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31/08/2024

Zuckerberg confessa: “la gestione di Facebook è condizionata dalla Casa Bianca”

L’arresto e il successivo rilascio su cauzione, a Parigi, del fondatore e patron di Telegram, Pavel Durov, ha messo in luce cosa significhi la parola “libertà di espressione” nell’Occidente imperialista. Andiamo un attimo con ordine, perché non ci interessa affatto fare paragoni frettolosi e impressionistici.

Come ben pochi hanno notato, il mandato di cattura contro Durov è stato emesso mentre l’aereo su cui viaggiava era in volo verso Parigi. In pratica tutti i media (pressoché tutti, in effetti) che hanno divagato per un paio di giorni sull’interrogativo “si è consegnato (per salvarsi da Putin, con cui aveva avuto pesanti screzi) oppure è stata una sua ingenuità?” hanno fatto consapevolmente disinformazione, perché la tempistica mandato/arresto era nota a chiunque volesse leggere la stampa internazionale.

Poi si è venuti a sapere, o ricordato con difficoltà, che Macron aveva proposto a Durov nel 2018 di spostare la sede operativa di Telegram in Francia, in cambio della cittadinanza (poi concessa comunque, come dono avvelenato) e della messa a disposizione della polizia/servizi segreti francesi dei codici criptati della piattaforma.

In pratica, “Mac Macron” ha provato ad avere politicamente in mano una piattaforma di messaggistica in grado di rivaleggiare con Facebook, Whatsapp, X e Instagram, senza dover investire in tecnologie, vista l’assenza di magnati francesi su questo fronte. Fare grandeur con l’inventiva altrui, insomma.

Anche da queste scarne notizie certe si indovina che il controllo dei dati raccolti da piattaforme “civili”, utilizzabili da chiunque, è un obiettivo politico e militare di primaria importanza.

Va comunque sgombrato il campo da un altra “giustificazione” dell’arresto adottata e addotta dai media europei: su Telegram operano anche pedofili, spacciatori, trafficanti d’armi, “terroristi” e combattenti di svariati eserciti (compresi quello russo e ucraino), ecc., quindi il rifiuto di Durov di consegnare i codici di decriptazione significherebbe di fatto complicità con quei crimini.

Sul piano del diritto è come incolpare Telecom di quello che si dicono e fanno due abbonati qualsiasi. E l’esercizio della “moderazione”, associato alla “profilazione” delle preferenze individuali degli utenti, rende qualsiasi piattaforma un campo di gioco “privatizzato” dai suoi ideatori-proprietari a disposizione di altri privati che devono vendere le proprie merci e di (pochi) governi che possono gestire un’autoschedatura immensa e pressoché totale. Il contrario della “libertà” promessa, per di più gratuitamente.

Sul piano pratico, quella “giustificazione” è una bufala pura e semplice. Ammesso senza problemi che (anche) su Telegram vengano commessi molti dei reati indicati, non serve essere degli specialisti in indagini di polizia per capire che non è affatto impossibile contrastare quei traffici.

Certo, bisognerebbe spendere un po’ di tempo e risorse (soldi e uomini) per seguire le tracce, “travestirsi” da utenti (una specialità che ogni servizio segreto pratica da sempre...), risalire ai protagonisti degli illeciti e arrestarli. Ma vuoi mettere la comodità di un codice di decriptazione che ti fornisce elenchi sconfinati di nomi e numeri di telefono senza dover muovere un muscolo e spendere un soldo? Basta chiedere al tycoon di turno, con le buone (soldi) o le cattive (minacce) ed il gioco è fatto.

Proprio il principale tenutario di piattaforme online, Mark Zuckerberg, ha nei giorni scorsi confessato che la gestione dei social da lui controllati è politicamente concertata con il governo degli Stati Uniti (e di Israele, come ben ha capito ogni utente un po’ sveglio...). Anzi, passa i dati e le profilazioni direttamente alle agenzie governative, che così possono decidere indagini o operazioni di ogni tipo senza troppo faticare.

Qui di seguito l’articolo con cui Marinella Mondaini ricostruisce “la confessione”.
Il CEO di Meta Mark Zuckerberg ha ammesso che Facebook, su richiesta delle autorità statunitensi, ha censurato i contenuti relativi al COVID-19, ma non solo questo ha fatto.

Mark Zuckerberg, ha scritto una lettera alla Commissione giudiziaria della Camera dei rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti, dove afferma di rammaricarsi di alcune decisioni prese dalla sua azienda sotto la pressione del governo e di non voler più scendere a compromessi con l’amministrazione.

Nel contesto dell’arresto in Francia di Pavel Durov, a cui hanno cucito addosso un’infinità di crimini legati all’attività del suo Telegram – ben 12: pornografia infantile, droga, rifiuto di collaborare con i servizi di intelligence, ecc. – e nel contesto anche della fuga dall’Europa del fondatore del video hosting Rumble, Chris Pawlowski, minacciato dalle autorità francesi, il CEO di Meta (riconosciuta organizzazione estremista e la sua attività è vietata in Russia), Mark Zuckerberg, è dispiaciuto per non essersi espresso “più apertamente” sulla “pressione del governo” affinché rimuovesse i contenuti relativi al COVID-19.

Zuckerberg ha affermato che nel 2021, gli alti funzionari dell’amministrazione del presidente Joe Biden “per diversi mesi hanno fatto pressioni” su Meta (che possiede Facebook e Instagram) affinché “censurasse” i contenuti riguardo il Covid, “inclusi umorismo e satira”, inoltre esprimevano grande disappunto nei confronti del nostro team quando non eravamo d’accordo”, ha aggiunto.

E nonostante a prendere le decisioni fosse Meta, Zuckerberg ritiene che “la pressione del governo era sbagliata”. “Mi dispiace che non abbiamo parlato più apertamente prima”, ha scritto Zuckerberg al presidente della commissione giudiziaria repubblicana Jim Jordan.

Meta “ha preso alcune decisioni che, guardando indietro e con le nuove informazioni, non prenderemmo oggi”.

“Sono fermamente convinto che non dovremmo compromettere i nostri standard di contenuto a causa delle pressioni di qualsiasi amministrazione in qualsiasi direzione e siamo pronti a reagire se qualcosa del genere dovesse accadere di nuovo”.

Zuckerberg ha anche affermato che nel periodo precedente alle elezioni del 2020, Facebook non avrebbe dovuto, in attesa del controllo dei fatti, “abbassare di prestigio” un articolo del New York Post sulle accuse di corruzione relative alla famiglia del presidente Biden. Stiamo parlando del computer portatile del figlio Hunter Biden, nel quale sono state trovate numerose informazioni compromettenti legate a droga, prostituzione e possesso illegale di armi. Quattro anni fa l’FBI lanciò l’allarme di una potenziale “campagna di disinformazione russa” contro la famiglia Biden. Tuttavia, la storia di Hunter Biden, secondo Zuckerberg, non si è rivelata essere disinformazione russa.

Come volevasi dimostrare, la “disinformazione russa” è la grande vergognosa bufala inventata dalla CIA e ora smettete di diffondere questa fake-news, pennivendoli dei mass-media italiani!

– da Facebook
Diciamo pure che la “mordacchia” pretesa sulle notizie relative al Covid – il presidente era Trump, che ben poco stava facendo per contrastare l’epidemia e quindi pretendeva la “sordina” su quanto stava accadendo – è la parte meno interessante della confessione di Zuckerberg.

Non tutti i bersagli della Casa Bianca hanno inoltre l’esposizione mediatico-politica di Hunter Biden (poi arrestato, anni dopo), che metterebbe in imbarazzo qualsiasi anchorman o giornalistucolo. Per tutti gli altri utenti, almeno quelli “politicamente rilevanti”, che non si limitano a postare foto di gattini e cuoricini, la disponibilità verso “l’amministrazione” è da sempre totale. Altrimenti non campi, direbbe Durov...

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