di Francesco Dall'Aglio
La decisione della Corte Penale Internazionale di accusare (non condannare, come ho già letto in giro) Putin non ha, al momento, conseguenze pratiche.
La Russia non ha ratificato lo Statuto di Roma che lo istituisce e disciplina, come non lo hanno fatto gli USA (che il 1 settembre 2020 hanno imposto sanzioni contro la giudice Fatou Bensouda e uno dei direttori della Corte, Phakiso Mochochoko, per avere avviato un’indagine sui crimini di guerra statunitensi in Afghanistan e sui crimini israeliani in Palestina. Le sanzioni sono state rimosse il 1 aprile dell’anno successivo, ma a giugno Bensouda ha lasciato la carica ed è stata sostituita dal britannico Karim Khan. Le indagini sull’Afghanistan o sulla persona non sono proseguite), la Cina, Israele o l’Ucraina, e la Corte Penale non ha alcuna possibilità di obbligare uno Stato a consegnare un suo cittadino.
Questa accusa, però, complica la posizione di Putin. Non tanto dal punto di vista morale, quanto perché rischierebbe l’arresto, almeno in via teorica (faccio fatica a immaginare le circostanze in cui la cosa potrebbe avvenire, ma appunto teoricamente la cosa potrebbe accadere) se si recasse in Paesi che hanno ratificato lo Statuto – come ad esempio il Sudafrica, dove sembra abbia intenzione di andare in futuro – in un ulteriore tentativo di isolarlo diplomaticamente, stavolta mettendo in campo il diritto internazionale, dopo che i precedenti sono più o meno falliti.
Complica anche le eventuali trattative per la pace in Ucraina, e questo non tanto perché, come scrivono i nostri giornali, chi decidesse di trattare con Putin (come Xi Jinping, che andrà a trovarlo a Mosca il 20) sarebbe “squalificato”, ma perché è ovvio che un accusato per crimini contro l’umanità non può essere considerato un interlocutore credibile dall’Occidente, anche se lo stesso Occidente, o almeno chi lo guida, non riconosce l’autorità della Corte, come Biden ha dovuto ammettere ieri (o come Stephen Hadley, consigliere per la sicurezza nazionale di Bush, che intervistato due giorni fa da Christiane Amanpour ha parlato di “terrible mistakes” commessi in Iraq, tra cui Abi Grahib, mai di crimini).
L’unica possibilità per cui Putin possa finire alla Corte è che sia il governo russo a mandarcelo, come il governo serbo fece con Milošević. E ovviamente questo governo non ce lo manderebbe mai, per la semplice ragione che è guidato da Putin stesso.
Par di capire che l’obiettivo finale resti, quindi, un cambio di governo in Russia. Se è davvero questo significa che non c’è alcuna prospettiva di chiudere il conflitto in Ucraina per via diplomatica.
P.S. Certo, l’obiezione che viene subito alla mente è che la Corte Penale Internazionale non è guidata né da Washington, che appunto nemmeno lo riconosce, né dalla NATO. È un’obiezione più che legittima.
Però pare strano che la Corte non sia finora intervenuta in nessun conflitto a guida occidentale (al momento i processi riguardano crimini commessi nella Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Uganda, Sudan, Kenya, Libia, Costa d’Avorio, Mali e Burundi. Unico paese non africano la Georgia) e abbia sanzionato, in questo caso, non solo chi avrebbe materialmente condotto le deportazioni di minori (Maria Lvova-Belova) ma direttamente Putin.
Le implicazioni diplomatiche della cosa non credo possano sfuggire a chi ha composto l’atto di accusa, soprattutto se consideriamo che il 28 febbraio ha incontrato Zelensky a Kiev.
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