Ultimamente sono usciti in rete una serie di approfondimenti e interviste che si concentrano su ciò che rappresenta il tentativo di strutturazione economico-produttiva della Rojava. Non possiamo che interrogarci su cosa significhi creare una società diversa, oltre le parole d’ordine di “Ecologismo, lotta allo sfruttamento e ruolo attivo delle donne”, oltre le immagini delle guerrigliere curde che campeggiavano sui giornali o condivise entusiasticamente sui social network. Perché se da internazionalisti, da anticapitalisti, non possiamo che guardare con interesse ad esperienze come il Kurdistan in lotta, non possiamo permetterci però di tifare in modo acritico e sterile, di mettere da parte l’analisi concreta della situazione concreta. Che le esperienze che prendono vita in giro per il mondo possano essere fonte di crescita collettiva politica: che possano essere messe in discussione per metterci in discussione e viceversa. Senza paura, senza timore. Senza che questo precluda la solidarietà per chi è oppresso dalle politiche imperialiste. Qui un tentativo di mettere in fila una serie di informazioni e considerazioni che possano essere spunto di riflessione e di dibattito.
Per quanto riguarda la realizzazione più strettamente sociale e politica, esistono una serie di contributi molto interessanti sul web che girano già da un po’ (vedi in fondo al testo). Ci concentreremo qua invece sull’aspetto economico.
C’è da dire che la Rojava costituiva circa il 50-55% del Pnl siriano con il 20-25% della popolazione. Il territorio curdo è uno delle aree più fertili della Siria. Si tratta di un’economia fortemente basata sull’agricoltura e in parte sul bestiame: il cantone di Afrin è famoso per l’olio di oliva, quello di Kobane per la coltivazione di grano e cotone, quello di Cizire in particolare per le fonti energetiche quali petrolio, gas naturale, ecc. Poiché ognuno è caratterizzato da una propria “specialità”, si è teorizzato una sorta di sviluppo bilanciato che integri le economie dei tre cantoni. Si tratta di un’economia “della comunità” il cui atomo dovrebbe essere costituito dalle cooperative istituite in ogni settore: commerciali, di costruzione, di società ecc. interrelate in un network capace di ridurre al minimo l’utilizzo della moneta. Basato su un interscambio produttivo, di divisione del lavoro. In queste cooperative tutti avrebbero diritto a una quota dei beni prodotti.
Per questo si sta tentando di avviare la costruzione di serre, di mulini, di caseifici: esistono già aziende per fornire i contadini di semi ma serve anche gasolio per le macchine agricole. La questione del petrolio e delle risorse energetiche è molto importante: si punta alla creazione di aziende per raffinare le materie gregge e produrre i prodotti finali. Produrre diesel ad esempio costa meno dell’acqua: con 25 centesimi di Lire siriane viene prodotto un litro di questo contro solamente mezzo litro di acqua. Nel cantone di Cizire ci sono numerosi giacimenti petroliferi ma solo alcuni di essi sono attivi per il fabbisogno locale. Commerciare con l’esterno rappresenta un problema nel momento in cui paesi confinanti come la Turchia non solo ostacolano politicamente e militarmente l’esperimento della Rojava ma fanno accordi con la Russia in materia di fonti energetiche e comprano petrolio dall’Isis.
Alcuni rappresentanti delle istituzioni che si occupano di questioni economiche all’interno dell’autogoverno, in alcune interviste che riportiamo in fondo al testo, si lamentano della scarsità di investimenti esteri, diminuiti in tutta la Siria a partire dall’inizio del conflitto nel 2011. Questo crea un problema ad esempio per quanto riguarda l’investimento nelle infrastrutture per la quale necessità sono state create apposite imprese locali.
Chi dovrebbe decidere quanto produrre, cosa produrre e come distribuire? Prendendo le mosse da una feroce critica al socialismo reale e all’economia di pianificazione centralizzata, si risponde che sia le istituzioni dell’autogoverno ai piani più elevati, sia i comitati per l’economia sia le cosiddette “aziende” sarebbero coinvolte in questo processo che dovrebbe comunque avvenire su base locale. Per quanto riguarda le aziende, da chi sono costituite? Alcune sono e saranno private: ciò vuol dire che lavorano in collaborazione con l’autogoverno ma esso non ha controllo su di loro, bensì una sorta di rapporto di appalto. Ad esempio un’azienda petrolifera di Stato che possiede il petrolio greggio commissiona all’azienda la produzione di gasolio e infine la commissione energia decide quanto puro dev’essere il prodotto e come tariffarlo; si potrebbero fare esempi tecnicamente analoghi per il settore agricolo. Ma chi decide, in base a quali criteri e in quali settori è permessa l’esistenza di aziende private? Il resto delle aziende dovrebbero essere a proprietà e gestione statale.
Dobbiamo comunque considerare che si tratta ancora di un’economia di emergenza, di un paese in guerra in cui dilaga la povertà: si tenta un’opera di rioccupazione dei disoccupati in un deserto di sangue e macerie ma non è sempre possibile garantire una quota salariale. Il 70% del bilancio statale viene speso in difesa per Ypg, Ypj e Asayis, la guardia civile del Tev-Dem. Secondo alcuni dati la guerra costa circa 20 milioni di dollari americani ogni anno. La necessità di finanziare l’esercito, contrariamente alle teorizzazioni economiche sovracitate, costringono a centralizzare l’economia, per lo meno in questa fase “transitoria”. Il resto del bilancio viene speso in servizi pubblici e autofinanziamento per scuole, ospedali (ne esistono tutt’ora di privati), ecc. oppure per altre forme di stato sociale come la distribuzione del pane: ogni famiglia ha diritto a tre pani al giorno; ognuno costa 100 lire siriane ma viene venduto alla popolazione per 60 lire, per un totale di 20 milioni di lire spese così ogni mese. I beni saranno venduti a prezzo inferiore rispetto a quello di mercato corrente per influenzare il rapporto tra domanda e offerta ed evitare un rialzo dei prezzi come è successo per il pane qualche mese fa. I vari prodotti vengono al momento venduti dai vari corpi amministrativi locali o nel mercato dove il controllo dei prezzi è rinforzato su quelli considerati essenziali.
Ufficialmente l’autogoverno della Rojava ottiene i finanziamenti dalla vendita locale di prodotti petroliferi e per questo sarebbero già state costruite due raffinerie locali nazionali in via di perfezionamento. Un’altra parte di reddito dovrebbe venire dai valichi di frontiera, anche se non esiste ad ora una riscossione di tributi dal popolo tormentato dal conflitto e dalla miseria, anche se esistono patrimoni privati privilegiati scarsamente intaccati dalla guerra che potrebbero costituire un buon sostentamento pubblico. C’è anche chi vocifera di mercato nero e grigio di beni e traffici illegali non meglio identificati che per ora rimane però una semplice voce di corridoio.
Ad oggi, dunque, non vi è produzione di surplus capace di essere reinvestito per sviluppare l’economia: occorrerebbe investire in altri settori, creare imprese, costruire centrali elettriche (l’unica energia consumata al momento è garantita da generatori con combustibili), per produrre fertilizzanti agricoli per ora acquistati principalmente dall’Iraq. I rappresentanti delle istituzioni economiche dell’autogoverno auspicano investimenti esterni (è stata recentemente approvata una legge per favorire questo processo). Ma a quale prezzo per l’autonomia di governo?
In un recente articolo su un sito d’informazione sul Kurdistan è comparsa la formula che, a partire dagli scritti di Bookchin e non solo, dal municipalismo libertario e dalle evidenti impronte cooperativiste e comunitariste, tenta di riassumere l’approccio di politica economica al momento. Si parla di tre economie: 1) di comunità, riassunta dal livello delle cosiddette cooperative 2) di guerra 3) aperta, in termini di investimenti esteri. Si auspica l’esistenza di un’economia mista, la coesistenza di economia aperta e privata.
Restano aperte alcune incognite tutt’altro che secondarie. Per quanto riguarda il sistema bancario, dicono che l’unico capitale proibito è quello “finanziario”: non vogliono a quanto pare sviluppare vere e proprie banche statali ma sono in corso di creazione istituti finanziari per permettere il deposito dei risparmi. Per ora viene ancora usata la lira siriana ma in futuro si vorrà minimizzare al massimo l’uso della moneta. I prestiti vengono fatti senza interessi. Ma forse la questione più controversa rimane la concezione della proprietà privata: nella Carta del Contratto Sociale della Rojava c’è scritto che “ogni individuo ha il diritto alla proprietà, e nessuno può essere privato di un bene se non in conformità con la legge. Ciò può essere stabilito solo per ragioni di pubblica utilità o interesse, e in cambio di un giusto indennizzo”. Come afferma Dara Kurdaxi, economista e membro del comitato per lo sviluppo economico ad Afrin “il metodo della Rojava non è tanto contro la proprietà, bensì, vuole mettere la proprietà privata al servizio di tutti coloro che vivono in Rojava”. Tutto ciò apre una serie di spiragli di riflessione non indifferenti. Cosa ne sarebbe poi dei cosiddetti capitalisti residuali della precedente economia locale? La loro ricchezza non sembrerebbe stata redistribuita alla popolazione o tassata ed alcuni di essi farebbero anche parte dell’autogoverno. Al momento, poiché si parla di cooperative nascenti di piccole dimensioni e si predilige il lavoro secondo ramo familiare, non esistono veri e propri sindacati a parte qualche associazione di donne.
Quel che è certo è che il carattere in divenire di questo processo, sia che possa essere considerato rivoluzionario in termini di anticapitalismo e rottura con l’esistente inteso come modo di produzione capitalista, sia che possa essere considerato una strutturazione pluralistica democratica fortemente interclassista in senso liberale borghese, apre una serie di contraddizioni, alcuni quesiti che sebbene non trovano immediata risposta non possono essere ignorati e costituiscono un’importante fonte di dibattito.
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