Dopo 15 anni una banca statunitense di discrete dimensioni – la Silicon Valley Bank, la ventesima degli Usa – fallisce in una notte o giù di lì.
Il 2008 viene ricordato per il tracollo di Lehmann Brothers, la quarta banca d’affari del mondo, ma erano stati moltissimi gli istituti di grandi, medie e piccole dimensioni che avevano dovuto fare altrettanto.
Allora si era creata una “bolla” finanziaria anche a causa della pratica bancaria di inventare prodotti finanziari “derivati”, costruiti con la partecipazione ad altri prodotti finanziari che dovevano funzionare da “sottostante”. Una pratica così estesa da raggiungere – fu calcolato – un valore pari a 11-12 volte il prodotto interno lordo di tutto il pianeta.
Ricchezza fittizia, denaro “costruito” su formule matematiche, ma che pretende comunque una “valorizzazione”. Dunque un utilizzo, ovviamente speculativo.
Allora lo spillo che bucò la “bolla” furono i mutui Usa chiamati subprime (non di prima categoria, diciamo), che venivano concessi anche a chi non possedeva un lavoro, un reddito, un patrimonio che potesse fare da garanzia al debito contratto. Passarono perciò alla storia economica come mutui ninja (not income, not job, not asset).
Stavolta la situazione è simile, anche se le ragioni sono diverse. Per anni le banche centrali hanno “iniettato liquidità” nel sistema finanziario, partendo proprio dalla necessità di fermare – dopo il 2008 – i fallimenti a catena provocati dall’esistenza di migliaia e migliaia di “prodotti” che non potevano più essere venduti perché nessuno li voleva.
Tutta questa liquidità è stata regolarmente assorbita dalle banche private, che l'hanno usata per le proprie operazioni (speculative e non), senza lasciar “sgocciolare” (secondo la teoria neoliberista chiamata trickle-down) quasi nulla verso l’economia reale.
Uno degli utilizzi classici è l’acquisto di titoli di stato “sicuri”, ed ovviamente quelli statunitensi (i Treasury bond) sono considerati dai mercati al top. Dunque le banche Usa sono quasi tutte piene di questi bond. Tutti contenti...
I problemi sono sorti quando l’inflazione ha ripreso improvvisamente a mordere. Prima della guerra in Ucraina, ma ovviamente e soprattutto dopo, quando sono esplosi i prezzi delle materie prime energetiche (gas e petrolio) e poi, a catena, tutte le altre.
La risposta della Federal Reserve – la banca centrale Usa – è stata quella classica prevista dai manuali del monetarismo: alzare drasticamente i tassi di interesse, in modo da “raffreddare” le spinte all’aumento dei prezzi, anche a costo di ridurre in questo modo la richiesta di prestiti e dunque l’attività economica in generale (sia finanziaria che reale).
Mossa teoricamente corretta, ma con il “piccolo” difetto di far aumentare anche i rendimenti dei titoli di stato (e delle obbligazioni in genere), ossia di farne scendere il prezzo di mercato.
È quello che possono verificare anche i piccoli risparmiatori italiani che hanno investito magari la propria liquidazione in bot o btp (titoli di stato italiani), e oggi – ma solo se fossero obbligati a vendere velocemente quei titoli – si ritrovano con un patrimonio di valore ridotto rispetto a un anno fa.
Le banche, specie se molto grandi, possono sopportare benissimo questa teorica riduzione di valore dei titoli di stato, che è comunque temporanea (mesi o anni, fa comunque differenza) perché mal che vada possono tenere quei titoli fino alla data di scadenza. Quando, cioè, “l’emittente” (lo Stato) dovrà rimborsare la cifra piena (generalmente 100 dollari, o euro, per ogni titolo) qualsiasi sia il “”prezzo di mercato” in quel momento.
Ma anche le banche possono trovarsi di fronte a esigenze di liquidità immediata, ed essere quindi costrette a vendere titoli di stato a un prezzo inferiore rispetto a quello pagato inizialmente. A quel punto devono “capitalizzare le perdite”, ossia trasformare in concreta perdita quello che era semplicemente un segno meno su una riga di bilancio.
È, in parte, quello che è accaduto alla Silicon Valley Bank. Che era, come dice il nome, l’istituto specializzato nella clientela hi-tech, che fino al 2021 l’aveva riempita di liquidità e depositi (impiegati poi dalla Svb per acquistare Treasury).
La pandemia e la progressiva frammentazione del mercato mondiale, l’inizio della guerra e delle “sanzioni” anti-russe (e anti-cinesi, specie nei settori tecnologici) hanno ridotto i profitti delle big della Silicon Valley, costrette a quel punto a licenziare dipendenti a migliaia.
Dipendenti che spesso, a loro volta, erano clienti della Svb... E quando uno viene licenziato – specie negli Usa, e specie se abituato ad un certo livello di benessere – deve dar fondo ai propri risparmi. Svuotando progressivamente il conto corrente...
Società tecnologiche ed ex dipendenti hanno fatto contemporaneamente le stesse mosse, mettendo Svb nella condizione di dover vendere parte dei proprio “portafoglio obbligazionario” e realizzare perciò sostanziose perdite: 1,8 miliardi di dollari.
Qui la catena della disgrazie che si mette in moto è nota e potenzialmente infinita. Se se si vende sottocosto qualcosa, va registrato a bilancio come perdita. Se il bilancio mostra perdite, più che profitti, il valore azionario della banca comincia a scendere.
Ci si aggiungono – come sempre – le “furbate” di qualche manager che sceglie di non affondare insieme alla sua nave, e quindi vende il suo pacchetto di azioni prima che svaluti troppo. Ma proprio questo fa scattare l’allarme degli “investitori professionali”, che cominciano a vendere a valanga le azioni Svb: -60% in un giorno.
A quel punto il Dipartimento per la protezione e l’innovazione finanziaria della California ha chiuso la banca e l’ha posta sotto il controllo della Federal Deposit Insurance Corporation, la Fdic.
La situazione è comune a quasi tutte le banche Usa, dicevamo. E quindi il “rischio contagio” esiste, eccome... Oggi come nel 2008 la voragine che si apre sotto i piedi dipende dalla abnorme “finanziarizzazione” del sistema, ovvero da un rapporto quasi inesistente – nell’Occidente neoliberista – tra produzione reale di ricchezza e “creazione di denaro”.
Janet Yellen, ex presidente della Federal Reserve e attuale ministro dell’economia, davanti alla commissione del Congresso, ha precisato di star «monitorando molto attentamente» la situazione, perché «quando le banche subiscono perdite finanziarie è motivo di preoccupazione».
Di certo le grandi società della Silicon Valley non avranno problemi a trovare “conforto” in banche altrettanto grandi (Godlman Sachs, JPMorgan, ecc.). Ma le società più piccole, e soprattutto le start up, faticheranno a raccogliere prestiti e finanziamenti per andare avanti o svilupparsi.
Anche perché le banche più piccole sono spesso state obbligate a promettere tassi di interesse più alti, o commissioni più vantaggiose, pur di accaparrarsi clienti. Ogni singola mossa, a questo punto, verrà scrutata da tutti i protagonisti del risiko bancario, un po’ come ne Il buono, il brutto e il cattivo.
Ma se qualcuno apre il fuoco, non si salva quasi nessuno...
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