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20/02/2023

La preparazione USA alla guerra con Russia e Cina viene da lontano

Premettiamo per onestà che non riportiamo niente di completamente nuovo, né tantomeno di nostre “scoperte”. L’argomento circola da tempo e, nelle sue forme più articolate, così come sono state illustrate dal “padre” di quell’organismo che, con le sue ricette geopolitiche, sembra dettare la linea alla stessa CIA – vale a dire George Friedman e la Strategic Forecasting – abbraccia la nuova geografia di buona parte dell’Europa centro-orientale e, più in generale, descrive futuri scontri planetari.

E dunque, l’estate scorsa, su buona parte delle reti sociali in lingua russa, è ricomparso il frammento di un confronto televisivo risalente al 30 maggio 1997, nel corso del quale il conduttore Aleksandr Ljubimov, inframmezzando la discussione, riportava in breve una notizia che, all’epoca, aveva del “fanta-politico”.

Il programma era “Faccia a faccia” e gli ospiti principali erano l’ex primo presidente dell’Ucraina “indipendente” (cioè: post 1991), Leonid Kravčuk e il politologo e consigliere presidenziale russo Sergej Karaganov. Temi del dibattito erano l’accordo di amicizia e cooperazione da poco sottoscritto dai presidenti russo e ucraino, Boris Eltsin e Leonid Kučma; la volontà ucraina di entrare nella NATO; la questione della discriminazione della lingua russa in Ucraina.

Nel bel mezzo della discussione, il conduttore diceva che nel corso di recenti (all’epoca) esercitazioni a livello di Stato maggiore di una delle accademie militari statunitensi, si era raffigurata una situazione per cui, entro il 2025, gli USA si sarebbero trovati a combattere contro Russia e Cina, a causa dell’Ucraina che, entrata nella NATO, avrebbe dichiarato guerra alla Russia.

Da parte sua, il conduttore Aleksandr Ljubimov, aggiungeva che, a quel tempo, anche in Russia si ipotizzava un simile scenario, cioè un conflitto con l’Ucraina, se quest’ultima avesse aderito alla NATO e la Russia no.

Dunque, qualcuno potrebbe domandarsi, per pura curiosità, quale sia stata la fonte originale delle “previsioni” che ora parlano del futuro assetto europeo dominato da una Polonia che rinverdisce i propri fasti settecenteschi, ora (e la prima congettura scaturirebbe da quest’altra) dell’interesse USA a «indebolire l’economia tedesca per rafforzare l’economia statunitense»; ora del conflitto planetario, di cui si disquisisce con distaccato e affaristico afflato “imprenditoriale”.

Da chi sono venute le prime elucubrazioni? Dalle “accademie” (militari) statunitensi, o dagli “analisti-investigativi” yankee – in fondo, è difficile distinguere i due soggetti – che anticipano in forma declamatoria le mosse pratiche già studiate decenni prima? È comunque una curiosità relativa: la questione di fondo rimane quella dello scontro mondiale che discende da tutta una precedente politica, statale e internazionale, degli attori più forti e che, irrisolto per via puramente “concorrenziale”, deve necessariamente sfociare nella contesa armata.

Dopotutto, tra poco saranno quasi duecento anni che Karl Marx scriveva che (citiamo a memoria) tra due diritti uguali, decide la forza. Non si chiede qui di ostentare fede leninista e di riconoscere che «tutti ci attendevamo la guerra, ad essa eravamo preparati. Dunque, non è affatto importante chi abbia attaccato; si preparavano alla guerra e ha attaccato chi, nel dato momento, lo considerava vantaggioso».

Non si chiede a nessuno di professarsi marxista. È sufficiente ricordare le parole Karl von Clausewitz, secondo cui «le guerre scaturiscono solo dai rapporti politici tra i governi e tra i popoli; ma, di solito, ci si rappresenta la cosa come se, con lo scoppio della guerra, questi rapporti cessino e si instauri una situazione completamente diversa, soggetta solo a proprie leggi speciali. Al contrario, noi affermiamo che la guerra non è altro che la continuazione dei rapporti politici con l’intervento di altri mezzi».

Tornando al tema, ricordiamo che, negli anni di quel “Faccia a faccia” televisivo russo, l’adesione di Mosca alla NATO era stata più volte ventilata, a partire dal periodo immediatamente successivo alla fine dell’Unione Sovietica, a dicembre 1991. La Russia si era unita al Consiglio di cooperazione nordatlantica e dal 1994 aveva cominciato a partecipare al programma Partnership per la pace.

Ancora a marzo del 2000, il presidente (più esattamente: “facente funzione”) Vladimir Putin, in un’intervista alla BBC aveva detto di non poter «immaginare il mio paese isolato dall’Europa»; e alla domanda su una possibile adesione all’Alleanza atlantica, aveva risposto «Perché no? Non escludo tale possibilità: questo nel caso si tenga conto degli interessi russi e se essa sarà un partner a pieno diritto».

Tre settimane prima dell’intervista alla BBC, riportava all’epoca il russo Kommersant, Putin aveva addirittura ricevuto l’allora segretario NATO George Robertson, accordandosi per stabilire contatti a pieno regime e considerare i due soggetti, Russia e NATO, “partner strategici”. In quell’occasione Putin aveva pronunciato le parole «La Russia è pronta a collaborare con la NATO», cui, nell’intervista alla BBC, aggiungeva “anche fino all’adesione all’Alleanza”.

Venendo ai tempi più recenti e alle “previsioni” (verrebbe però da definirle “linee strategiche dettate alla Casa Bianca”), ecco dunque che il creatore della StratFor e padre del progetto Geopolitical Future, George Friedman, può tranquillamente confessare di aver «previsto il conflitto in Ucraina, ma non che ne sarebbe uscita vincitrice la Russia».

Come dargli torto? Le guerre si cominciano, o si provocano, con la presunzione di vincerle, o almeno di non perderle.

Almeno da una ventina d’anni i rapporti tra le grandi economie mondiali erano tali per cui l’esplosione di un conflitto era uno sbocco “obbligato” e, se la concorrenza più o meno pacifica non avesse portato al prevalere di una o l’altra delle parti, non ci si poteva che attendere una soluzione di forza. A Washington si sapeva perfettamente. A questo ci si preparava, come detto, dal 1997: quantomeno considerando l’epoca più recente.

A una soluzione di forza nei confronti dell’Unione Sovietica, gli USA si preparavano sin dagli anni ’50. Scartato il piano “Unthinkable” di Winston Churchill, a Seconda guerra mondiale appena finita, gli USA avevano quindi messo a punto il piano “Totality”, per colpire con ordigni atomici le maggiori città sovietiche: peccato che anche l’URSS disponesse già di armi nucleari!

Poi, sin dagli anni ’50, contando sulle decine di migliaia di “rifugiati” ucraini (ex collaborazionisti banderisti scappati al seguito delle truppe tedesche e rifugiati in Canada e Stati Uniti) si erano definite le aree dell’Ucraina potenzialmente più adatte ad attacchi di forze speciali occidentali, coadiuvate dagli ex banderisti.

Il resto, col nazionalismo ucraino purtroppo ben coltivato anche nelle alte sfere del PCU e tollerato finanche a certi livelli del PCUS (su questo giornale se ne è trattato molte volte e non è il caso di tornarci qui), è storia nota.

Poi è venuto il 1991.

Dunque, il terreno di scontro era stato scelto e approntato da decenni: l’Ucraina del più reazionario nazionalismo faceva quantomai al caso. L’URSS non esisteva più, ma, mutate le ragioni dello scontro, quel terreno rimaneva comunque il teatro bellico più “affidabile” per misurare le armi con Mosca.

E allora cosa diceva, in sintesi, Friedman qualche tempo fa? In un’intervista a Evrazija-Ekspert affermava di vedere molta instabilità nella regione euroasiatica, sia all’interno dei singoli paesi, sia nei rapporti tra stati, considerando la situazione di concorrenza tra India, Cina, Russia e USA.

Nel suo libro di una quindicina di anni fa, “I prossimi 100 anni”, Friedman prevedeva un incremento del territorio della Russia (Crimea e Donbass?), un conflitto con la Turchia e la trasformazione dell’Europa orientale, col prevalere della Polonia e il suo allargamento dal Baltico al mar Nero.

Friedman diceva di aver previsto il conflitto in Ucraina, ma non la vittoria russa: anzi, un suo declino. Parlava anche di una guerra, intorno al 2050, tra Turchia e Polonia con gli USA; insieme alla constatazione di un perenne pericolo di guerra nei Balcani, pronosticava che i «paesi dell’Europa orientale diventeranno il perno della regione, dopo la caduta dell’Unione europea, ma che ciò non significherà necessariamente la loro uscita dal controllo russo».

Il sogno del capitale USA di una definitiva sottomissione europea, accompagnato però dal perenne incubo anglosassone del colosso russo? Chissà.

La previsione bellica di Friedman è che la futura «guerra mondiale scoppierà alla metà del XXI secolo: più o meno a cento anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Polonia, Turchia e Giappone in alleanza con gli USA nel ruolo di egemone mondiale, si scontreranno per il controllo degli Oceani e dell’Eurasia».

Lasciamo al signor Friedman il lusso di permettersi tali pronostici, con cui si continua a instillare l’assioma di una perenne “egemonia mondiale” a stelle e strisce. Nel nostro piccolo, crediamo che la situazione immediata, con i vassalli europei degli USA decisi a inviare sempre nuove e sempre più micidiali armi alla junta di Kiev – per “difendere la democrazia” nazigolpista – imponga ai comunisti il più forte impegno, almeno per far andare di traverso l’ingordigia di profitti dei colossi produttori di armi.

Oggi, non si tratta (ancora) di “rivolgere le armi contro la propria borghesia”, come predicava Karl Liebknecht oltre cento anni fa (non ce ne sono le condizioni: a differenza del 1916, i rapporti di classe non sono a vantaggio della classe operaia e un’organizzazione politica in grado di modificarli è purtroppo ben lontana all’orizzonte); ma si può ben mobilitarsi, quantomeno, per far vacillare le presunzioni di potenza e di “sicurezza nella vittoria” di governi al servizio del padrone americano.

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