È appena uscito il report dell’Area Studi di Mediobanca, che analizza gli andamenti economici dei 24 gruppi principali (fatturato sopra i 100 milioni) della sanità privata italiana. Nel documento non manca uno sguardo alle dinamiche generali del paese e a quelle internazionali.
L’immagine che ne esce dell’Italia è quella che andiamo raccontando da tempo: un sistema sanitario pubblico devastato per lasciare spazio al privato. Già il censimento delle quasi 29 mila strutture sanitarie certifica che al 2021 il 57% di queste appartiene al privato, e solo il restante al pubblico.
Se guardiamo al nome e alla storia dei principali operatori studiati, risulta un forte sbilanciamento della presenza verso il centro-nord della penisola, e in particolare verso la Lombardia, «epicentro» della privatizzazione della tutela sanitaria. Un terzo dei gruppi considerati ha interessi anche all’estero, seppur per lo più marginali.
L’Italia conta una spesa per la salute pro-capite inferiore alla media OCSE 2020, mentre è in linea con essa in rapporto al PIL. Se però guardiamo al solo contributo pubblico, che ammonta al 7,3% del PIL, troviamo il paese dietro a Germania, Francia, Regno Unito e anche Spagna.
La crescita dell’impegno economico pubblico ha rallentato dal 2006, fino a quasi fermarsi con la crisi dei debiti sovrani dal 2012. Solo con la pandemia si è tornati a tassi di crescita sostanziosi, che hanno sopravanzato quelli delle strutture convenzionate, da sempre maggiori nell’ultimo ventennio.
Non c’è bisogno di ricordare come, tuttavia, queste spese siano inficiate da una logica emergenziale e come il sistema presenti ancora tante carenze, in particolare di organico. È vero che nel 2021 il totale del personale medico è aumentato rispetto al 2019, ma quello a tempo indeterminato è diminuito e i medici di famiglia hanno singolarmente sempre più assistiti.
I dati più interessanti sono quelli sul giro d’affari. Si parla di 8,8 miliardi di euro, in crescita del 15,2% sul 2020, su cui ha pesato però una flessione di 7,8 punti dovuta a sospensioni o differimento di attività per la pandemia. Sul 2019 si tratta comunque di un aumento del 6,3%.
La redditività è ancora inferiore ai livelli pre-pandemici, soprattutto per un corposo aumento dei costi di produzione coperto solo parzialmente da vari sussidi. Anche a causa delle assunzioni pandemiche, il costo aggregato dei lavoratori del settore si è incrementato per le società private del 13,6%.
Alcuni settori si sono ripresi meglio di altri. Sono soprattutto i ricavi che provengono dalla riabilitazione e dalle RSA – per le quali si prevede di tornare al numero di posti letto occupati nel 2019 solo nel 2025 – a stagnare ancora. Ad ogni modo, per il 2022 le prime proiezioni permettono di stimare un ulteriore aumento dei fatturati del 4% sull’anno precedente.
La sanità privata si sta dunque riprendendo dagli shock di questi anni, e lo farà sempre più a detrimento di quella pubblica. Eppure, col Covid abbiamo visto che un reale tutela della salute proviene solo da una sanità pubblica, la cui attività deve essere debitamente pianificata e centralizzata. Con la proposta di autonomia differenziata si andrà invece in direzione opposta, accentuando differenze e disuguaglianze.
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