Si moltiplicano le preoccupazioni e anche l’orrore per le nomine dei prossimi ministri che Donald Trump sta annunciando quasi ogni giorno. Una lista di “mostri”, in effetti, che sembra il casting per un film di Tim Burton, ma che non fa ridere. Più La svastica sul sole, diciamo...
Trattandosi del governo degli Stati Uniti, naturalmente, mettere certe figure su certe poltrone implica conseguenze ed effetti su molti piani, sia interni che internazionali. Proviamo perciò ad articolare minimamente l’analisi, senza farci prendere soltanto dalle scontate lesioni del “bon ton” che tanto affascinano i liberaldemocratici nostrani (ma riservando un punto anche per loro, importante per la dialettica politica sia italiana che europea).
Quali Stati Uniti secondo Trump?
Sembra evidente che per questo nuovo mandato Trump punti davvero a realizzare i cambiamenti che aveva in mente e non gli sono riusciti dopo l’elezione del 2016. La causa di quel fallimento stava nella stessa debolezza della sua vittoria, risicata, su Hillary Clinton e soprattutto sul mancato controllo del Congresso.
L’idea di sottrarsi a quello che si usa definire “deep state” non si è concretizzata. Ogni atto politico rilevante è stato sottoposto a una dura contrattazione che ne ha limitato in varia misura la portata “riformista” (tranne forse che per gli immigrati dall’America Latina).
Dunque la squadra che sta mettendo in piedi mostra in trasparenza le linee fondamentali della “svolta”. A preoccuparsene, per primi, devono essere certamente i cittadini statunitensi, ormai bersaglio di uno choc epocale che ricorderanno a lungo.
Si è parlato molto, ovviamente, della nomina di Elon Musk, alla guida del nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa (Doge), in collaborazione con il “patriota” Vivek Ramaswamy: “Questi due meravigliosi americani spianeranno la strada alla mia amministrazione per smantellare la burocrazia governativa, tagliare normative eccessive e spese inutili, ristrutturare le agenzie federali essenziali per il movimento ‘Save America’. Diventerà, potenzialmente, il progetto Manhattan dei nostri tempi”.
Fuori di retorica, una drastica “semplificazione” dell’amministrazione pubblica ad ogni livello (da quello federale ai singoli Stati) che porterà in mezzo alla strada diverse migliaia di dipendenti pubblici (dai manager agli impiegati comuni). Possibile, certamente, grazie a un bel po’ di spietatezza anti-umana e alle innovazioni tecnologiche, soprattutto informatiche.
Con un debito pubblico da tempo immemorabile fuori controllo (non si fanno guerre gratis...), del resto, il rischio è di finire come la Grecia di dieci anni fa: preda dei capitali speculativi che Washington ha servito per decenni...
Naturalmente una iper-informatizzazione dell’amministrazione pubblica allontanerà ancora di più le quotidiane necessità della popolazione più povera e le possibili risposte del “centro”. Basta aver fatto l’esperienza di un “risponditore automatico” per capirlo.
Ma siamo certi che Musk, in quel ruolo, sarà capace di sorprese tali da stravolgere l’architettura complessiva e la logica di funzionamento dell’intera macchina amministrativa. In senso omicida, ovvio...
Non appare più tranquillizzante la prospettiva di veder affidata la “sicurezza interna” alla governatrice del South Dakota Kristi Noem, nota alle cronache perché voleva far scolpire il volto di The Donald tra quelli di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln nel monumento nazionale del Monte Rushmore, nel suo Stato. Ma ancora di più per essersi vantata, nella sua autobiografia, di aver ucciso a fucilate il suo cane da caccia perché “inaddestrabile”.
Idem si potrebbe dire per un altro suo fedelissimo, John Ratcliffe, messo a capo della Cia: “È sempre stato un combattente per la verità e l’onestà. Quando 51 funzionari dell’intelligence mentivano sul laptop di Hunter Biden, ce n’era uno, John Ratcliffe, che diceva la verità. Non vedo l’ora che sia la prima persona a ricoprire entrambe le posizioni più alte dell’intelligence del nostro Paese”. Tempi duri per chi è fuori dal cono d’ombra trumpiano...
Rischieranno ancora di più la vita e la libertà gli immigrati ancora non regolarizzati, presenti e futuri, grazie alla nomina come nuovo responsabile della frontiera degli Stati Uniti di Tom Homan. Uno che in campagna elettorale – in occasione di un festival paranazista, mentre era circondato da sostenitori di qAnon, complottisti e leader di chiese vestiti con corone di proiettili (avevano smarrito il rosario?...) – ha difeso la politica di separazione delle famiglie al confine meridionale americano.
Non contento, Homan ha garantito che gestirà “la più grande operazione di espulsioni che questo paese abbia mai visto”. Gli si può credere sulla parola, visto che è già stato uno dei principali artefici della politica di “tolleranza zero” portata avanti dalla prima amministrazione Trump, che ha separato con la forza più di 5.000 bambini dai loro genitori, tra il 2017 e il 2018.
Polemiche immediate per la scelta di Matt Gaetz come nuovo ministro della Giustizia. Già messo sotto inchiesta per “traffico sessuale” e per “rapporti inappropriati” (tra cui quello con una ragazza minorenne) è stato poi scagionato nel solito modo ambiguo della giustizia americana: decisione di non procedere, motivata da una mancanza di prove sufficienti e dall’affidabilità discutibile di alcuni testimoni chiave.
Questo però potrebbe non essere sufficiente per veder ratificata la nomina dal Congresso, vista la contrarietà anche di diversi deputati repubblicani.
Il tema giustizia è ovviamente molto “caldo” nelle discussioni italiane e eccita l’opinionismo liberal-liberista. Che però si guarda sempre dal nominare il vero problema del sistema giudiziario Usa: lì i “procuratori” – ossia i rappresentanti all’accusa – sono esponenti politici eletti dalla popolazione e non magistrati di carriera (lo sono invece i “giudici” che gestiscono il dibattimento in aula).
La carica di procuratore, lì, costituisce a tutti gli effetti uno dei gradini indispensabili per arrivare a quelle politiche di vertice (deputato, governatore, ecc.). E dunque non ha senso applicare a quel sistema le categorie italiane. Per esempio: la scelta dei reati da perseguire è totalmente “politica”, negli Usa, visto che chi deve procedere lo fa per garantirsi una carriera politica e soddisfare il mutevole umore dell’elettorato.
Certo, Trump vuole vendicarsi di tutti i procuratori (e anche di qualche giudice) che lo hanno più volte messo sotto inchiesta. Chiara la sua intenzione anche per la nomina di due suoi avvocati ai vertici del ministero della Giustizia: si tratta di Todd Blanche, come vice procuratore generale, ed Emil Bove, come principale vice procuratore generale associato e vice procuratore generale facente funzione.
Ma nessuno, da quelle parti, è davvero “imparziale”.
L’America contro il resto del mondo
Anche qui il “programma” sembra piuttosto chiaro: sostegno totale al genocidio che Israele sta compiendo a Gaza, in Cisgiordania e in Libano; riduzione drastica del sostegno all’Ucraina (scaricando costi e rischi sull’Unione Europea); guerra all’Iran e “confronto duro” con la Cina. Silenzio sull’America Latina, che torna nella loro testa a schiavistico “cortile di casa”.
È la stessa politica del primo mandato, ma allora non c’era un genocidio in diretta, Israele non aveva lo stigma di Stato-killer e quindi era meno isolata, ma soprattutto non esistevano ancora i Brics+, che oggi comprendono – oltre a Russia, Cina, Brasile, India e Sudafrica – anche l’Iran e diversi paesi islamici (con decine di altri pronti all’ingresso).
Le scelte dei responsabili di politica estera sembrano perciò tutte molto old style, rozzamente suprematiste e fuori tempo massimo, come se il mondo fosse ancora quello di dieci o venti anni fa. Cosa che garantisce scontri pesanti, rischi militari crescenti, ma anche risultati probabilmente scarsi (Cina e Russia sono potenze nucleari decisamente poco ricattabili).
Cominciamo dal possibile nuovo capo del Pentagono, il 44enne Pete Hegseth, veterano di guerra pluridecorato e conduttore di Fox News. Il suo curriculum militare è quello di una bestia da combattimento, pericolosa per sé e per gli altri, non certo quello di uno stratega in grado di soppesare pro e contro di ogni mossa per l’esercito – forse – più potente del mondo.
Ex militare di fanteria della Guardia Nazionale tra il 2002 e il 2021, ha concluso con il grado di maggiore. Vanta undici mesi di servizio in Iraq nel 2006, e otto mesi in Afghanistan nel 2011. Per completare il quadro, è stato anche di guardia nella base-prigione di Guantanamo, tra il 2004 e il 2005.
Ama farsi fotografare a dorso nudo, così da mostrare una croce di Gerusalemme tatuata sul petto, simbolo dei suprematisti bianchi in odore di Ku Klux Klan. Poi anche lui è inciampato in denunce per molestie e violenze sessuali, per di più a carico di minorenni.
Anche le sue scarse sortite politiche confermano il giudizio: nel 2019 ha convinto Trump a graziare 3 soldati accusati di crimini di guerra per l’uccisione di civili in Iraq. Una vera garanzia, per il futuro.
Non è però detto che la sua nomina venga confermata, troppi repubblicani – oltre a tutto il vertice del Pentagono, probabilmente pronto a metter mano alla pistola pur di non farsi comandare da un tizio del genere – lo ritengono troppo al di sotto degli standard minimi per ricoprire un ruolo così importante.
Ma è per l’intero Medio Oriente che si annunciano, se possibile, tempi ancora peggiori. L’incarico di inviato presidenziale per l’area alle nostre porte viene affidato a Steven Charles Witkoff, un immobiliarista come Trump, proprietario terriero, avvocato.
È anche un sionista e persino il quotidiano israeliano Haaretz lo indica tra i “grandi amici e mega-donatore” sia di Trump (stava giocando a golf con lui, durante il presunto “attentato” concluso senza uno sparo) che di Israele, ma “senza alcuna esperienza diplomatica”.
Il personaggio “giusto”, insomma, per districarsi “imparzialmente” nell’area più complicata e divisa del mondo. Ma se hai già un committente unico di riferimento, che problema è?...
La conferma arriva anche dal prossimo ambasciatore Usa in Israele, incarico affidato a Mike Huckabee, un pastore battista e telepredicatore nell’Arkansas, laureato in teologia biblica, noto anche per aver chiesto la condanna a morte per Julian Assange e gli altri responsabili di WikiLeaks. Un altro mostro di moderazione e imparzialità, insomma...
Così come non sembra una cosa saggia l’aver nominato il deputato Mike Waltz come consigliere alla sicurezza nazionale: “È un leader rinomato nella sicurezza nazionale – ha detto lo stesso Trump – e un esperto delle minacce poste da Cina, Russia, Iran e dal terrorismo globale”, è un “forte sostenitore dell’agenda della mia politica estera e sarà un sostenitore della pace attraverso la forza”.
In effetti Waltz viene dai “Berretti verdi” e dai reparti speciali (come Netanyahu, peraltro), pluripremiato per i 27 anni di missioni di combattimento all’estero. Un vero pacifista “attraverso la forza”, non c’è dubbio...
In questa orrenda compagnia rischia di fare la parte del “moderato” il senatore Marco Rubio, indicato come Segretario di Stato, ossia ministro degli esteri dopo Anthony Blinken (altro “moderato” che si presentò da solo come “ebreo di origine ucraina”, regalandoci subito dopo due guerre pro domo sua). Eletto al Senato nel 2010, è sempre stato un falco in politica estera, adottando linee dure nei confronti di Cina e Iran in particolare. Del resto, è un ex cubano anticastrista, che volete pretendere da uno così?
A completare la squadra dei mostri – in attesa di possibili sorprese per i posti ancora vacanti o per le probabili bocciature (Pete Hegseth sta già saltando, pare) – ci sono poi due insuperabili mattacchioni. Il primo, Lee Zeldin, è stato messo alla guida dell’Environmental Protection Agency. Trump dice di lui “è stato un vero combattente per le politiche America First e garantirà una deregolamentazione giusta e rapida fissando nuovi standard sull’ambiente, che consentiranno agli Stati Uniti di crescere in modo sano e ben strutturato”.
In pratica un incompetente totale, anche lui un sionista di ferro nonché neocon di lunga data, che dovrà badare solo a distruggere qualsiasi normativa ambientalista che possa anche lontanamente puzzare di “ostacolo alle imprese”. È la nuova visione Usa, già colta da Milei e altri pazzi scatenati, che affossa le molto tiepide e perciò inutili “Cop” che ogni anno ripetono la stessa pantomima.
Proprio come il punto di collasso della famiglia Kennedy, con quel “Robert no vax” messo a sorvegliare la sanità statunitense. Il capitalismo che rinuncia alla scienza e alle sue conquiste (ovvio che ci siano anche speculazioni, ma sono sempre secondarie) è un capitalismo che sta tirando le cuoia e decide di farla finita prima. E questa sembra un po’ la cifra di tutta “la squadra” selezionata da Trump...
Una prima valutazione
È chiaramente una squadra d’assalto ad istituzioni, abitudini, formalità, interessi e complicità interne all’establishment yankee, che aveva garantito sia l’immagine “democratica” degli Usa – due partiti praticamente identici, con distinzioni marginali dettate o dai gruppi capitalistici di riferimento o da necessità oggettive comunque a costo zero (tutta la retorica sui “diritti civili” adottata solo per svalutare quelli “sociali”, come salario, stabilità occupazionale, welfare, ecc.), sia una gestione del potere complessivo al tempo stesso autoritaria e vagamente “efficiente”. Specie quando si tratta(va) di entrare in modalità “guerra”.
Sembra perciò prevedibile una fase di conflitto interno piuttosto acuta anche se complicata da leggere. Per esempio, sarà abbastanza semplice licenziare decine di migliaia di dipendenti pubblici, più difficile rimuovere generali, direttori e manager in possesso delle chiavi di funzionamento di un baraccone esteso e multilvello. Specie se si troverà di fronte – come appare chiaro dai profili dei nuovi “ministri” – una pletora di tecnicamente incompetenti, ma feroci, determinati e al servizio di un “commander in chief” comunque ottantenne.
Ci saranno insomma scontri interni durissimi, sia per difendere (o conquistare) posizioni decisive e molto remunerative, sia per evitare che degli imbecilli senza cervello prendano possesso di “stanze dei bottoni” dal cui interno si può scatenare la fine del mondo o del funzionamento degli Stati Uniti. Il che magari potrebbe diventare anche una buona notizia per il resto del mondo, meno strangolato da un “egemone” ciclotimico e in debito di ossigeno.
Tempi duri per i cittadini Usa, insomma, anche se certo non come per i palestinesi, ancor meno considerati da un governo ora pieno di sionisti militanti e militarizzati.
Turbolenta anche la filiera dei rapporti internazionale, specie verso Cina e Iran, mentre paradossalmente potrebbe essere la Russia ad avvantaggiarsi sul breve periodo. Sullo scarico dell’Ucraina alle “cure europee” non ci sono praticamente molti dubbi, anche se la banda Biden prova a lasciare una gatta da pelare più problematica procedendo a finanziamenti e invii di armi straordinari da qui al 20 gennaio.
Unanime la previsione che sarà perciò l’Unione Europea – già di suo messa malissimo quanto a progettualità, coesione e agilità operativa – a rischiare danni ciclopici dopo aver sbracato completamente di “sovranità” rispetto alle scelte strategiche sempre imposte proprio dagli Usa.
La telefonata di Scholz a Putin è il primo segnale che la sofferenza europea sta montando sopra i livelli di guardia.
Lo stile reazionario che manda al macero il liberalismo
Non è secondario neanche il cambiamento di stile e di linguaggio che la nuova amministrazione Usa sdogana a livello globale, benedicendo le destre imperialiste come pienamente legittimate a rappresentare il volto “hard” delle ormai superate “democrazie occidentali”.
Chi ha visto il film The apprentice ha potuto anche imparare le “tre regole” apprese da Trump durante il “tutoraggio” fornitogli da Roy Cohn, avvocato sionista e “patriota yankee” che aveva fatto finire sulla sedia elettrica i coniugi Rosenberg, anche loro ebrei ma non sionisti, anzi addirittura “filo-sovietici”.
1) “Attacca sempre”, 2) “nega anche l’evidenza”, 3) “non ammettere mai una sconfitta”.
È semplicissimo vedere queste regole applicate ogni giorno non solo da Trum, ma anche da personaggi minori come Meloni, Salvini, Le Pen, Orbàn, Macron, nonché da genocidi come Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich; ovvero il governo di Israele e “la sua vera anima”.
Non si tratta però di regole che lasciano immutata la dialettica politica, sia interna ad un paese che nelle relazioni internazionali. La visione sottostante alle “tre regole” è infatti assolutamente suprematista, fondata sulla certezza di doversi imporre senza nulla concedere a qualunque avversario. Vale per un concorrente economico, un altro partito politico, un altro paese... chiunque.
Questo implica la distruzione di qualsiasi “quadro regolativo dei conflitti”, dunque di qualsiasi legge, sia nazionale che internazionale; e naturalmente delle istituzioni relative: magistratura, Congresso, le Costituzioni, Onu, Unifil, e così.
I liberaldemocratici – impropriamente chiamati “sinistra” – sono cresciuti raccontando e fingendo che “le regole” fossero una cornice formale in grado di decidere cosa è bene e cosa è male, di disciplinare ogni tipo di concorrenza, ogni competizione.
Sono stati dei falsari consapevoli, perché pienamente coscienti che sotto la formalità del “bon ton” discorsivo e del “rispetto delle regole formali” si consumavano distruzione dei diritti individuali e collettivi, prevalere del potere economico su ogni altro, imposizione della volontà dei più forti, concentrazione dei poteri e della ricchezza in pochissime mani.
Ora sono già fuori gioco, anche se fingono di non essersene accorti. Si “scandalizzano” per le sortite di un Trump come di un Salvini, berciano ammiccando sulle volgarità di un Crippa, una Meloni, un Del Mastro. La loro “difesa della democrazia” – essendo fondata su formalismi – è in realtà l’esposizione di un “galateo” cui nessuno più si attiene. Tanto meno chi da suprematista, piccolo o grande che sia, ragiona sul principio della forza, dell’imposizione, del fatto compiuto, del “e allora, che mi fai?”
La loro critica dei neonazisti che salgono al potere è un bacchettare da professorini dei Parioli mandati per errore in una caserma di golpisti. E subiscono quasi senza reagire – basta riguardarsi il confronto tra Gruber, Santoro e Salvini su La7 – scuotendo la testa con esibita riprovazione e totale impotenza.
Erano stati proprio loro, oltre 30 anni fa, a scalzare il discorso e il “modello sociale” socialdemocratico dal novero delle cose accettabili, in nome del “mercato” e dell'“austerità”. Ora tocca a loro scomparire dalla scena, sia delle idee che della pratica politica.
L’Occidente ha perso ormai la sua egemonia e la sua credibilità morale. Il resto del mondo, cresciuto enormemente quanto ad economie e consapevolezza di sé, pur presentando economie e sistemi sociali molto diversi tra loro, sta procedendo in direzione di un altro ordine internazionale che punta a “comprendere” anche l’Occidente, ma senza più alcuna sua supremazia.
Il fatto è che il benessere occidentale è stato costruito non solo sulla potenza industriale e militare, ma soprattutto sulla rapina sistematica delle ricchezze e delle risorse del resto del mondo. Senza quel “valsente”, insomma, non è più in grado di produrre ricchezza al ritmo che mondo che cresce. E rischia ormai seriamente anche la coesione sociale in casa propria.
La reazione dell’America di Biden (e Obama, e Clinton) è stata per 30 anni quella classica del “divide et impera”, dell’aggressione unilaterale e ingiustificabile (se non con le chiacchiere su “democrazie” contro “autocrazie”) contro paesi più deboli e impossibilitati a difendersi. Con “guerre asimmetriche”, l’ultima delle quali è quella di Israele che vuol azzerare l’intero popolo palestinese.
Guerre asimmetriche che hanno risollevato e rafforzato il suprematismo occidentale, travestito però da “buonismo liberal” (persino le guerre erano diventate “umanitarie”!).
Come si è visto in Ucraina (ma le avvisaglie risalgono già all’Afghanistan, abbandonato in fretta e furia), quello schema non è applicabile contro dei “pari grado”, ossia potenze nucleari.
Di qui la diversa reazione dell’America di Trump. Nostalgica, reazionaria, retrograda nonostante il vitalismo tecnologico dei Musk, decisa a ricostruire una capacità industriale che ha perso definitivamente e per scelta del grande capitale multinazionale (che corre sempre dove il lavoro costa meno, delocalizzando).
Sono suprematisti tanto quanto i liberaldemocratici, ma non lo nascondono più, non fanno neanche finta di vergognarsene per potersi presentare a tavola come gentleman. Sono dei bruti come i predecessori, ma se ne vantano.
Paradossalmente può essere un momento di chiarimento definitivo, dentro l’Occidente, per ricordare che le vere differenze sono quelle tra le classi sociali, non tra uno sfruttatore in guanti bianche e uno con le mazze.
Ma il mondo è più avanti. Sarà doloroso capirlo, e faranno di tutto per restare “supremi”.
Allacciate le cinture.
Fonte
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