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18/04/2023

Sudan, la guerra dei generali

Gli scontri a fuoco tra le due principali fazioni delle forze armate sudanesi sono proseguiti nella giornata di lunedì causando un numero di vittime civili che, secondo alcune stime, sfiora ormai quota duecento. Il conflitto mette di fronte l’esercito regolare e le Forze di Supporto Rapido (RSF), ai cui vertici siedono rispettivamente il numero uno e il numero due del regime militare uscito dal doppio colpo di stato del 2019 e del 2021. A loro volta, nonostante le ragioni di ordine interno alla base della disputa armata, le due parti sono appoggiate da diverse potenze straniere che da tempo competono per esercitare il maggior controllo possibile sul paese strategicamente posizionato sulle sponde del Mar Rosso.

Erano settimane che le tensioni stavano aumentando, principalmente in concomitanza con la stipula di un accordo politico per la creazione di un governo civile di transizione in grado di mettere fine alla situazione di crisi attuale. In assenza però di un’intesa tra i due gruppi armati, già a inizio aprile i rappresentanti dei movimenti di opposizione della società civile, riuniti nelle Forze per la Libertà e il Cambiamento, avevano annunciato un rinvio, preannunciando in qualche modo l’imminente escalation dello scontro.

Le forze armate e le RSF divergono sostanzialmente sulle modalità dell’integrazione di queste ultime nelle prime, come prevede una delle condizioni chiave dell’accordo definitivo per il superamento dello scenario post-golpe. Le RSF temono che l’assorbimento nell’esercito regolare possa portare a un’erosione della loro influenza nelle vicende del paese. Sempre legato a questioni di potere è anche il mancato accordo sull’identità del comandante supremo delle forze armate nel periodo di transizione che dovrebbe iniziare. Le RSF chiedono che il controllo sia esercitato dal capo dello stato civile che verrà nominato, mentre questa ipotesi è respinta dai militari.

La crisi sudanese ha origine nel colpo di stato “preventivo” portato a termine nel 2019 contro il regime del presidente Omar al-Bashir, oggetto nei mesi precedenti di massicce proteste popolari. Le forze armate, guidate dall’attuale comandante e capo di fatto dello stato, generale Abdel Fattah al-Burhan, intendevano in questo modo preservare l’architettura di un sistema sul quale esse stesse detengono un ampio controllo, incluso l'ambito economico. In seguito, i militari avrebbero commesso svariati massacri nel tentativo di reprimere le manifestazioni popolari di protesta, fino a che il raggruppamento di partiti di opposizione e svariate associazioni sindacali avevano negoziato un percorso politico per il ritorno dello stato sotto il controllo di un governo guidato da civili.

La carica di primo ministro era stata così assegnata all’economista Abdalla Hamdock, ma il vero potere continuava a risiedere in un organo denominato “Consiglio Sovrano” e guidato dal generale Burhan. Questo precario equilibrio sarebbe durato poco più di due anni. I militari non avevano infatti nessuna intenzione di cedere realmente il potere e consideravano il dispositivo creato in collaborazione con la società civile sudanese come un mezzo per ottenere la rimozione delle sanzioni occidentali grazie alla facciata della transizione democratica.

Nell’ottobre del 2021, le forze armate e le RSF rovesciarono il governo civile, introducendo lo stato di emergenza e trasferendo nuovamente tutto il potere nelle mani del Consiglio Sovrano, sempre dominato da Burhan. Seguirono poi nuove proteste e il reinsediamento del primo ministro Hamdok il mese successivo. La crisi non sarebbe stata tuttavia risolta e quest’ultimo avrebbe alla fine rassegnato le dimissioni il 2 gennaio del 2022.

Burhan condivide ora il potere con il numero uno delle RSF, generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemedti”. La convivenza si è fatta progressivamente più complicata, fino appunto all’esplosione di un conflitto aperto nel fine settimana. La situazione era iniziata a precipitare giovedì scorso, con le forze armate sudanesi che avevano dichiarato illegale il dispiegamento di uomini delle RSF a Khartoum e in altre città del paese. Fiutando il pericolo, le forze paramilitari di Dagalo avevano allora avviato un’operazione per cercare di occupare alcune strutture strategiche, come l’aeroporto della capitale e la base aerea della città settentrionale di Merowe.

Sabato mattina, le notizie che sono arrivate dal Sudan descrivevano una situazione di guerra aperta. Scontri a fuoco si sono registrati in molte città del paese, mentre le forze armate regolari hanno bombardato le postazioni delle RSF. Entrambe le parti avevano a un certo punto rivendicato il controllo di edifici chiave, a cominciare dal palazzo presidenziale a Khartoum, ma la stampa internazionale non è stata in grado di confermare queste notizie. La gravità della spaccatura tra l’esercito e le Forze di Supporto Rapido era apparsa chiara dalle parole del generale Burhan, che aveva dichiarato l’ex alleato e rivale Dagalo un “criminale ricercato” e le RSF una “milizia ribelle”. Dagalo, da parte sua, aveva definito Burhan un “criminale” e un “bugiardo” nel corso di un’intervista ad Al Jazeera.

Nel pomeriggio di domenica era stata concordata una tregua “umanitaria” della durata di tre ore per consentire ai civili di abbandonare gli edifici teatro delle violenze. Anche durante questo breve periodo gli scontri a fuoco sono continuati, per poi riprendere con la massima intensità appena scaduto il cessate il fuoco. Oltre ai civili sudanesi rimasti uccisi finora, tra le vittime si segnalano tre funzionati del Programma Alimentare Mondiale ONU impegnati nella provincia del Darfur Settentrionale.

Tra domenica e lunedì sono arrivati inviti al dialogo da praticamente tutti i governi dei paesi coinvolti nella crisi sudanese. Le organizzazioni africane regionali si sono invece mobilitate per inviare proprie delegazioni a Khartoum, nel tentativo di fermare l’escalation. Le Forze di Supporto Rapido, anche se considerate una sorta di milizia paramilitare, sono composte da circa 100 mila uomini e, secondo alcuni analisti, avrebbero maggiori capacità di combattimento rispetto all’esercito regolare. Quest’ultimo ha però il vantaggio delle forze aeree, sfruttate infatti immediatamente per colpire le basi delle RSF.

Le Forze di Supporto Rapido derivano dalle famigerate milizie Janjaweed, responsabili, secondo le associazioni umanitarie, delle peggiori atrocità durante la guerra nel Darfur, dove peraltro si era messo in mostra lo stesso generale Burhan. Le due forze rivali avevano ricevuto l’appoggio di diversi governi stranieri al momento della caduta del regime di Bashir, diventandone i rispettivi riferimenti al fine di mantenere una qualche influenza sul Sudan. L’esercito regolare e il generale Burhan sono sostenuti dall’Egitto, ma anche dagli Stati Uniti e dall’Europa. Le RSF di Dagalo appaiono invece vicine ad Arabia Saudita, Emirati Arabi e Russia, impegnata a negoziare la creazione di una base militare a Port Sudan, località strategica sul Mar Rosso.

L’intreccio di interessi stranieri è il primo fattore che ostacola una transizione verso un governo civile in Sudan. Washington, da dove era già stata progettata la secessione del Sud Sudan, punta in particolare a sganciare il regime di Khartoum dalla Russia, ma anche dalla Cina, e di attrarre stabilmente il paese nella propria orbita attraverso incentivi di carattere soprattutto economico. Il Sudan è infatti uno dei paesi a maggioranza musulmana ad avere aderito ai cosiddetti “Accordi di Abramo”, lanciati dagli Stati Uniti per normalizzare le relazioni con Israele.

Per quanto riguarda Mosca, l’intesa per la costruzione di una base militare a Port Sudan risale a qualche anno fa, ma il precipitare della crisi interna e gli eventi legati al COVID-19 avevano provocato uno stallo del progetto. Il Cremlino ritiene di estrema importanza questa struttura, visto che risulterebbe decisiva per la penetrazione nel continente africano e, in particolare, nell’area sub-sahariana e del Sahel, dove operano sia contingenti della compagnia di “sicurezza” privata Wagner sia compagnie del settore estrattivo.

Tutti i paesi interessati al Sudan temono comunque che il paese possa scivolare in una vera e propria guerra civile e per questa ragione spingono per una de-escalation delle tensioni e una rapida stabilizzazione. Sono tuttavia proprio le influenze esterne ad avere inasprito i conflitti etnici e politici, accentuati da povertà dilagante e corruzione, complicando una crisi che sembra allontanare sempre di più qualsiasi prospettiva di transizione anche solo formalmente democratica sotto la guida di un governo civile.

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