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23/04/2023

Vi ricordate del G7 che muoveva il mondo? Vecchi tempi...

Parlare dell’imperialismo in termini solo ideologici può sembrare bellissimo: lui è cattivo, prepotente, invasivo, ma anche capace di piani a lungo termine, manovre occulte, comprensione superiore. In pratica, mentre gli si dichiara odio lo si copre di – involontari, certo – complimenti.

La realtà è assai più brutale e per molti versi triste: l’imperialismo euro-atlantico – quello in cui siano incastrati da 80 anni – ha problemi serissimi di tenuta, a partire dal terreno che sembrava avergli assicurato per sempre la superiorità strategica: l’economia.

Da anni andiamo individuando e descrivendo i diversi fenomeni che consentono di parlare di crisi sistemica del mondo occidentale, che non significa di per sé “crisi del modo di produzione capitalistico”.

È insomma crisi specifica di un capitalismo, connotato o narrato da sempre in modo tale da sembrare l’unico capitalismo esistente. Con “gli altri” relegati nella categoria-stigma delle “autocrazie”. Come se qui non venisse dimostrato quotidianamente – per esempio recente, in Francia – che il potere decide di modificare un “patto sociale” pluridecennale senza neanche il voto del Parlamento. Autocraticamente, insomma.

L’imperialismo euro-atlantico, nel corso dei secoli, aveva messo a punto un “modello di sviluppo” piuttosto noto: rapina sistematica delle risorse naturali di cui necessita, sviluppo industriale localizzato dentro i propri confini, impedimento militare dello sviluppo industriale nei paesi produttori di materie prime (il golpe contro Mossadeq in Iran resta il modello, poi replicato ovunque), uso della moneta e del sistema finanziario come arma di guerra per “succhiare plusvalore” prodotto fuori dai propri confini fisici.

Una dimostrazione empirica e storica dello “scambio ineguale”, in altre parole, che diversi teorici avevano individuato già 40 anni fa..

Con la caduta dell’Unione Sovietica questo modello ha avuto uno sviluppo iper-trofico (l’illusione della “fine della Storia”) che ne ha però modificato alcuni pilastri costitutivi. La produzione industriale è stata delocalizzata in paesi disponibili a fornire manodopera a costi infimi, mentre il controllo di moneta e finanza consentivano all’Occidente neoliberista di importare merci di qualsiasi genere indebitandosi in misura esponenziale.

I profitti, soprattutto finanziari, si sono ovviamente ingigantiti, mentre le popolazioni occidentale vedevano crollare sia i livelli salariali (“non competitivi” con quelli pagati nel Sud del mondo) che il benessere complessivo.

Pandemia prima, guerra in Ucraina subito dopo, hanno bucato il palloncino o, se volete un’immagine antica, hanno fatto vedere che il Re è nudo. E pieno di debiti che nessuno vuole più alimentare.

Speranze da comunisti?

Niente affatto. Sui quotidiani finanziari – gli unici obbligati a pubblicare almeno qualche squarcio di verità, vista la loro funzione di “servizio agli operatori economici”, che devono sapere come investire i soldi, non sentirsi raccontare favolette – si trovano perle di saggezza davvero molto indicative.

Come questo articolo di Guido Salerno Aletta su MilanoFinanza, che lo porta a dipingere il G7 – il gruppo dei Paesi un tempo autodefinitisi “i più industrializzati” – quasi come “un nuovo Comecon”. Ovvero l’ex mercato comune dei paesi filosovietici, prima del collasso.

Da quell’angolo visuale, non proprio un complimento, ci sembra...

Buona lettura.

*****

Il G7 ha poche risorse e troppi debiti, così rischia l’implosione

Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza

Annus Horribilis, il 2022, per i Paesi del G7: il violento aumento dei prezzi delle importazioni ha contribuito a scassare i già precari conti commerciali con l’estero: sono andati tutti in rosso, con la sola eccezione della Germania.

Tra il 2021 e il 2022, il passivo commerciale per beni e servizi degli Stati Uniti è peggiorato di 101 miliardi di dollari, passando da 1.090 miliardi a 1.191 miliardi, nonostante l’export americano di prodotti energetici sia aumentato di 152 miliardi, da 264 a 416 miliardi di dollari (+57%). Pure l’Italia è crollata, passando da un saldo attivo di 41 miliardi di euro a uno passivo di 30 miliardi.

Non solo il più elevato costo dell’energia prodotta da fonti alternative a quelle fossili penalizza particolarmente i Paesi europei, ma si registra un’ulteriore asimmetria nella competizione commerciale internazionale: soprattutto la Cina e l’India, ma anche molti altri Paesi di recente industrializzazione che non hanno aderito alle sanzioni alla Russia, stanno beneficiando di approvvigionamenti energetici da parte di Mosca a condizioni di favore.

Uno squilibrio che non appare sanabile a breve.

Per l’Occidente, sembrano venuti meno i tre fattori che hanno determinato una bassa inflazione strutturale nel primo ventennio del secolo: i più bassi costi del lavoro in Cina e nei Paesi ex-comunisti dell’Europa; l’abbondanza e la convenienza delle forniture di gas russo all’Europa, ora cessate; le politiche di bilancio orientate al pareggio e quindi non inflazionistiche.

Se le politiche monetarie straordinariamente accomodanti hanno militato a favore di una riduzione dei costi per i produttori indebitati, le immissioni di liquidità hanno tenuto elevati i prezzi degli asset quotati, creando probabilmente quelle bolle speculative sui mercati a termine delle materie prime che hanno determinato la fiammata inflazionistica iniziata nella tarda primavera del 2020.

L’atteggiamento assai costrittivo tenuto dall’Opec+, che ha ulteriormente ridotto la produzione di petrolio, pur a fronte di una domanda mondiale in rallentamento al fine di mantenere invariati i proventi complessivi degli aderenti, riporta alla memoria le conseguenze sistemiche della crisi petrolifera del 1973, che segnò un cambio profondo e irreversibile nei rapporti di forza tra Paesi produttori di petrolio e Paesi trasformatori, con l’abbandono di produzioni industriali energivore e la deindustrializzazione.

L’Europa ne esce con le ossa rotte, perché l’America ha da decenni una produzione industriale trascurabile e vende Gnl all’Europa, come altri produttori, a un prezzo che non può che essere assai più elevato rispetto a quello delle precedenti forniture russe.

Importare più di quanto si esporta, consumare più di quanto si produce, significa doversi indebitare. Gli Stati Uniti sono già i più grandi debitori nei confronti del resto del mondo, con una posizione finanziaria internazionale netta passiva per 16.117 miliardi di dollari.

Il peggioramento delle bilance commerciali dei Paesi del G7 registrato nel 2022 deriva dalle insuperabili carenze strutturali di materie prime, petrolio e gas, cui si è aggiunto il conflitto geopolitico nei confronti di Russia e Cina: la prospettiva più temibile non è solo l’impoverimento quanto l’isolamento e l’implosione.

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