La convention “dem” di Chicago mostra con grande chiarezza cosa sia rimasto della “democrazia liberale” nel cuore dell’imperialismo occidentale. E quindi, a cascata, in ogni paese della “catena dei subordinati”.
Come potete leggere su tutti i giornali, l’assemblea dei delegati ha incoronato Kamala Harris descrivendo l’evento come una “rinascita”, un risorgere del progressismo, delle minoranze, delle donne, ecc.
Manca completamente qualsiasi indicazione concreta su cosa voglia dire tutto questo. Anche il programma economico, schematizzato su diversi media come “contrapposizione radicale” al programma di Trump, ad un’analisi più attenta rivela ben poche differenze.
Le più significative – ma sono promesse, bisogna ricordare – riguarda la “sanità per tutti” e un programma di rilancio dell’edilizia popolare. Come già sappiamo, che queste proposte diventino leggi e poi politiche concrete dipende da molti fattori, primo fra tutti il controllo della maggioranza al Congresso (niente affatto scontata), perché anche diversi “dem” all’atto pratico sono piuttosto contrari a qualsiasi “intervento dello Stato nell’economia”.
Ma proprio questi due punti “qualificanti” mostrano quanto sia degradata la situazione sociale negli Usa, dove la maggioranza della popolazione non ha accesso alle cure sanitarie oppure deve svenarsi per ottenerle. Mentre sono conoscenza comune le file di senzatetto che dormono in strada e vanno a mangiare presso qualche charity religiosa.
Il liberismo trionfante, in quasi 40 anni di dominio, ha disgregato i ceti poveri e questo è diventato un grande problema sia sociale che politico (anche se la loro partecipazione al processo elettorale è in genere bassissima, ma fa spesso la differenza).
E qui la diversità tra Harris e Trump è più retorica che concreta. La prima promette interventi, il secondo agita paure indicando come responsabili i “nemici esterni” (immigrazione dall’America Latina e concorrenza merceologica cinese).
Ma è retorica tutta la “svolta dem” messa in scena a Chicago. Preso atto che Joe Biden era ormai anche visivamente un “prodotto invendibile”, ossia un vecchio rimbambito (gli inciampi continui nelle sue brevi passeggiata a favore di telecamera, gli impappinamenti e le gaffe nei discorsi pubblici, l’inebetimento nel confronto diretto con “The Donald”, ecc.), l’establishment ha deciso di cambiare cavallo e “narrazione”.
Dal “declino” alla “rinascita della speranza”, rimettendo al centro del villaggio la coppia Obama e molte donne. Tutto molto entusiasmante, se si riuscisse almeno a spiegare come mai questa rinascita non sia neanche baluginata all’orizzonte nei quasi quattro anni di presenza di Kamala Harris alla Casa Bianca. Come vice, certo. Ma non risulta che sia solo una carica onorifica...
Delle due guerre in atto – e dell’incapacità di controllare seriamente almeno i due “proxy” di riferimento (Netanyahu e Zelenskij) – Harris è responsabile quanto Biden. E così del degrado sociale Usa.
Quattro anni di vicepresidenza sono troppi da tenere sotto il tappeto. Quando – come ieri sera – attacca Trump dicendo che “Non sarò mai alleata di dittatori, come ha fatto lui”, è decisamente smentibile, vista la lista di criminali appoggiati o insediati dalla sua amministrazione (in Sudamerica, ma anche in Ucraina e Medio Oriente).
La censura esercitata nei confronti della delegata di origine palestinese – neanche ammessa a parlare, al contrario dell’israeliano familiare di un ostaggio a Gaza – è sufficiente a spiegare come Harris sarà in continuità diretta con la politica guerrafondaia tipica dei “dem”.
E se, come probabile, il riferimento ai “dittatori” riguarda Putin, diventa chiaro che si prepara a rilanciare in qualche modo la guerra contro la Russia. Tutt’altro che “una speranza che rinasce”.
Più semplice, ma certo non rivoluzionaria, la promessa di ripristinare più o meno integralmente alcuni diritti civili come il diritto all’interruzione di gravidanza (ma anche qui: negli ultimi quattro anni cos’hai fatto, su questo?). Sono cose che non costano nulla, portano voti che altrimenti rimarrebbero nell’astensione e garantiscono titoli sui giornali.
Insomma, i “dem” hanno messo in scena una discreta operazione di marketing politico, riciclando con molta inventiva un personaggio che la realtà aveva quasi cancellato. Il che è già un piccolo problema (l’impossibilità di trovare un “prodotto” migliore), che potrebbe diventare importante in una campagna elettorale che certo non risparmierà i colpi bassi.
Ma al di là dei risultati di novembre è importante segnalare che la partita elettorale è soprattutto una campagna pubblicitaria. Non si confrontano idee, programmi, visioni del futuro. Ma slogan, anzi singole parole pescate con cura da professionisti dell’advertizing che possono lavorare indifferentemente per qualsiasi candidato, in patria o all’estero, così come fanno per i detersivi o le automobili.
Una dimostrazione dei veri “valori” difesi dal sistema politico occidentale.
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