Se c’è una persona che conosce come le proprie tasche la realtà russa come quella americana, questa persona è l’ambasciatore Sergio Romano. Nella sua lunga e prestigiosa carriera diplomatica, è stato, tra l’altro, ambasciatore presso la Nato e ambasciatore a Mosca (1985-1989), nell’allora Unione Sovietica.
24 Febbraio 2022-24 Febbraio 2023. Un anno di guerra. Doveva essere un blitzkrieg si sta invece rivelando una guerra di logoramento. Una guerra infinita. A che punto siamo?
Credo che anzitutto bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni per cui questa guerra è scoppiata e quali sono le motivazioni che tendono a farne un conflitto quasi inarrestabile. Tenga presente che in questa guerra c’è una forte componente antirussa. In altre parole, è una guerra contro la Russia. Non è presentata come tale per una serie di ragioni, alcune giustificabili altre no, ma il Nemico c’è e per tutti quelli che sono impegnati nel conflitto quel Nemico è la Russia.
Naturalmente la Russia si difende. Quelli che maggiormente hanno desiderato una guerra contro la Russia non hanno ottenuto, quanto meno per il momento, i risultati che speravano. La Russia si difende con una certa efficacia e a questo punto è diventato estremamente difficile per coloro che la desiderano e l’hanno desiderata mettere fine al conflitto.
Perché Ambasciatore Romano?
Perché ne va della loro sorte politica. Non dimentichiamo che anche le guerre hanno delle persone dietro, persone che su quelle guerre molto spesso hanno giocato il loro futuro.
Il suo ultimo saggio ha come titolo La scommessa di Putin. Russia-Ucraina, i motivi di un conflitto nel cuore dell’Europa. Le chiedo: qual è la scommessa di Putin in questa vicenda?
Putin avrà anche delle ambizioni legittime, è un uomo di Stato. Ma la cosa più importante è che in questa vicenda sta giocando se stesso. E questo è molto pericoloso essendo persona autorevole nel suo Paese. L’unica possibilità di mettere fine alla guerra temo sia mettere fine a Putin. Brutte parole, mettere fine, ma la sostanza è questa.
Ambasciatore Romano, lei conosce come pochi altri la realtà russa. Ritiene che l’eventuale fine di Putin apra davvero la strada in Russia ad una stagione di democrazia o potrebbe anche esservi del peggio?
Io credo che l’assenza di Putin creerebbe un vuoto che molti cercheranno di riempire. In Russia esiste una corrente democratica. È una corrente che non è riuscita ad affermarsi sufficientemente sinora ma che certamente cercherebbe nella scomparsa di Putin di esercitare un ruolo nazionale.
A un anno dall’inizio ufficiale del conflitto che Europa si presenta a questa triste ricorrenza?
A me sembra che l’Europa non abbia cercato di assumere un ruolo. Non era facile, questo va riconosciuto, mettere d’accordo un numero di Paesi sufficienti per agire con efficacia. Un gruppo di Paesi indispensabile per avere un ruolo nel post-Putin. Temo che non ci sia.
E qui purtroppo dobbiamo constatare che l’Ue in questa vicenda non ha avuto un ruolo. Era l’Ue che avrebbe dovuto esercitarlo. Perché rappresenta il gruppo di Paesi che maggiormente sono coinvolti nella vicenda e maggiormente ne soffriranno le conseguenze. Francamente non mi pare che l’Europa sia stata all’altezza delle nostre speranze, delle nostre attese, delle sue potenzialità.
E in tutto questo, l’Italia?
L’Italia non può far nulla da sola. Qualche tentativo c’è stato. Mi è parso, ad esempio, che Draghi avesse delle idee piuttosto chiare e anche qualche ambizione. Peccato che queste ambizioni non si siano materializzate.
Un tema sempre all’ordine del giorno è quello delle sanzioni. Molto si discute sugli effetti reali che hanno avuto nell’indebolire la Russia e Putin.
Sul piano economico hanno certamente avuto un impatto ma non nelle dimensioni sperate da coloro che l’hanno più fortemente volute. E poi c’è un altro discorso da fare che riguarda la psicologia di una nazione. Le sanzioni hanno alimentato un patriottismo russo anche dove non c’era. Gli americani sono convinti che le sanzioni servano a impedire una connivenza economica tra Europa e Russia.
Nel suo discorso al Castello di Varsavia, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha rivendicato con orgoglio come un importante risultato di questo anno di guerra l’allargamento della Nato a più di cinquanta Paesi. È una medaglia questa?
Questo mi sembra essere un altro modo di fare la guerra alla Russia. Perché parlare di Nato significa parlare di Russia. Tanto tempo fa, dopo la firma del Patto Atlantico, a quei tempi ero un giovane funzionario del ministero degli Esteri, ho creduto all’utilità della Nato. Poi mi sono reso conto col tempo che alla fine della guerra fredda abbiamo perso l’occasione della convivenza tra Paesi che avevano culture diverse.
Gli Stati Uniti hanno aperto le battaglie della guerra fredda. Ho l’impressione che avessero bisogno di un nemico per continuare ad essere vincitori. Il potenziale nemico è stata l’Unione Sovietica.
Ad un certo punto ha prevalso, nell’élite politica e diplomatica militare degli Stati Uniti, la convinzione che c’era un mondo che si era liberato della Russia, ciascuno di quei Paesi ex-satelliti aveva bisogno di essere aiutato per sviluppare la propria economia, per sviluppare il proprio Stato, per modernizzarlo e allora si sono detti “aiutiamoli e inseriamoli nel quadro di un’alleanza”, che è egemonizzata dagli Usa, la Nato.
Allora hanno accolto uno dopo l’altro tutti i Paesi fino alle vecchie frontiere dell’Unione Sovietica, sono andati oltre le frontiere di questa, con i paesi del Baltico e, se ci fossero riusciti nel 2008, avrebbero fatto lo stesso con la Georgia e l’Ucraina.
Ora la Nato è considerata un’alleanza. Certo lo è ma è sui generis, non come quelle del passato. Le alleanze ottocentesche erano promesse reciproche: ci aiuteremo se abbiamo lo stesso nemico e soprattutto diamoci una mano anche in altre cose.
La Nato è un’alleanza politica e militare in cui esiste un esercito permanente integrato, esiste un comando militare che lavora h24 con un comandante supremo che è in realtà un capo di stato maggiore, di tutti i Paesi che ne fanno parte, ma è sempre americano.
Questo capo di stato maggiore fa esattamente quello che fanno tutti quelli che stanno al suo livello: preparano la prossima guerra. Per farlo bisogna innanzitutto sapere con chi farla. E allora bisogna che ci sia il nemico, e guarda caso l’establishment militare americano non rinuncia a quel nemico. Non ha intenzione di rinunciarci. E quel nemico è la Russia.
Continuare a dire che la Nato è un’organizzazione pacifica in cui si studia il mondo, si fanno studi, non mi sembra che si possa dire. Mi sembra anche ipocrita cercare di farlo credere.
Restando sulla “super Nato”. Quello di Biden è anche un messaggio rivolto alla Cina?
Non saprei dire se è anche un messaggio indirizzato a Pechino. Non mi sorprende che gli Stati Uniti continuino a considerare la Russia un rischio, un pericolo, un Paese che potrebbe a certo punto ridiventare un rivale importante. C’è una parte della società politica americana che ragiona ancora come se il rischio russo potrebbe esserci ancora. È quella parte degli Stati Uniti che vorrebbe che l’America avesse ruolo ancora più elettivo di quanto già non abbia.
Nel discorso di Varsavia, Biden ha toccato le corde della democrazia, dei valori condivisi dal mondo libero che oggi si oppone alla guerra di aggressione russa all’Ucraina. Siamo ad una riedizione di quella “guerra di civiltà” di irachena memoria?
Io credo che gli Stati Uniti siano in un certo senso convinti che il ruolo storico che hanno avuto per una larga parte del ‘900 e che ha permesso di avere una posizione internazionale da difensori della libertà, possa essere perpetuato. Stanno rifacendo un po’ quello che hanno tentato, spesso con successo, con le guerre che hanno vinto, nelle quali hanno incarnato la funzione dei difensori della libertà.
Lei ha definita quella in atto una guerra alla Russia. Sarà una guerra infinita?
Di guerre infinite non ne conosco. Conosco delle guerre a singhiozzo, in cui ci sono fasi di relativa pace, o di pace anche, ma poi i vecchi i problemi, i vecchi dissidi, le vecchie ostilità alla fine ritornano sulla scena.
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