La gravità di una crisi si può misurare anche da come alcuni pilastri del pensiero economico dominante – da tre decenni, non da poco – vengano ormai attraversati dal dubbio.
Il neoliberismo occidentale, in questo lungo periodo, è andato avanti schiacciando ostacoli (o provando a farlo), riproponendo sempre le stesse ricette anche quando il loro fallimento era palese. Privatizzazioni, riduzione del debito pubblico, lotta all’inflazione come unico obbiettivo della Bce (la Fed statunitense ne ha due, l’altro è un basso tasso di disoccupazione), austerità e taglio della spesa pubblica.
Ma il momento della verità arriva sempre. Un sistema che non funziona, visto dall’esterno o “da sotto” (da noi che ne subiamo le conseguenze), ad un certo punto si rivela disfunzionale anche per una parte dell’equipaggio seduto alla guida. Il quale, ovviamente, non ha alcuna intenzione di ritirarsi e cedere il volante a qualcun altro. Ma si rende conto che qualcosa bisognerà cambiare.
Questo articolo apparso sul quotidiano economico tedesco Handelsblatt – l’equivalente del nostrano Sole24Ore – dà conto degli infiniti dubbi che percorrono in questo momento la classe dominante in Europa, ovvero la grande borghesia multinazionale che ha tratto ogni possibile beneficio dalle “ricette” neoliberiste che conosciamo.
Dubbi che costringono addirittura a ripercorrere la Storia delle crisi precedenti, rovesciando alcuni giudizi che sembravano consolidati.
Per esempio sul debito pubblico e il suo finanziamento da parte delle banche centrali. Cosa ancora oggi formalmente vietata alla Bce – e contro le cui violazioni i rappresentanti tedeschi e olandesi si sono ferocemente battuti – anche se aggirata con i quantitative easing e le cosiddette politiche monetarie “non convenzionali”, rispolverate da Mario Draghi nelle vesti di presidente.
Ma persino dubbi sulla reale necessità di considerare sempre come un male la stessa inflazione, autentico incubo che in Germania viene associato al crollo della repubblica di Weimar e alla nascita del nazismo.
È curioso che nel ripercorrere quel momento e le sue ragioni l’editorialista Frank Wiebe dimentichi un elemento decisivo per spiegare l’incapacità/impossibilità dei governanti di Weimar di contenere l’inflazione entro limiti controllabili (si arrivò a un cambio di 4,2 miliardi di marchi per un dollaro, sicché per comprare un chilo di pane occorreva più di un chilo di banconote...).
Wiebe ricorda correttamente i “vincoli interni” che causarono quel disastro – la prima guerra mondiale era stata affrontata facendo, come sempre, una montagna di debiti e il sistema fiscale era sicuramente “antiquato” (e profondamente diseguale) – ma omette di nominare il “vincolo esterno” che aggravò lo squilibrio: il piano Dawes.
Ossia un maxi-programma di “riparazioni di guerra” che Francia e Gran Bretagna pretesero dalla Germania, comprendente non solo i danni arrecati ai civili, ma anche l’intero costo sopportato dai governi alleati per la prosecuzione della guerra, con l’ammontare di 132 miliardi di marchi oro (o Goldmark), da pagarsi a rate con l’interesse del 6%.
Una strategia che, non a caso, non fu ripetuta dopo la Seconda guerra mondiale, che invece segnò l’intervento del piano Marshall – finanziato anch’esso a debito – per favorire la ricostruzione dei paesi europei ed evitare così il risorgere di movimenti nazionalistici estremi.
L’omissione di Wiebe è tipica della cultura dominante in Germania, improntata ancora adesso alla logica per cui il debito è una colpa (si dice schuld in entrambi i casi), da espiare senza se e senza ma.
Del resto, lo stesso indebitamento della Germania pre-bellica aveva le stesse premesse del piano Dawes, come ricorda lo stesso Wiebe: “Il governo aveva finanziato la guerra mondiale tramite crediti che in seguito avrebbero dovuto essere ripagati con le riparazioni degli avversari sconfitti”.
Persa la guerra, fu la Germania a dover pagare i debiti contratti anche dai nemici... Di fatto, un piede sul tubo dell’ossigeno che aggravò l’asfissia dell’economia tedesca e, soprattutto, del bilancio dello Stato.
Una condizione cui è stata costretta un po’ tutta la “comunità europea”, sottoposta al “vincolo esterno” del Fiscal Compact (riduzione obbligatoria del debito pubblico degli Stati nella misura del 5% annuo, fino a tornare al livello del 60% rispetto al Pil), per quanto di fatto inapplicato con rigore anche prima della pandemia. Ma comunque “sorvegliante” le politiche economiche e fiscali nazionali, imponendo privatizzazioni, tagli alla spesa sociale (pensioni, sussidi vari, sanità pubblica, istruzione, ecc.).
Una politica alla Heinrich Brüning, il “cancelliere di ferro” che risparmiò fino alla rovina del paese e alla resistibile ascesa di Adolf Hitler.
Il timore che la Ue – e la sua guida di fatto, la Germania – si sia incamminata sull’identico percorso spinge Wiebe a mettere in dubbio la “giustezza” dell’ordoliberismo mercantilista che ha contrassegnato la politica economica europea degli ultimi 30 anni. “In dubbio”, non a criticarla radicalmente, come si conviene comunque ad un liberista confindustriale...
E l’incertezza, alla fine, in campo nemico resta la vera cifra con cui il potere europeo si va muovendo in questi due anni di pandemia.
Lo stesso Recovery Fund, da quelle parti, è concepito – sì – come un modo per aumentare il “vincolo esterno” sui singoli paesi, specie mediterranei (l’Italia è nominata proprio in questo senso), per obbligarli a “riforme” penalizzanti.
Ma quello stesso Recovery, che pure è un prestito a debito come tutti gli altri, porta con sé una piccola ma decisiva eccezione che dovrebbe funzionare, alle brutte, come valvola di salvataggio: è acquistabile dalla Bce, al bisogno.
Stampare moneta non è più tabu, un po’ di inflazione “non è il peggiore dei mali”, i debiti possono non essere ripagati in tempi rapidi (o resi “perpetui”, con il pagamento dei soli interessi), nessuno sa più bene cosa è giusto fare...
Siamo anni luce distanti dalla sicumera teutonica di un Dijsselbloem, un Rutte, un Weidmann o uno Schaeuble. Oggi, ammette Handelsblatt, “La politica monetaria e finanziaria nelle condizioni date da eventi straordinari come la pandemia di coronavirus corrispondono ad un volo alla cieca attraverso un pertugio stretto senza strumenti sufficienti.”
Vanno alla cieca, possono sbattere ad ogni ostacolo perché la strumentazione che si pensava infallibile – le ricette neoliberiste, le tabelle econometriche incentrate sul passato, i giochi matematici con cui si “prevede” il futuro in Borsa, ecc. – non danno più i risultati attesi. O almeno utili.
La crisi sistemica è qui, e bussa ai cervelli di tutti. I meno stupidi se ne accorgono. Altri – come i servi italiani, sempre in ritardo, nel bene come nel male – stanno ancora ragionando come prima della pandemia.
Il neoliberismo occidentale, in questo lungo periodo, è andato avanti schiacciando ostacoli (o provando a farlo), riproponendo sempre le stesse ricette anche quando il loro fallimento era palese. Privatizzazioni, riduzione del debito pubblico, lotta all’inflazione come unico obbiettivo della Bce (la Fed statunitense ne ha due, l’altro è un basso tasso di disoccupazione), austerità e taglio della spesa pubblica.
Ma il momento della verità arriva sempre. Un sistema che non funziona, visto dall’esterno o “da sotto” (da noi che ne subiamo le conseguenze), ad un certo punto si rivela disfunzionale anche per una parte dell’equipaggio seduto alla guida. Il quale, ovviamente, non ha alcuna intenzione di ritirarsi e cedere il volante a qualcun altro. Ma si rende conto che qualcosa bisognerà cambiare.
Questo articolo apparso sul quotidiano economico tedesco Handelsblatt – l’equivalente del nostrano Sole24Ore – dà conto degli infiniti dubbi che percorrono in questo momento la classe dominante in Europa, ovvero la grande borghesia multinazionale che ha tratto ogni possibile beneficio dalle “ricette” neoliberiste che conosciamo.
Dubbi che costringono addirittura a ripercorrere la Storia delle crisi precedenti, rovesciando alcuni giudizi che sembravano consolidati.
Per esempio sul debito pubblico e il suo finanziamento da parte delle banche centrali. Cosa ancora oggi formalmente vietata alla Bce – e contro le cui violazioni i rappresentanti tedeschi e olandesi si sono ferocemente battuti – anche se aggirata con i quantitative easing e le cosiddette politiche monetarie “non convenzionali”, rispolverate da Mario Draghi nelle vesti di presidente.
Ma persino dubbi sulla reale necessità di considerare sempre come un male la stessa inflazione, autentico incubo che in Germania viene associato al crollo della repubblica di Weimar e alla nascita del nazismo.
È curioso che nel ripercorrere quel momento e le sue ragioni l’editorialista Frank Wiebe dimentichi un elemento decisivo per spiegare l’incapacità/impossibilità dei governanti di Weimar di contenere l’inflazione entro limiti controllabili (si arrivò a un cambio di 4,2 miliardi di marchi per un dollaro, sicché per comprare un chilo di pane occorreva più di un chilo di banconote...).
Wiebe ricorda correttamente i “vincoli interni” che causarono quel disastro – la prima guerra mondiale era stata affrontata facendo, come sempre, una montagna di debiti e il sistema fiscale era sicuramente “antiquato” (e profondamente diseguale) – ma omette di nominare il “vincolo esterno” che aggravò lo squilibrio: il piano Dawes.
Ossia un maxi-programma di “riparazioni di guerra” che Francia e Gran Bretagna pretesero dalla Germania, comprendente non solo i danni arrecati ai civili, ma anche l’intero costo sopportato dai governi alleati per la prosecuzione della guerra, con l’ammontare di 132 miliardi di marchi oro (o Goldmark), da pagarsi a rate con l’interesse del 6%.
Una strategia che, non a caso, non fu ripetuta dopo la Seconda guerra mondiale, che invece segnò l’intervento del piano Marshall – finanziato anch’esso a debito – per favorire la ricostruzione dei paesi europei ed evitare così il risorgere di movimenti nazionalistici estremi.
L’omissione di Wiebe è tipica della cultura dominante in Germania, improntata ancora adesso alla logica per cui il debito è una colpa (si dice schuld in entrambi i casi), da espiare senza se e senza ma.
Del resto, lo stesso indebitamento della Germania pre-bellica aveva le stesse premesse del piano Dawes, come ricorda lo stesso Wiebe: “Il governo aveva finanziato la guerra mondiale tramite crediti che in seguito avrebbero dovuto essere ripagati con le riparazioni degli avversari sconfitti”.
Persa la guerra, fu la Germania a dover pagare i debiti contratti anche dai nemici... Di fatto, un piede sul tubo dell’ossigeno che aggravò l’asfissia dell’economia tedesca e, soprattutto, del bilancio dello Stato.
Una condizione cui è stata costretta un po’ tutta la “comunità europea”, sottoposta al “vincolo esterno” del Fiscal Compact (riduzione obbligatoria del debito pubblico degli Stati nella misura del 5% annuo, fino a tornare al livello del 60% rispetto al Pil), per quanto di fatto inapplicato con rigore anche prima della pandemia. Ma comunque “sorvegliante” le politiche economiche e fiscali nazionali, imponendo privatizzazioni, tagli alla spesa sociale (pensioni, sussidi vari, sanità pubblica, istruzione, ecc.).
Una politica alla Heinrich Brüning, il “cancelliere di ferro” che risparmiò fino alla rovina del paese e alla resistibile ascesa di Adolf Hitler.
Il timore che la Ue – e la sua guida di fatto, la Germania – si sia incamminata sull’identico percorso spinge Wiebe a mettere in dubbio la “giustezza” dell’ordoliberismo mercantilista che ha contrassegnato la politica economica europea degli ultimi 30 anni. “In dubbio”, non a criticarla radicalmente, come si conviene comunque ad un liberista confindustriale...
E l’incertezza, alla fine, in campo nemico resta la vera cifra con cui il potere europeo si va muovendo in questi due anni di pandemia.
Lo stesso Recovery Fund, da quelle parti, è concepito – sì – come un modo per aumentare il “vincolo esterno” sui singoli paesi, specie mediterranei (l’Italia è nominata proprio in questo senso), per obbligarli a “riforme” penalizzanti.
Ma quello stesso Recovery, che pure è un prestito a debito come tutti gli altri, porta con sé una piccola ma decisiva eccezione che dovrebbe funzionare, alle brutte, come valvola di salvataggio: è acquistabile dalla Bce, al bisogno.
Stampare moneta non è più tabu, un po’ di inflazione “non è il peggiore dei mali”, i debiti possono non essere ripagati in tempi rapidi (o resi “perpetui”, con il pagamento dei soli interessi), nessuno sa più bene cosa è giusto fare...
Siamo anni luce distanti dalla sicumera teutonica di un Dijsselbloem, un Rutte, un Weidmann o uno Schaeuble. Oggi, ammette Handelsblatt, “La politica monetaria e finanziaria nelle condizioni date da eventi straordinari come la pandemia di coronavirus corrispondono ad un volo alla cieca attraverso un pertugio stretto senza strumenti sufficienti.”
Vanno alla cieca, possono sbattere ad ogni ostacolo perché la strumentazione che si pensava infallibile – le ricette neoliberiste, le tabelle econometriche incentrate sul passato, i giochi matematici con cui si “prevede” il futuro in Borsa, ecc. – non danno più i risultati attesi. O almeno utili.
La crisi sistemica è qui, e bussa ai cervelli di tutti. I meno stupidi se ne accorgono. Altri – come i servi italiani, sempre in ritardo, nel bene come nel male – stanno ancora ragionando come prima della pandemia.
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L’eterna questione, anche nella pandemia, è: chi deve pagare?
L’eterna questione, anche nella pandemia, è: chi deve pagare?
All’inizio fu la crisi. La Banca d’Inghilterra fu istituita nel 1694, durante la cosiddetta “guerra dei 9 anni” che l’Inghilterra conduceva contro Luigi XIV di Francia. Dopo una battaglia navale perduta contro i francesi, a re Guglielmo III mancava il denaro per costruire una nuova flotta.
Il governo otteneva poche tasse e nella City di Londra non godeva di particolare credibilità. Per risolvere il problema, gli inglesi fondarono la Banca d’Inghilterra, una delle banche centrali più antiche del mondo. “Il denaro cartaceo era denaro a debito e il denaro a debito era denaro di guerra, e così fu da allora in poi“, commentò l’antropologo David Graeber, anarchico dichiarato, a posteriori.
Fin dall’inizio la storia delle banche centrali è connessa con una domanda decisiva: chi deve pagare? Alla base ci sono sempre conflitti redistributivi, che tramite la banca centrale vengono spostati in avanti nel tempo.
Se la corona avesse aumentato le tasse per finanziare la guerra, questo conflitto e chi ne sarebbe risultato perdente sarebbero stati immediatamente manifesti. La conseguenza sarebbe stata probabilmente una crisi politica di cui in guerra nessuno aveva bisogno.
Rispetto a questa problematica oggi non è cambiato nulla, e sullo sfondo di un’inflazione crescente vale la pena tenere ben presenti gli insegnamenti della storia. In una nota canzone carnevalesca dopo il “Chi deve pagare?” viene la strofa “Chi ha ordinato?”
Nel caso di inflazione e debiti si tratta quasi sempre del fatto che qualcuno ha “ordinato” qualcosa politicamente e alla fine rimane la questione di chi paghi. Alla domanda della canzone su chi abbia denaro a sufficienza la risposta ovvia è: le banche centrali.
La Banca d’Inghilterra alla sua fondazione ottenne il privilegio di stampare banconote, in questo modo poteva creare denaro e darlo in prestito alla corona. Questo è ciò che fanno le banche centrali ancora oggi, specialmente dalla grande crisi finanziaria di dieci anni fa. Esse non concedono alcun prestito diretto, ma comprano titoli di stato, potendo motivare questi acquisti con la necessità di abbassare i tassi di lungo periodo.
Ciò nonostante, dal punto di vista oggettivo, si tratta semplicemente di denaro che scorre dalla banca centrale al governo.
Alexander Hamilton, il primo ministro delle finanze statunitense, aveva visto la guerra rivoluzionaria e riconobbe il vantaggio che la corona inglese traeva dal poter finanziare le spese per i suoi soldati con l’aiuto di una banca centrale e di un mercato per titoli di stato liquido.
Egli cercò di introdurre questo sistema negli USA, ma non ebbe un successo duraturo, perché ai politici conservatori la cosa sembrava troppo poco seria. Più tardi ottenne ragione: oggi la potenza degli USA si basa in buona parte sul fatto che i suoi debiti sono titoli molto ricercati a livello mondiale.
L’Inghilterra e il finanziamento della guerra non sono l’unico parallelo storico. La Banca reale svedese è nata nel 1668. Fu creata per stabilizzare una crisi finanziaria che in definitiva aveva la sua origine già nella Guerra dei 30 anni.
La FED fu fondata negli USA nel 1913 come frutto dell’insegnamento della crisi finanziaria del 1907, la quale potè essere riassorbita solo grazie all’intervento del banchiere John Pierpont Morgan, il fondatore della banca statunitense J.P. Morgan.
Mai più l’economia statunitense avrebbe dovuto dipendere da un privato, per questo dovette entrare in gioco una banca centrale pubblica.
Anche questo è noto: la FED e gradualmente altre banche centrali come la Banca centrale europea (BCE) sono sempre intervenute massicciamente nei mercati in situazioni di crisi, per impedire un collasso del sistema finanziario.
Durante la crisi finanziaria fra i banchieri giravano detti come “La banca centrale compra tutto tranne le mutande“. Questa funzione, prestare denaro quando nessun altro può farlo, è sempre stato uno dei compiti essenziali delle banche centrali.
Già Walter Bageot nel 1873 ha fatto riferimento a questo fatto nel suo libro “Lombard Street” che ancora oggi è considerato una sorta di Bibbia dei banchieri centrali.
Teniamolo a mente: le banche centrali sono state create per finanziare governi a rischio di bancarotta o per salvare il sistema finanziario.
Per questa ragione il capo della FED Ben Bernanke ebbe il ruolo di salvatore nella grande crisi finanziaria del 2008 il presidente della BCE Mario Draghi lo ebbe nella successiva crisi dell’Euro.
Essi non hanno ricevuto solo applausi per questo.
L’inflazione è una soluzione o un problema?
In fondo si è sempre trattato di conflitti redistributivi, anche prima. Questo è il parallelo con le grandi inflazioni del XX secolo, ma anche con la crescita dei prezzi odierna.
Questo parallelo pone il problema: se vogliamo uscire dall’attuale accumulazione di debiti pubblici troppo alti, dalla presenza di troppa moneta e di prezzi troppo elevati, dobbiamo riconoscere i problemi redistributivi sottostanti, e possibilmente anche risolverli.
Proprio la grande inflazione tedesca degli anni ’20 è istruttiva. Il governo aveva finanziato la prima guerra mondiale tramite crediti che in seguito avrebbero dovuto essere ripagati con le riparazioni degli avversari sconfitti.
Siccome questo progetto è fallito nei suoi presupposti, la nuova repubblica tedesca dopo la guerra si è trovata una montagna di debiti. A ciò si aggiungeva il fatto che l’impero tedesco aveva lasciato un sistema fiscale completamente inadeguato.
Perciò la repubblica di Weimar si trovò davanti ad una cattiva scelta. Dichiarare bancarotta? Ciò avrebbe comportato l’espropriazione della borghesia che aveva combattuto diligentemente e patriotticamente. Contemporaneamente si sarebbero probabilmente verificati collasso economico, alta disoccupazione e di conseguenza il crollo della giovane democrazia, che nel decorso storico poi dipanatosi ebbe luogo nel 1933.
L’inflazione espropriò i possessori di obbligazioni, favorì i proprietari di case e colpì duramente i consumatori. Però almeno essa non tolse subito ai lavoratori il loro lavoro; inoltre molti salari erano accoppiati allo sviluppo dei prezzi. Essa procrastinò il tempo della stabilizzazione di alcuni anni, cosicché questa godette di migliori possibilità di quanto avrebbe fatto subito dopo la guerra.
Inoltre, nel frattempo, il ministro delle finanze Matthias Erzberge aveva riformato il sistema fiscale.
La storia in questo caso insegna: è possibile che la grande inflazione, lo spauracchio dei tedeschi, sia stata meno un problema che una soluzione, la quale tuttavia, purtroppo, è durata solo circa dieci anni.
Al contrario, negli anni ’30 l’economia fu rovinata prima di tutto da una rigida politica deflazionistica: il “cancelliere di ferro” Heinrich Brüning risparmiò fino alla rovina del paese.
Ciò conduce alla domanda provocatoria: anche l’inflazione odierna è più una soluzione che un problema? Non abbiamo alcuna guerra dietro di noi, ma la peggior pandemia dalla cosiddetta spagnola di circa 100 anni fa.
Anche adesso si ripropone la domanda: chi deve pagare? I governi hanno ordinato degli aiuti miliardari, per buone ragioni: volevano impedire il crollo dell’economia a causa dell’epidemia e del lockdown.
Quando si tratta di pagare dei conti aperti, ci sono due possibilità: li si paga subito, o li si lascia aperti. Detto altrimenti: lo Stato aumenta le tasse, o fa debiti e, nel dubbio, li fa finanziare dalla banca centrale. Nel migliore dei casi la seconda opzione conduce ad una dilazione così lunga del pagamento che nessuno se ne deve fare carico in maniera veramente percepibile.
Nel peggiore dei casi si arriva alla bancarotta, come è capitato alla Grecia durante la crisi dell’Euro, oppure si verifica un’inflazione, cosa di cui al momento stiamo risentendo.
Perciò, come nel caso della grande inflazione tedesca, ma in maniera di gran lunga meno drammatica si pone la domanda: quale sarebbe l’alternativa all’indebitamento e all’inflazione?
L’alternativa all’inflazione
Le banche centrali durante la crisi avrebbero anche potuto interrompere il finanziamento tramite debito pubblico. In tal caso almeno alcuni stati avrebbero difficilmente potuto sostenere la loro economia. La BCE avrebbe anche potuto chiudere il rubinetto prima o più energicamente di quanto abbia fatto. Che sarebbe accaduto allora?
Nel migliore dei casi i governi dell’Euro-zona avrebbero compreso che sarebbero dovuti giungere fra di loro ad una compensazione finanziaria piuttosto forte. Nel peggiore dei casi non l’avrebbero capito e avrebbero evocato una nuova crisi dell’Euro. Adesso è importante che gli stati dell’Euro-zona altamente indebitati usino lo spazio loro concesso dalla BCE per profonde riforme.
Nei fatti giungeremo in un qualche punto intermedio: un paio di tentativi di riforma, magari in Italia, che però normalmente non arrivano mai dove si auspicherebbe; un po’ più di comprensione del fatto che la coesione dell’Euro-zona serve anche agli stati-membri forti che vivono di esportazioni; una politica monetaria moderata, che forse lascia a desiderare nella lotta all’inflazione, ma che d’altra parte impedisce lo sfacelo dell’Euro-zona.
Così alla fine nel lungo periodo tutti pagheranno un po’ del grande conto. È il peggiore dei mondi possibili? O è una delle migliori alternative? Non lo sappiamo perché la storia passa una volta sola. Per questo non dovremmo giudicare con troppa fretta.
L’Euro-zona e gli USA soffrono entrambi a causa di problemi redistributivi irrisolti. L’hanno già mostrato la grande crisi finanziaria e la successiva crisi dell’Euro. La crisi finanziaria fu scatenata da crediti di scarso valore per immobili statunitensi.
In questo ha avuto un ruolo il fatto che gli USA invece di politiche sociali abbiano promosso la concessione di crediti a famiglie povere, di fatto non solvibili.
La crisi finanziaria e la connessa inondazione monetaria da parte delle banche centrali ne furono la conseguenza. Nella crisi dell’Euro la questione furono i problemi fra gli stati dell’Euro-zona. Per via di squilibri economici si erano accumulati debiti che anche in quel caso condussero ad un finanziamento a posteriori con l’aiuto della banca centrale.
Il coronavirus ha causato nuovi rivolgimenti. Stavolta i governi europei hanno siglato un pacchetto finanziario comune, ma esso viene finanziato essenzialmente con del debito che può essere acquistato anche dalla BCE.
Negli USA il presidente Joe Biden a sua volta ha avviato pacchetti di spesa che in parte sono tesi esplicitamente ad attenuare la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Il conto anche in questo caso resta aperto: essi sono finanziati a debito.
I decenni trascorsi tramite l’esempio del Giappone hanno mostrato: i conti possono anche rimanere aperti molto a lungo. I cittadini lì finanziano, lo Stato acquistando direttamente o indirettamente obbligazioni. In questo modo è sorta una ricchezza apparente che già da lungo tempo non viene più coperta dalle potenzialità dell’economia. Fino a che la voglia di risparmio dei giapponesi durerà, questo sistema rimarrà stabile.
L’alternativa sarebbero alte imposte: fondamentalmente essa porterebbe a flussi finanziari di entità simile, ma incontrerebbe una maggiore resistenza. La banca centrale tramite gli acquisti massicci di obbligazioni aiuta a stabilizzare il sistema e ciò nonostante non ha ancora generato inflazione.
Bolle o saldi contabili?
Alla fine potrebbe dunque esserci una strategia alla Münchausen, in base alla quale stati e regioni potrebbero uscire dal pantano con l’aiuto di debiti e lo stampaggio di moneta? Oppure questo genererebbe una bolla talmente grande da dover prima o poi scoppiare? Debiti pubblici e bilanci rigonfi delle banche centrali sono solo saldi contabili che si possono reciprocamente cancellare?
Così afferma la Modern Monetary Theory (MMT). Anche in questo caso vale: non lo sappiamo. Comunque negli USA la MMT si trova già davanti a un muro. I debiti non sarebbero un problema se non ci fosse inflazione, si diceva. Adesso l’inflazione c’è.
La storia, anche quella della pandemia, ci lascia vari insegnamenti. Primo: non ha senso analizzare politica finanziaria e monetaria separatamente, anche se per buone ragioni esse sono organizzate separatamente. Su questo punto la MMT ha ragione.
Secondo: debiti e inflazione sono spesso espressione di problemi più profondi o persino la loro soluzione, sebbene una cattiva. Bisogna scoprire dove risiedono i problemi effettivi.
Facendo questo capiterà spesso di constatare che è difficile risolverli bene. E se sono possibili solo soluzioni cattive o temporanee; bisogna soppesare: qual è l’opzione meno cattiva?
Nel fare ciò si troveranno spesso delle vie che dal punto di vista della politica economica non sono affatto encomiabili. Questo rappresenterebbe forse un salvacondotto per produrre debito e moneta senza freni? No.
Ciò che da lungo tempo funziona in Giappone può pur sempre finir male e soprattutto non è trasponibile ad altre regioni. Bisogna mantenere capacità di giudizio e utilizzare ogni occasione per il consolidamento della situazione debitoria e la normalizzazione della politica monetaria.
Entrambe le cose richiedono un’enorme energia dal punto di vista politico, ma anche solidarietà, senza la quale i problemi redistributivi rimarrebbero irrisolvibili.
La politica monetaria e finanziaria nelle condizioni date da eventi straordinari come la pandemia di coronavirus corrispondono ad un volo alla cieca attraverso un pertugio stretto senza strumenti sufficienti. Perciò bisogna tenere gli occhi aperti, evitando di dare ai piloti troppi consigli insensati, ma esortandoli ad una prudenza estrema.
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