di Michele Giorgio
Con un tempismo che solleva inevitabili interrogativi, al Fath al Mubin un’alleanza che racchiude gruppi jihadisti guidati da Hay’at Tahrir ash-Sham (Hts, l’ex Fronte al Nusra, ramo siriano di Al Qaeda), ha lanciato due giorni fa un massiccio attacco a sorpresa, il più ampio dal 2019, contro l’esercito siriano ad est di Idlib, conquistando rapidamente oltre venti villaggi, 250 kmq di territorio e arrivando a meno di cinque chilometri da Kasr al Asal, la porta di Aleppo. Il «maggiore» Hassan Abdul Ghani, portavoce della cosiddetta «Operazione deterrenza all’aggressione», ieri parlava di «crollo» delle fortificazioni dell’esercito siriano e delle milizie alleate – tra i morti ci sarebbe un generale iraniano, Qamart Bourhashemi, comandante dei Pasdaran nella regione di Aleppo – e della conquista di mezzi corazzati e depositi di armi. È stata occupata anche buona parte di Saraqib, città situata in una posizione strategica nei pressi dell’autostrada M5 che corre da Damasco ad Aleppo ed arteria fondamentale per l’invio di rinforzi governativi nel nord.
Non è chiaro il ruolo della Turchia, ma Ankara attraverso fonti della sua sicurezza, fa sapere di essere compiaciuta dall’offensiva in corso contro il presidente Bashar Assad. Secondo le fonti turche, l’attacco intorno ad Aleppo starebbe avvenendo nei confini dell’area di de-escalation a Idlib concordata nel 2020 da Russia e Turchia. Da parte sua Hts spiega l’offensiva come una reazione a recenti attacchi dell’esercito a ridosso di Idlib porzione di territorio siriano che, 13 anni dopo l’inizio della guerra civile, resta nelle mani delle formazioni islamiste appoggiate dal leader turco Recep Tayyip Erdogan.
Non si può non constatare come l’attacco sia avvenuto mentre Israele, attraverso il suo premier Netanyahu, lancia pesanti avvertimenti a Damasco che farebbe transitare verso il Libano rifornimenti di armi per il movimento sciita Hezbollah. «In Siria stiamo impedendo sistematicamente i tentativi di Iran, Hezbollah e dell’esercito regolare di trasferire armamenti in Libano. Assad deve capire che sta giocando con il fuoco», ha ammonito Netanyahu qualche giorno fa, poche ore prima degli attacchi dell’aviazione israeliana, con sei morti, sulla frontiera tra Siria e Libano. Lo scorso 21 novembre, 81 persone sono state uccise da violenti raid aerei su Palmira. Non sono passate inosservate, peraltro, foto che ritraggono i miliziani di Hts con uniformi, elmetti di ultima generazione e armi automatiche di solito in dotazione a soldati di unità speciali. L’organizzazione qaedista, dicono i media governativi, starebbe facendo uso di droni ucraini – più probabilmente di fabbricazione turca – per colpire gli avversari.
Gli scontri a fuoco sono intensi e hanno causato la morte di circa 200 combattenti, decine dei quali soldati delle forze governative che hanno reagito con pesanti bombardamenti aerei (anche degli alleati russi): una dozzina di persone sono rimaste uccise. Sebbene Hts si sforzi di far apparire la sua offensiva come una operazione limitata, è impensabile che un tale impiego di forze, accompagnato da un sostegno finanziario di origine ignota, non sia finalizzato a mettere sotto pressione Aleppo. Un altro obiettivo è quello di rimettere in moto le proteste contro Damasco in città chiave come Homs e Deraa dove Assad è contestato. «La preoccupazione nella capitale è elevata» ci diceva ieri una fonte internazionale in Siria «alcuni credono che dietro l’avanzata di Hts ci siano Israele e Stati uniti con l’intenzione di costringere Damasco a fermare i rifornimenti di armi per Hezbollah e a rinunciare al sostegno iraniano». Altri affermano che ora Teheran, in cambio degli aiuti militari necessari per ricacciare indietro Hts, farà pressioni più forti su Assad per spingerlo a lasciarsi coinvolgere maggiormente nello scontro con Israele.
Da considerare anche che Hts, i suoi alleati e Ankara hanno accolto con rabbia la proposta dell’Unione europea di nominare un inviato speciale per la Siria segnalando un atteggiamento più morbido nei confronti di Damasco dopo aver mantenuto per anni la politica dei «tre no»: nessuna normalizzazione, nessuna revoca delle sanzioni e nessun aiuto alla ricostruzione senza progressi politici a favore dell’opposizione. Tuttavia, negli ultimi tempi la rigidità ha lasciato il posto al pragmatismo e proprio l’Italia è stato il primo paese europeo a inviare di nuovo l’ambasciatore a Damasco.
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