Ricorrere al Chapter 11, la principale norma fallimentare statunitense (protezione dai creditori), non è come dichiarare bancarotta qui da noi. Ogni legislazione ha le proprie particolarità, come sa bene Donald Trump, che usando questa legge ha costruito un impero.
In sostanza, significa essere insolventi e chiedere di ristrutturare il proprio debito. Ed è questo che ha fatto la società svedese Northvolt, che ha approfittato anch’essa del fatto che il Chapter 11 può essere richiesto anche da chi anche semplicemente opera sul territorio statunitense.
Northvolt è una start-up che tra i co-fondatori ha avuto Peter Carlsson, ex dirigente della Tesla e ormai anche ex amministratore delegato dell’azienda scandinava. L’idea di fondo era quella di usare l’ampia disponibilità di energia elettrica del nord della Svezia per produrre batterie.
Questa, nelle speranze europee, doveva essere uno dei pilastri su cui la UE avrebbe costruito una autonoma filiera dell’auto elettrica. Difatti dalla sua fondazione, avvenuta nel 2016, aveva raccolto oltre 10 miliardi di finanziamenti e poteva contare su di un portafoglio ordini intorno ai 50 miliardi di dollari.
Era considerata così strategica che la casa tedesca Volkswagen vi partecipava con un investimento di 1,4 miliardi di dollari, mentre il suo secondo azionista era Goldman Sachs. Persino la Banca Europea per gli Investimenti, attraverso il Fondo europeo per gli investimenti strategici, aveva elargito a Northvolt un prestito da 298 milioni di euro.
A ricordare il carattere strategico intravisto nella società, bisogna sottolineare che i fondi dati dalla UE erano parte del piano che avrebbe dovuto portare a una produzione sul Vecchio Continente di 790 GWh di batterie entro il 2030. Ciò equivale all’assemblaggio di 15 milioni di veicoli elettrici, per non dipendere dai cinesi.
Oggi Northvolt si presenta alle autorità statunitensi con 5,8 miliardi di debito, 30 milioni di liquidità, e la necessità – resa pubblica in una nota – di raccogliere ulteriori 1,2 miliardi di dollari per garantire la continuità aziendale, la quale, tuttavia, è stata assicurata. Seppur, com’è ovvio, con una profonda revisione del piano industriale.
Le difficoltà su questo piano sono esplose velocemente quest’anno. BMW ha cancellato un contratto da 2 miliardi di euro firmato nel 2020, per l’incapacità dell’azienda di fornire i volumi concordati: lo stabilimento di Skelleftea, il principale, ha prodotto meno dell’1% della sua capacità teorica.
A nulla è servita la garanzia di credito concessa dal governo svedese di ben 1,5 miliardi per tentare la sua espansione e sfruttare le economie di scala. E si attende di capire se ciò influenzerà l’apertura della gigafactory che Northvolt ha promesso alla Germania sul suo territorio, e per cui aveva già ricevuto 902 milioni di aiuti di stato.
Da Bruxelles avevano sottolineato come, in questo caso, l’operazione potesse essere approvata per evitare il dirottamento degli investimenti verso gli Stati Uniti. Insomma un sussidio “distorsivo della dinamica di mercato”, ovvero quella pratica per cui la UE ha deciso di imporre dazi sulle auto cinesi.
Ma nonostante il sostegno e gli investimenti di colossi occidentali, nonostante l’enorme mole di fondi pubblici, Northvolt è fallita. E soprattutto, è fallita la sua prospettiva di produzione, e ciò fa interrogare se davvero sia colpa della competizione del Dragone.
Non bisogna fraintendere: Tom Johnstone, presidente ad interim del Consiglio di amministrazione ha detto chiaramente che le imprese cinesi sono impareggiabili quando si tratta di volumi ed esperienza nella produzione di celle per batterie. “È il mercato, bellezza”, parafrasando una famosa frase di Humphrey Bogart.
Ma in sostanza appaiono evidenti sia gli errori della dirigenza, sia l’incapacità delle autorità europee di costruire un quadro che possa tradurre in solide filiere i proclami sulla transizione all’elettrico. Mentre emerge questo dato di fatto, però, i politici di Bruxelles spingono sul pedale della guerra commerciale.
Una visione miope e anche pericolosa, per l’ambiente tanto quanto per l’occupazione europea. La cooperazione e un rapporto win-win, piuttosto che il braccio di ferro secondo la logica della competizione, si palesano come alternative di gran lunga più funzionali.
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