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27/02/2023

Palazzo Chigi sulla tragedia in Calabria: tra imbarazzo, cinismo e menzogne

Dopo il naufragio in Calabria non ci sono parole per commentare l’ennesima tragedia evitabile, seppure un commento ambiguo della Premier non sia mancato: è da troppo tempo che le destre portano avanti una retorica anti-immigrazionista e xenofoba costruita ad arte con il puro scopo di ricevere consenso politico, ma ci si appella alla non-speculazione sulle tragedie altrui quando fa comodo come facciata istituzionale.

Ai tempi, il sociologo Alessandro Dal Lago definiva come tautologia della paura questa serie di meccanismi contraddittori volti alla costruzione della figura dello straniero in chiave negativa, che si diffondeva dai discorsi dei politicanti anche attraverso la complicità dei mass media, che affinavano nel tempo un certo tipo di lessico.

Sono infatti anni ormai che si sente parlare dei cosiddetti barconi che arrivano in Italia, come sono anni che ONG e associazioni continuano imperterriti a soccorrere vite in mare, nonostante i continui impedimenti che gli ultimi governi hanno posto e continuano a porre ai così chiamati taxi del mare.

Il più recente di questi impedimenti è stato quello del rientro obbligato delle navi in mare dopo il primo soccorso, e la designazione di porti sicuri più lontani dalla Sicilia semplicemente per rallentare di giorni le operazioni delle ONG di mare.

Che ‘il governo è impegnato a impedire le partenze’ lo abbiamo capito da anni, ma abbiamo anche capito che non ci riesce a volte perché non vuole, per il semplice fatto che l’immigrazione rappresenta un elemento negoziale a livello geopolitico europeo e oltre.

Se pensiamo al 2015 infatti, anno della cosiddetta crisi migratoria, il governo Renzi aveva ricevuto una mora dall’Unione Europea per non aver registrato le impronte digitali dei migranti in entrata, atto che avrebbe vincolato la richiesta di asilo al paese nostrano.

Ai tempi, il commento dell’allora Premier fu quello di ribattere dicendo che i programmi di Relocation non stavano funzionando, suggerendo quindi che questa deresponsabilizzazione nel non prendere le impronte digitali fosse voluta.

In contemporanea però, l’adozione dell’approccio hotspot in Italia e Grecia voluto dall’Europa funse da strategia attraverso la quale gli agenti di Frontex potevano monitorare l’operato delle forze dell’ordine italiane, assicurandosi quindi che le impronte venissero registrate.

Il governo Conte I, e il suo ministro dell’interno, approvarono i decreti sicurezza, che ebbero impatti negativi sulle vite dei migranti ma sempre in maniera strategica. Con la riduzione delle forme di protezione e il filtraggio di coloro che potevano accedere alle varie strutture di assistenza, il numero di persone illegalizzate aumentò, dando così modo al soliti politicanti di speculare sui clandestini scoperti senza documenti.

A questi decreti, si aggiunse un altro elemento importante, ossia la volontà dello stesso ministro dell’interno di non partecipare ai lavori per la rielaborazione del trattato di Dublino, il sistema che vincola i migranti al territorio di primo ingresso fra gli Stati firmatari del patto (Paesi UE più Svizzera, Norvegia e Islanda).

Nonostante le varie dichiarazioni e teorie su questa scelta, una domanda sorge spontanea: ma perché un governo dovrebbe andare a modificare delle regole che lo sfavoriscono solo su carta? Nella pratica, i migranti che passano per gli hotspot – e quindi quelli registrati – sono quelli che vengono portati dalle ONG, e che corrispondono ad una media del 10% dei flussi in entrata.

Sappiamo bene che i migranti non vogliono rimanere in Italia: qual è l’interesse del governo nel vincolarli qui?

Questo flusso incriminato come illegale, in realtà, si compone di una serie di prassi formali e informali, in puro stile italiano, e che viene confermato dagli spazi grigi in uscita legittimati nelle zone di frontiera, Ventimiglia fra tutte. Perché modificare quindi un patto con il quale si perderebbe anche potere negoziale?

Se pensiamo invece ai rapporti Italia-Libia, ci rendiamo conto di una situazione paradossale e imbarazzante quando pensiamo alle parole della Premier, ma non sia mai andare a scardinare la coerenza delle destre che, sin dal governo Berlusconi nel 2009, finanziano lager, torture, schiavitù e stupri in Libia, poi continuati con la complicità delle sinistre.

I commenti della Premier sul rispetto della vita quindi non solo lasciano il tempo che trovano – soprattutto dopo la recente visita nel paese libico e la promessa di continuare a “lottare assieme contro l’immigrazione clandestina” – ma sono irrimediabilmente fuorvianti nel momento in cui si dichiara di muovere una guerra contro il traffico di migranti.

Seppur nessuno neghi l’esistenza del traffico di esseri umani come un processo violento di sfruttamento sulle sofferenze altrui, c’è anche bisogno di iniziare a sdoganare l’idea del trafficante con sola accezione negativa: i motivi per il quale si facilita i migranti ad intraprendere questi viaggi sono diversi, come diverse sono le figure che vengono classificate come trafficanti quando trafficanti non sono.

A volte, i cosiddetti smugglers sono persone che facilitano il passaggio delle frontiere sulla base di un sentimento reciproco di solidarietà, come il film le nuotatrici ci ha recentemente ricordato. Altre volte, la persona che viene identificata come trafficante o scafista è quella che si ipotizza abbia guidato il barcone, volutamente ignorando il fatto che la maggior parte delle volte chi viene messo alla guida del barcone è un disperato come gli altri, e scelto dai trafficanti libici o su base nazionale (ad esempio i senegalesi poiché popolo di pescatori) oppure in maniera totalmente randomica, rischiando quindi di mettere alla guida persone inesperte.

Come se questo non bastasse, sappiamo anche che i veri trafficanti e le milizie libiche sono in comunicazione fra di loro, e quindi il traffico non è poi così contrastato come ci si auspicherebbe.

Geopoliticamente parlando, questi investimenti ci rendono solo soggetti al controllo della Libia, che acquista sempre più potere negoziale ed economico in due modi: uno, punendo fisicamente i migranti nei lager finché non sono in grado di pagare per il loro rilascio; due, nei tavoli diplomatici con l’Italia attraverso la potenziale minaccia che i libici permettano ai barconi di uscire.

Per chiudere, sempre commentando le parole di Giorgia Meloni, si vorrebbe ricordare che i migranti sono coscienti che il viaggio non sia mai sicuro, e che la frontiera del mare è solo una delle tante che vengono attraversate nell’odissea compiuta per entrare in Europa, soprattutto quando le frontiere sono esternalizzate fra patti unilaterali internazionali e/o comunitari (si veda Libia, Turchia, Tunisia e Serbia).

Più le frontiere si inaspriscono, e più aumenta la speculazione sui migranti. Ribadiamo a gran voce che il viaggio sicuro è uno solo: quello senza frontiere.

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