Oggi presentiamo ai nostri lettori una intervista di Unsere Zeit, quotidiano dei comunisti tedeschi, a Reem Hazzan, Segretaria internazionale del Partito Comunista Israeliano.
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Oltre 40.000 morti a Gaza, e anche innumerevoli vittime non ancora sepolte, estensione della guerra alla riva destra del Giordano, gli attacchi israeliani a Libano e Siria. È sotto gli occhi del mondo il genocidio dei palestinesi.
Tuttavia, anche in Israele sta crescendo la resistenza alle politiche militari sioniste del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Anche questa resistenza si scontra con la repressione e la violenza, pur essendo “solo” legata alla richiesta di un accordo per il rilascio degli ostaggi israeliani. Di questo e di quali vantaggi il sionismo razzista porti all’imperialismo, Unsere Zeit (UZ) ha parlato con Reem Hazzan, segretaria internazionale del Partito Comunista d’Israele.
UZ: Reem, il mondo è sgomento dalla guerra del governo israeliano contro il popolo palestinese. Può dirci quale atteggiamento abbia la società del suo paese verso il conflitto in corso?
Reem Hazzan: Anni di occupazione, blocco, aumento del militarismo e incitamento contro il popolo palestinese hanno portato la società israeliana a credere che il popolo palestinese non abbia diritto alla vita e alla libertà. A trent’anni dalla firma degli accordi di Oslo, che evidentemente non hanno mai avuto l’obiettivo di creare uno Stato palestinese indipendente, le speranze di pace sembrano irrealistiche e non attuali.
Il governo Netanyahu ha cinicamente approfittato del trauma subito dalle persone dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, per continuare il massacro a Gaza e sabotare qualsiasi possibilità di cessate il fuoco e il raggiungimento di un accordo per tutti.
Inoltre, l’ascesa al potere di gruppi religiosi di estrema destra, che mina anche gli scarsi resti di democrazia, ha portato a una situazione in cui la società ebraica israeliana, spinta dal trauma collettivo, chiede innanzitutto la restituzione degli ostaggi israeliani, ma non un accordo globale, né la fine della guerra genocida a Gaza, né una soluzione a lungo termine.
Il continuo sostegno alle politiche di Israele da parte delle potenze occidentali, guidate dal governo USA, è la testimonianza di atteggiamenti ipocriti e di un doppio standard quando si tratta della vita dei palestinesi. Sono le stesse forze che negli ultimi 20 anni hanno invaso e distrutto Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen e Libia.
Questo tipo di pensiero, questo tipo di sostegno invia alla società israeliana il messaggio che hanno il diritto di uccidere e occupare. Sappiamo bene come funzionino le sanzioni internazionali quando un Paese “sfida” gli interessi occidentali o della NATO. Questo non è il caso di Israele. Il sostegno diplomatico e militare che Israele riceve non testimonia l’intenzione di porre fine alla guerra contro il popolo palestinese.
All’interno della popolazione israeliana c’è una comunità palestinese – palestinesi che sono rimasti nella loro terra e nelle loro case dopo la Nakba del 1948. Dall’inizio della guerra, il fascismo si è chiaramente impadronito dello spirito del governo Netanyahu e della società e questo non può più essere nascosto: repressione, persecuzione di lavoratori, artisti e attivisti, arresti, severe restrizioni a qualsiasi attività politica che sia chiaramente contraria alla guerra a Gaza, persecuzione dei nostri parlamentari e degli autentici ebrei di sinistra in Israele, che si oppongono al genocidio e al militarismo.
Il primo ministro (o principale criminale) Netanyahu ha dichiarato in ottobre che Israele sta combattendo una guerra su quattro fronti: a Gaza, nella Cisgiordania occupata, nel nord – Hezbollah e Iran – e all’interno di Israele, cioè i cittadini palestinesi di Israele.
È un’autentica catastrofe che l’opinione pubblica israeliana non sia interessata o non voglia vedere le distruzioni di massa e la fame a Gaza, la pulizia etnica in Cisgiordania e i crimini quotidiani dei coloni sostenuti e armati dall’esercito israeliano.
Questa guerra ha aumentato i profitti dell’industria israeliana delle armi del 24%. I redditi di oltre 150.000 famiglie in Israele dipendono dall’industria militare. Il sostegno militare che Israele riceve da USA e Europa va certamente a vantaggio delle industrie militari di quei Paesi. Queste aziende hanno bisogno di guerre e conflitti per testare i loro prodotti e assicurarsi che “funzionino”.
Quali sono le conseguenze sociali dell’attuale politica di guerra di Israele?
La nuova previsione di bilancio propone ora di tagliare tutti i “sussidi sociali” per le persone che ne hanno bisogno. Il costo della vita, già terribilmente alto, è aumentato di nuovo in modo significativo. Nuove tasse colpiranno lavoratori, disabili, anziani, genitori single e la classe media, ma non le grandi imprese e il capitale. Il costo della guerra ricade sulle spalle dei lavoratori e degli strati deboli della popolazione – se i ricchi inizieranno a soffrirne, le autorità potrebbero prendere in considerazione un cambiamento.
Decine di migliaia di persone sono scese in piazza in questi giorni e nonostante noi non siamo d’accordo con loro su molte questioni politiche, devo notare l’estrema brutalità con cui la polizia reprime queste proteste. C’è da chiedersi quando queste masse si renderanno conto che questa repressione si ripercuote anche su altri aspetti della loro vita, se questo sistema politico e i valori su cui si basa non verranno radicalmente cambiati. Non ci può essere democrazia con l’apartheid, l’occupazione o il fascismo.
Non è sufficiente chiedere la rimozione di questo governo e il rovesciamento di Benjamin Netanyahu attraverso nuove elezioni: l’intera mentalità e la percezione della realtà devono cambiare, per porre effettivamente fine a questa guerra, e ciò può avvenire solo attraverso un cambiamento interno a Israele, con l’azione dalla pressione internazionale.
Coloro che aspirano alla democrazia in Israele non possono permettere che continuino la guerra, l’occupazione e il fascismo. Questa è un’equazione sbagliata nella storia della lotta dei popoli per la liberazione e la libertà.
Mentre l’esercito israeliano bombarda gli abitanti di Gaza, i coloni sulla riva destra del Giordano hanno aperto un altro fronte contro i palestinesi che vivono là. Può descriverci cosa stia succedendo?
Il fronte sulla riva destra del Giordano è aperto da molto tempo. Da quando questo governo è salito al potere, i pogrom e gli attacchi dei coloni si sono intensificati e dall’ottobre dello scorso anno essi hanno ricevuto piena libertà di azione per commettere qualsiasi crimine contro i palestinesi. Da ottobre, più di 600 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito di occupazione israeliano in Cisgiordania, tra cui più di 140 minori.
Già nel 2017, l’attuale ministro delle Finanze Bezalel Smotrich (anch’egli un colono) ha presentato il “Piano di risolutezza di Israele”, una chiara direttiva alle agenzie governative per iniziare i preparativi per l’insediamento di un altro mezzo milione di coloni sulla riva destra del Giordano. Ciò significa che, secondo i suoi piani, non ci sarà mai uno Stato palestinese indipendente all’interno dei confini del 1967 e sulla Riva Destra non ci saranno più palestinesi per realizzare il piano.
Le comunità palestinesi sulla Riva Destra sono quotidianamente attaccate dai coloni controllati e armati dall’esercito israeliano. Rubano il bestiame, distruggono i raccolti e bruciano auto e case. I quotidiani attacchi fisici hanno portato circa 20 di queste comunità a lasciare la loro terra in cerca di un luogo più sicuro in cui vivere.
L’invasione del campo profughi di Jenin da parte dell’esercito israeliano, la distruzione delle infrastrutture, delle case e delle aziende, i bombardamenti con i droni sui civili e la soppressione di qualsiasi segno di resistenza all’occupazione in tutta la Cisgiordania rendono evidente la volontà di rendere questi luoghi inabitabili, proprio come la Striscia di Gaza.
A luglio, la Corte internazionale di giustizia dell’ONU ha stabilito che gli insediamenti ebraici sono illegali. Come vengono percepite dalla società israeliana queste decisioni di un tribunale internazionale o le risoluzioni ONU?
All’epoca della Nakba e ancora oggi, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, l’obiettivo del governo israeliano è quello di ottenere la supremazia razziale in tutti i territori che controlla. L’appropriazione delle risorse naturali, l’espulsione delle persone dalle loro terre – tutto questo è colonialismo moderno al servizio dell’imperialismo.
Già da tempo gli insediamenti in Cisgiordania sono riconosciuti come illegali, anche dal governo USA e dall’Unione Europea. Ma non sono stati compiuti passi concreti per trarre e attuare le conclusioni di questa valutazione e per compiere ogni sforzo per smantellare gli insediamenti e stabilire uno Stato palestinese indipendente sui confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale e non è stata adottata alcuna soluzione che faciliti il ritorno dei rifugiati, in conformità con le risoluzioni ONU.
Da 77 anni Israele ignora le risoluzioni ONU e del Consiglio di Sicurezza. Per decenni, i governi israeliani hanno ignorato, senza conseguenze, il diritto internazionale. È possibile che, in passato, gli esponenti politici israeliani svolgessero in maniera migliore il proprio ruolo diplomatico a livello internazionale, ma oggi il mondo assiste alla distruzione di un intero popolo.
Quando i principali media israeliani riproducono sistematicamente la posizione e l’agenda del governo, l’opinione pubblica interiorizza proprio questo. Quindi, perché la massa fondamentale degli israeliani dovrebbe pensare che sia sbagliato se Israele è stato esentato da responsabilità in ogni guerra? Perché l’israeliano medio del 2024, dopo anni di lavaggio del cervello da parte dei media e del sistema educativo, dovrebbe rispettare il diritto internazionale o le sue risoluzioni, quando i governi israeliani che si sono succeduti ridicolizzano le Nazioni Unite, mentre e gli USA pongono il veto su ogni decisione importante?
La società israeliana non rispetta quelle risoluzioni perché il suo governo, dal 1947, non è mai stato chiamato a rispondere per la loro violazione.
Le manifestazioni di massa che chiedono la fine di questa guerra e della pulizia etnica danno grande forza alla lotta e alla resistenza del popolo palestinese. Esse devono maturare in reali cambiamenti politici in rapporto al sostegno militare e agli sforzi per il riconoscimento dello Stato palestinese, poiché ciò può avere un impatto diretto sullo status dei palestinesi.
Lei ha già parlato della repressione delle proteste antigovernative. Lei stessa è stata arrestata dalla polizia in agosto. Che cosa è successo?
Israele è da tempo sulla strada del fascismo. Apartheid, razzismo e nazionalismo estremo sono diventati fenomeni abituali. Da ottobre, noi, membri del Partito Comunista di Israele, siamo stati i primi a scendere in piazza contro la guerra. Le nostre proteste sono state represse e tutte le attività che avevamo programmato sono state vietate dalla polizia, anche quelle all’interno di locali!
Ad Haifa, la sezione locale del Partito Comunista d’Israele, nell’ambito della nostra campagna di aiuti umanitari #Think_Gaza, campagna che abbiamo lanciato a maggio per raccogliere fondi per gli aiuti umanitari e medicinali nella Striscia di Gaza, aveva programmato la proiezione del nuovo film del regista e compagno Muhammad Bakri, “Janin Jenin” (“Il frutto di Jenin”, sequel del film del 2002 sul campo di Jenin “Jenin, Jenin”, proibito da un tribunale israeliano nel 2022).
La destra fascista ha iniziato a perseguitarci pochi giorni prima dell’iniziativa. Sono stata fermata e interrogata dalla polizia per diverse ore perché, a loro dire, volevamo proiettare un film vietato. Poi sono stata rilasciata, ma il giorno dopo sono stata convocata in tribunale e ho ricevuto l’ordine del capo della polizia di Haifa di chiudere i nostri uffici, affermando che la proiezione del film avrebbe causato “problemi o disordini”.
La polizia sapeva che si trattava di un film diverso e sapeva anche che non poteva vietarci di proiettarlo. Così hanno fatto ricorso ad altri mezzi che hanno permesso loro di chiudere i nostri uffici. Si è trattato di un fatto che non avevamo sperimentato nemmeno durante il regime militare terminato nel 1966. Si è trattato di un’ulteriore dimostrazione di fascismo. La polizia è diventata uno strumento nelle mani di Itamar Ben-Gvir per reprimere i palestinesi e la sinistra in Israele.
Chi altro, se non un governo criminale, tendente all’escalation, avrebbe affidato il Ministero della sicurezza interna a un uomo condannato per atti terroristici?
Il Partito Comunista d’Israele è l’unico partito in Israele che comprende rappresentanti di entrambi i popoli. I comunisti basano le proprie posizioni sull’analisi di classe marxista. In che misura possiamo intendere il conflitto tra Israele e Palestina come conflitto di classe?
In Israele, come in altri paesi del mondo, esistono effettivamente una borghesia, una classe operaia, una classe media, una piccola borghesia, uno strato di operai e impiegati relativamente privilegiati e, naturalmente, strati che soffrono di disoccupazione cronica, oltre a vari gruppi marginali. Tutti ciò esiste, ma, dato il ruolo che il colonialismo e il razzismo hanno avuto fin dall’inizio nel formare la struttura di classe, il concetto di classe proprietaria (il rapporto tra classe e posizione rispetto ai mezzi di produzione) non è sufficiente a descrivere la complessa realtà sociale in cui viviamo e sulla quale stiamo cercando di influire.
In altre parole, le divisioni tra ebrei e arabi, tra ebrei e non ebrei, tra gruppi etnici e religiosi diversi e tra gli abitanti di diversi tipi di insediamenti, hanno un grande significato per la differenziazione socio-economica e la formazione delle classi e dei rapporti di potere sociale in Israele.
È impossibile descrivere le classi in Israele e ignorare il loro colore, così come la discriminazione contro gli arabi non può essere vista solo come una questione nazionale, che non influisce sul loro status sociale, così come è sbagliato considerare la questione dei Mizrahim [“ebrei orientali”, discendenti delle comunità ebraiche del Nord Africa e dell’Asia] come una questione puramente culturale.
Come è possibile nascondere e rendere invisibile agli occhi della società la lotta di classe? Sovrapponendovi la lotta nazionale, temendo gli “altri” e creandosi attivamente dei nemici, come in questo caso.
Questa non è una lotta tra arabi ed ebrei, è una lotta tra i palestinesi – e i popoli arabi della regione – e il sionismo, un movimento colonialista razzista, che rivendica la proprietà esclusiva di questa terra e di altre terre. Non sono sicura che questo possa essere definito un conflitto tra Israele e Palestina, dal momento che non esiste uno stato palestinese sovrano. Israele conduce una guerra contro il popolo palestinese.
Abbiamo sempre definito il movimento sionista come un movimento razzista e come uno strumento dell’imperialismo nella regione e, di conseguenza, non solo come un oppressore delle comunità locali, ma anche come un benefattore delle multinazionali e degli interessi internazionali.
La lotta di classe in Israele è molto ben nascosta. Ci stiamo impegnando per renderla visibile, evidenziando gli interessi comuni dei lavoratori di entrambi i popoli di fronte alle politiche neoliberiste, alle privatizzazioni, all’aumento del costo della vita e all’attacco del governo ai diritti dei lavoratori.
Non è facile perché le politiche e le pratiche razziste in Israele favoriscono per legge gli ebrei rispetto ai cittadini palestinesi in quasi tutte le sfere: istruzione, trasporti, aree industriali, finanziamenti alle amministrazioni locali e sviluppo delle infrastrutture.
Per far progredire il comunismo, la società socialista, dobbiamo eliminare lo sfruttamento e l’oppressione, quale obiettivo strategico. Per costruire la solidarietà e permettere ai diversi gruppi di vedere lotte comuni, dobbiamo dare spazio e legittimità alle lotte concrete di ogni gruppo, e rafforzare i diversi gruppi in questo senso. Sopprimere la percezione di aspetti razzisti (arabo-ebraici) o discriminatori tra i diversi gruppi ebraici è di per sé una copertura e un’ignoranza dei rapporti di potere in questa società.
In questo mondo dobbiamo ampliare le nostre definizioni di classe e rapporti di potere, per meglio definire e caratterizzare gli obiettivi della nostra lotta. Proprio per questo, noi del Partito Comunista d’Israele affermiamo che la collaborazione arabo-ebraica nella società israeliana sia il mezzo appropriato per distruggere e smantellare queste strutture di oppressione e sfruttamento, e anche il mezzo per costruire una società libera dalla superiorità razziale, dal colonialismo e dallo sfruttamento dei lavoratori.
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