Ogni volta che gli istituti centrali di statistica – Istat in Italia, Eurostat in Unione Europea, ecc. – pubblicano i dati relativi alle loro ricerche parte immediatamente la caccia giornalistica al numero che può fare da “acchiappa-copie” o acchiappa-click.
Sui dati resi noti ieri in molti si sono fermati a quello sull’età media della popolazione italiana, che è – non è una novità da anni – la più alta del Vecchio Continente: 48 anni circa.
Borbottii preoccupati in sede politica, scandalo trattenuto in sede mediatica... ma silenzio totale sulle cause di un fenomeno detto “invecchiamento della popolazione”.
Vediamo prima qualche numero.
L’età media della popolazione dell’Ue, al primo gennaio 2022, era di 44,4 anni, pari a 0,3 anni in più rispetto al 2021 e l’Italia si trova in cima alla classifica, con l’età media più elevata tra i Ventisette, a 48 anni. Inoltre, l’Italia arriva prima anche nella lista dei Paesi col più elevato rapporto tra anziani (persone sopra i 65 anni) e persone in età lavorativa, con il 37,5%.
È quanto emerge dai dati di Eurostat, l’Ufficio di statistica dell’Ue, che ha spiegato che l’età “è aumentata di 2,5 anni (in media di 0,25 all’anno) rispetto ai 41,9 anni del 2012”. Tra i Paesi dell’Ue, l’età media varia dai 38,3 anni di Cipro, i 38,8 dell’Irlanda e i 39,7 del Lussemburgo ai 48 dell’Italia, i 46,8 del Portogallo e i 46,1 della Grecia. In totale, 18 Paesi dell’Ue erano al di sotto dell’età media dell’Ue.
“Tra il 2012 e il 2022, questo indicatore è aumentato in tutti i Paesi dell’Ue tranne che in Svezia, dove è diminuito (da 40,8 anni nel 2012 a 40,7 anni nel 2022)”, ha precisato Eurostat.
Oltre all’aumento dell’età media, nel 2022 è aumentato anche l’indice di dipendenza degli anziani dell’Ue, cioè il rapporto tra il numero di anziani (di età pari o superiore a 65 anni) e il numero di persone in età lavorativa (15-64 anni). Era del 33% nel 2022, pari a 0,5 punti percentuali in più rispetto al 2021, e il dato è aumentato di 5,9 punti percentuali dal 2012, rispetto al 27,1%.
Questi numeri descrivono in modo asettico – e decisamente acefalo – una crisi di riproduzione della popolazione europea. Ovvero una bassa natalità nelle generazioni in età fertile e un allungamento medio delle aspettative di vita. Almeno in teoria. Sappiamo infatti da altri dati che la pandemia ha abbassato proprio l’aspettativa di vita falciando di preferenza le persone più anziane. Dunque questo ennesimo innalzamento dell’età media dipende soprattutto dalla riduzione della natalità.
Va da sé che una società che si riproduce in modo insufficiente a rimpiazzare la popolazione che passa a miglior vita è una società morente. La quale, oltretutto, va incontro a seri problemi economici, visto che il numero di persone al lavoro diminuisce rispetto a quello delle persone non più in grado di lavorare.
E sappiamo – dalla “riforma Dini” del 1995 a quella Fornero del 2012 – che questo tipo di problemi vengono sbrigativamente risolti allungando l’età pensionabile, ossia impedendo di andare in pensione prima della morte.
Ma anche questa soluzione criminale ha le sue brave controindicazioni, perché in questo modo si blocca il turnover sui posti di lavoro e quindi si ritarda l’ingresso dei più giovani, ovvero di coloro in grado di riprodursi (fare figli, brutalmente). Insomma: allungare l’età pensionabile riduce la natalità e contribuisce all’innalzamento dell’età media nonostante gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali falcino prevalentemente i più anziani.
Resta comunque da spiegare “perché?” si fanno così pochi figli. Ricordiamo che ai tempi del “boom economico” – anni del dopoguerra,con picco nel 1964 – nasceva poco più di un milione di bambini l’anno, mentre nel 2022 siamo scesi appena sotto i 400.000.
Lo scarto (il 60%) è troppo grande per non coglierne la drammaticità: questo (ma il discorso vale per tutta l’Europa occidentale) è un paese che va verso la desertificazione sociale. I governanti e i moralisti da editoriale danno la colpa, come sempre, alle persone (che “vogliono godersi la vita invece di assumersi una responsabilità”, molto simile al “non hanno voglia di lavorare).
Le ricerche sociologiche per rintracciare le cause della “scarsa natalità” si susseguono ormai da decenni, ma naturalmente si concentrano su aspetti secondari, per quanto importanti. Per esempio, tra le risposte più gettonate ci sono i “costi economici” del mantenimento di un figlio. Lo studio della Community Research&Analysis pubblicato pochi giorni fa quantifica la spesa in 640 euro al mese.
Poi si passa genericamente a “problemi personali” che impedirebbero di realizzare l’aspirazione – diffusissima, pare – ad averne anche più di uno.
Anche ricerche così poco scientifiche, insomma, sono costrette a cogliere il dato economico come centrale. Ma naturalmente ci si guarda bene da mettere in relazione l’alta spesa per crescere un figlio con i bassi salari percepiti soprattutto dai lavoratori più giovani che – ma guarda un po’… – sono anche in età riproduttiva.
Eppure non dovrebbe essere complicato sommare quei 640 euro a quelli necessari per pagare l’affitto (o il mutuo), per mangiare, andare al lavoro (l’auto, il ciclomotore o anche solo l’abbonamento a metro e bus), pagare la retta per l’asilo o il tempo pieno, curarsi (la sanità pubblica ormai, a forza di tagli, non riesce a garantire quasi più nulla), ecc.
Insomma: quanto bisognerebbe guadagnare – come coppia – per mettere al mondo almeno un figlio? (Senza nemmeno ricordare che con un solo figlio a coppia in ogni caso ci sarebbe una riproduzione sociale almeno dimezzata...).
Sappiamo tutti – e meglio di tutti i nostri lettori, per esperienza diretta quotidiana – che i salari contrattuali sono scesi rispetto a 30 anni fa (guarda caso quando la curva della natalità ha preso definitivamente la via verso il basso). Che la forma più diffusa di contratto è precaria (tempo determinato o anche peggio). Che i salari offerti sono così da fame da “soffrire la concorrenza” del reddito di cittadinanza (mediamente 580 euro).
Sappiamo e leggiamo che ormai persino a giovani architetti o ingegneri vengono fatte proposte offensive (tipo 750 euro al mese). Abbiamo ministri che davanti alla “fuga dei cervelli” (giovani laureati che emigrano in cerca di un lavoro retribuito almeno il giusto) dicono che “bisogna implementarla”! Come se qui non si sapesse proprio cosa fare di lavoratori istruiti, ricercatori, professionisti, ecc.
E infatti le imprese che hanno bisogno di professionalità minimamente avanzate hanno carenza di personale, perché “i cervelli fuggono”. Questa classe dirigente non sa neanche di cosa parla...
Sappiamo infine che tra i 27 paesi dell’Unione Europea ben 22 hanno un livello di salario minimo, mentre qui viene ritenuto una bestemmia. Un livello certo non altissimo (in genere circa la metà del reddito medio; in Italia equivarrebbe ad almeno 16.000 euro l’anno), ma comunque un “pavimento” al di sotto del quale è illegale andare, per un sedicente “datore di lavoro”.
E qui siamo alla fine del nostro breve viaggio: se si vuole che questo paese abbia ancora un futuro, abbassate le armi e alzate i salari. O meglio ancora: toglietevi dai piedi prima che sia troppo tardi.
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