Se ci sono mai state delle elezioni chiare, queste si sono palesate nell’ultimo weekend. Meno del 40% degli aventi diritto ha esercitato quella facoltà. Significa, detto brutalmente, che quasi i due terzi della popolazione adulta ritengono ormai superfluo partecipare a questo rito.
Per manifesta inutilità.
Sulle ragioni di questo distacco tra popolo e “politica” si possono ascoltare molte “narrazioni” diverse, ma nessuna analisi politica e sociale. Perché uno sforzo serio di analisi porterebbe piuttosto velocemente alla conclusione inevitabile: cosa voto a fare se non serve a cambiare qualcosa?
Sia detto pacatamente: questa impossibilità di cambiare con il voto le scelte politiche implica la delegittimazione radicale dell’assetto istituzionale che continuiamo perversamente a chiamare “democrazia parlamentare”.
In quello schema, ormai puramente teorico, i più vari interessi e bisogni della popolazione vengono “rappresentati” da forze politiche che, in ragione dei voti presi e quindi dei seggi conquistati (a qualsiasi livello istituzionale), traducono quegli interessi in leggi, decreti, ordinanze, misure amministrative.
Così non è più. Ormai da decenni, ammesso e non concesso che sia mai stato integralmente vero. Anche nel passato remoto quella “traduzione” era difficile, contrastata, mediata, ostacolata da interessi potenti, intoccabili ed indicibili (alleanze internazionali e poteri economici, in primis).
Ma in qualche misura, con una fortissima spinta conflittuale e al prezzo di molto sangue, qualcosa poteva essere effettivamente cambiato. È la storia dello Statuto dei lavoratori, della sanità pubblica, del diritto al divorzio e all’aborto, alla pensione in età umanamente accettabile, ecc.
Poi il meccanismo è stato interrotto. Per decisione presa fuori e sopra i livelli istituzionali condizionabili con il voto popolare. Gli accordi di Maastricht e l’operazione “Mani pulite” sono stati contemporanei.
I primi sottraevano agli Stati – e dunque ai Parlamenti – il potere di decidere sulle politiche di bilancio (ossia sull’utilizzo della ricchezza prodotta). La seconda eliminava i partiti nati nel dopoguerra, certamente divorati dalla corruzione, ma altrettanto certamente “orientati” a visioni di società tra loro differenti, in corrispondenza di interessi sociali diversi.
Poi è stato tutto un “fluire” verso identità indeterminate e “narrazioni” orientate dai sondaggi, mentre gli interessi scomparivano schiacciati da politiche economiche sempre determinate da istituzioni sovranazionali inarrivabili, tanto dal voto quanto dalle manifestazioni fisiche del dissenso di massa.
L’astensionismo è andato crescendo su quest’onda di qualunquismo istituzionale. Se chiunque vinca farà le stesse cose – demolire le pensioni, la sanità pubblica, scuola e università, fino a benedire di nuovo la guerra – a che serve votare?
L’oggetto del contendere politico è diventato “minimo”. C’è chi vota per ragioni clientelari, chi per ragioni corporative, ma sempre meno per ragioni politiche generali. Lo smarrimento dell’identità fondata su un interesse sociale chiaro lo si può misurare su quegli operai che votano a destra non perché credano che questa farà qualcosa di positivo su salari e pensioni, ma magari solo per cacciare migranti o rom dai loro quartieri abbandonati al degrado da quegli stessi poteri che ora vengono invocati come “giustizieri”.
La “tenuta sociale”, una volta eliminate le politiche di welfare, viene subappaltata alle polizie. E c’è pure qualche imbecille che si ritiene “di sinistra” che plaude al ristabilimento dell’”ordine”...
Politica e società non si parlano più, perché la scelta (l’essenza di qualsiasi politica) è sottratta a monte. Il voto non cambia nulla, dunque non serve. O meglio: serve a chi ha qualcosa da chiedere e ottenere in cambio, purché rigorosamente di basso livello (una concessione, un appalto, un condono, uno sconto fiscale, un lavoretto, ecc).
Che la destra post-fascista – o dichiaratamente nostalgica – vinca in queste condizioni è “normale”. Se non c’è altro da sperare che mantenere privilegi minimi, beh, un manganello torna più utile che un diritto sociale. E quelli “civili”, è comprovato, interessano davvero solo i diretti interessati, più qualche anima ancora non corrotta. Ma che non fa massa critica...
Qui, naturalmente, non si sta argomentando a favore dell’astensionismo sistematico. Si sta prendendo atto che questo gioco non solo è “truccato” (tutti i tg e i giornali hanno sempre presentato solo tre concorrenti, sia in Lazio che in Lombardia), ma è inutile rispetto allo scopo che sarebbe fondamentale in una competizione elettorale: eleggere dei rappresentanti per cambiare o almeno condizionare le scelte politiche.
Si può decidere di partecipare lo stesso, magari solo per far sapere che c’è un’alternativa ancora in gioco. Ma poi è inutile stracciarsi le vesti se “i risultati” sono quelli che sono.
Tutto ciò per dire che, per la sinistra radicale, una stagione è definitivamente tramontata. Ossia quella in cui circoli sempre più ristretti (e anziani) di iscritti si attivavano solo in vista di una tornata elettorale, scervellandosi e dilaniandosi su quale fosse la combinazione migliore (la meno peggio...) per “eleggere”. Ad ogni elezione uguale, come se le precedenti non potessero insegnare mai nulla.
I fatti dimostrano che nessuna combinazione (collaterali al PD o al M5S, utilizzare il residuo appeal della falce e martello, unire le forze disponibili) risponde più a quell’obiettivo (“eleggere”).
Da oggi converrà misurarsi su quel che si fa, politicamente e socialmente, ogni giorno. Su come si lotta, ci si unisce, ci si misura, ci si rafforza.
Perché – a prescindere persino dall’utilità o meno del presentarsi ad una certa elezione – in quel tipo di scadenze si raccoglie quel che si è seminato fin lì. E se non si fa granché, per mesi o per anni, non ci sarà niente da raccogliere.
Come si vede...
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento