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17/08/2024

La Sardegna non sa che fare con le rinnovabili

Appena eletta governatrice della Regione Sardegna, Alessandra Todde l’aveva promessa. Il 4 luglio è infatti diventata legge la moratoria di 18 mesi all’installazione sull’isola di nuovi impianti eolici e fotovoltaici a terra.

Per chi è estraneo alle questioni sarde la decisione può sembrare incomprensibile: l’isola ha il più alto livello di emissioni pro capite di CO₂ connesse ai consumi di energia, con un mix energetico tra i più inquinanti d’Italia. Delle sette centrali a carbone ancora in funzione nel nostro Paese, due si trovano proprio in Sardegna. Ma visto che insieme alla raffineria Sarlux coprono circa il 70% della produzione elettrica regionale, per la loro chiusura tutto è rimandato al 2028.

Per mettersi al passo con gli obiettivi di decarbonizzazione nazionale imposti dal recente “decreto aree idonee”, entro il 2030 la Sardegna dovrà arrivare a una quota aggiuntiva di 6,2 GW di energia rinnovabile. Ma complice la liberalizzazione degli anni passati, Terna ha ricevuto richieste per l’installazione in Sardegna di nuovi impianti eolici onshore, offshore e fotovoltaici pari a 54 GW, quasi dieci volte la potenza necessaria al fabbisogno isolano.

Anche se uno studio della Cna sarda mostra una distanza enorme tra le domande di connessione alla rete elettrica e gli impianti che entreranno effettivamente in funzione, questi numeri vengono visti in Sardegna con preoccupazione, soprattutto per via del trascorso storico: la prospettiva di un’isola esportatrice di energia rinnovabile a spese del proprio paesaggio e senza nessun sostanziale beneficio evoca i fantasmi della modernizzazione passiva dell’industria petrolchimica e della turistificazione selvaggia degli anni '60, e ancora prima dello sfruttamento intensivo delle risorse forestali e minerarie.

Con la moratoria l’attuale giunta regionale di centro-sinistra sta provando ad arginare le derive speculative della transizione energetica, una cosa che finora molti sindaci hanno dovuto fare da soli.

Il primo cittadino di Villanovaforru Maurizio Onnis, un paese di 725 abitanti nel cuore della Sardegna, spiega ad Altreconomia che spesso i progetti vengono presentati a insaputa delle comunità, ma gli strumenti per bloccarli a disposizione degli amministratori locali sono limitati. Sul suo territorio comunale di undici chilometri quadrati incombono tre diversi progetti eolici di una società piemontese, di Enel green power e della multinazionale francese Engie, quest’ultimo presentato attraverso una società creata ad hoc con un capitale sociale di 10.000 euro.

“È una formula ricorrente tra le multinazionali investitrici, probabilmente pensata per poter liquidare le società in modo più rapido e limitare le responsabilità della società madre”. A Villanovaforru la distanza tra due modelli opposti di transizione energetica non potrebbe essere più evidente: il paese ospita un innovativo progetto di comunità energetica dal basso che copre attraverso un impianto fotovoltaico il fabbisogno di centinaia di residenti.

Onnis è categorico nel no all’eolico sul suo territorio comunale, ma è convinto che tanti sindaci sarebbero possibilisti se apportasse benefici ai cittadini. Tuttavia, la disciplina delle compensazioni è ancora regolata da un decreto del 2010, secondo cui non sono obbligatorie, non possono essere versate in denaro e non possono superare il 3% dei ricavi derivanti dall’impianto stesso. “La Regione Sardegna dovrebbe aprire quanto prima un dialogo con lo Stato su questo tema”, riflette Onnis.

Attualmente il fronte sardo contro la speculazione energetica è trasversale e unisce partiti, movimenti indipendentisti, sindacati e comitati locali. Ma le opinioni e le soluzioni proposte variano molto: si va da chi è favorevole alle rinnovabili ma a certe condizioni, a chi toglierebbe parte di quelle già esistenti. Per Luigi Pisci, portavoce del Comitato Sarcidano, anche i 6,2 GW richiesti dal governo sono troppi: “la Sardegna conosce un decremento dei consumi industriali e civili, in più esporta attualmente buona parte dell’energia prodotta. Siamo convinti che da qui al 2030 basterebbero due o tre GW in più. Attraverso un mix di idroelettrico, energia rinnovabile prodotta dal basso e riduzione dei consumi l’isola diventerebbe autosufficiente, che è il nostro unico obiettivo. Non ci interessa diventare la batteria rinnovabile dell’Italia”.

Ma all’interno dell’ambientalismo isolano non tutti la pensano così. Legambiente e WWF vedono nell’attuale moratoria del prezioso tempo perso nella decarbonizzazione, mentre Fridays for future Sardegna sta provando a creare un ponte con le istanze dei comitati. “Una transizione calata dall’alto e lasciata in mano al mercato sarà sempre inefficace e ingiusta”, dice il portavoce regionale Luca Pirisi, che però aggiunge: “invece di concentrarci sul tetto massimo di GW da fonti rinnovabili, dovremmo farlo su quello di prodotti fossili, che dovrà arrivare a zero nei prossimi anni. Attualmente siamo lontanissimi da questo obiettivo”. Secondo Fridays for future Sardegna nel dibattito sardo manca inoltre un tassello importante: quando si parla di autosufficienza bisogna calcolare non solo l’elettricità consumata oggi, ma anche tutta quell’energia impiegata nel trasporto pubblico e privato, negli impianti di riscaldamento e nell’industria che oggi non è elettrica ma lo dovrà diventare.

Se il tema delle rinnovabili è diventato la priorità tra i sardi lo si deve anche al quotidiano di destra L’Unione Sarda. In base ai dati di Crowdtangle, il software analitico di Meta, nei primi sei mesi del 2024 la testata di Cagliari ha condiviso su Facebook più di 230 articoli sul tema. Eppure nei titoli, nei contenuti e nelle immagini del quotidiano, spesso caratterizzati da toni populisti e sensazionalisti, passa il messaggio che transizione e speculazione siano due facce della stessa medaglia, impossibili da separare.

La testata cagliaritana sta incoraggiando un’avversione alle rinnovabili tout court, senza una proposta alternativa di decarbonizzazione. Forse non è un caso: la firma di punta è Mauro Pili, già governatore della giunta regionale di centrodestra dal 2001 al 2003 e successivamente parlamentare di Forza Italia. Come governatore Pili spinse per lo sviluppo del Galsi, un gasdotto tra l’Algeria e la Sardegna che non è mai stato completato, mentre attualmente la sua alternativa alle pale eoliche starebbe nella dorsale del metano e in modo tanto ottimistico quanto irrealistico nell’idrogeno.

Pirisi, di Fridays for future Sardegna, vede il rischio di un’opinione pubblica appiattita su posizioni sempre più demagogiche e proposte impraticabili: “si sta affermando l’idea che esista una soluzione facile, fatta di solare sui tetti, micro-eolico e nuove tecnologie. Ma lo dicono vari studi: non è pensabile affrancarsi dai fossili solo in questo modo. La transizione energetica richiede anche nuove abitudini, la riduzione dei consumi e scelte coraggiose”. Un messaggio difficile da far passare anche perché nel dibattito sardo l’emergenza climatica è la grande assente: manca il senso d’urgenza e raramente si parla delle date indicate dalla scienza entro cui bisognerà aver ridotto le emissioni per stare dentro gli scenari di 1,5 °C ed evitare il punto di non ritorno.

Con il decreto aree idonee la Sardegna ha ora 180 giorni di tempo (a partire dal 3 luglio) per individuare le zone adatte ai nuovi impianti. Ma nel clima attuale non sarà facile convincere le comunità locali designate a sacrificarsi per il bene comune. Perlomeno fino a quando non si arriverà a un modello come quello danese, con progetti partecipati e benefici significativi per il territorio.

In attesa dell’utopia, che almeno a parole l’attuale giunta regionale intende realizzare: un’Agenzia regionale per l’energia che realizzi gli impianti necessari alla transizione energetica. Eolico e solare pubblico, con guadagni pubblici. Ma con il Consiglio dei ministri del 7 agosto è arrivata la prima doccia fredda: il Governo Meloni ha impugnato la legge di moratoria, che ora finirà davanti alla Corte costituzionale. Stretta tra un governo poco disposto a concedere maggiore autonomia decisionale e un’opinione pubblica sulle barricate, la strada per Alessandra Todde si preannuncia in salita.

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