddezza – se non di contrarietà – sull’autonomia differenziata significano che il padronato nostrano è ben cosciente che è necessaria una prospettiva per il sistema-Paese e non certo, come dicono, per l’unità della Repubblica anche se possiamo adoperare persino queste posizioni nelle argomentazioni contro l’autonomia differenziata verso quei settori di massa più incerti e moderati.
Un meridionalismo moderno e non soltanto rivendicativo comprende che non c’è soltanto il problema di accendere il motore meridionale accanto a quello settentrionale perché c’è la drammatica prospettiva che si vada spegnendo il motore del sistema-Paese e ciò per noi significa che questa situazione rende possibile parlare, con piena cognizione di causa, ai cittadini del Nord ad iniziare, come già accennato, ai proletari di quelle Regioni.
La battaglia contro le gabbie salariali degli anni '60 la vincemmo perchè riuscimmo a praticare la parola d’ordine del “Nord/Sud uniti nella lotta”. Seppur in un contesto interno e internazionale molto diverso, dobbiamo praticare la medesima strada perché solo così potremo sconfiggere l’autonomia differenziata.
La storia del Movimento operaio e popolare c’insegna che la differenziazione ha agito e agirà anche all’interno del Nord com’è già successo proprio con le citate gabbie salariali dove quelle dell’area milanese erano ben più elevate di quelle ad esempio, del bellunese e dove, nelle zone interne del Nord, c’erano delle gabbie salariali anche più basse di alcune aree meridionali più industrializzate.
Le gabbie salariali di allora, per quanto criticabili perché espressione della legge capitalistica dello sviluppo ineguale, avevano un forte aggancio con l’economia reale perché c’era la “locomotiva” del triangolo industriale, le gabbie salariali contrattuali che vogliono prospettarci non hanno un tale aggancio ma restano in un prevalente ambito di spesa pubblica e all’interno di un regime liberista che, data la situazione internazionale, si accinge a tagliare ulteriormente la spesa sociale per aumentare quella militare, perciò gli eventuali e molto limitati benefici non saranno per intere Regioni del Nord ma per le ristrette aree più forti dei territori meno deboli.
Comunque determinante sarà il tipo di modello alternativo di sviluppo che sapremo proporre e che non potrà prescindere da una riconsiderazione strategica dell’area mediterranea ma non in termini securitari, strumentali e da guerra fredda come vuole l’attuale governo di destra.
Note
[1] Cfr. Paul Krugman in Geografia e Commercio Internazionale del 1991 ma pubblicato in italiano dalla Garzanti nel 1995.
[2] Cfr, Rapporto SVIMEZ 2020 pag. 10
[3] Il citato Autore osserva che il rapporto investimenti/PIL in Lombardia passa dal 22% nel 2007 al 17,5% nel 2019; inoltre dal 2009 c’è un rallentamento della dinamica del valore aggiunto maturando un ritardo pari a 10 punti rispetto non solo alla Germania ma anche rispetto alla Francia nel 2021.
Fonte
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