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30/11/2024

Il genocidio c’è, anche se non piace a Liliana Segre

Ne avremmo fatto volentieri a meno, perché sappiamo bene che confutare Liliana Segre su un tema come la definizione di “genocidio” è, mediaticamente, come tuffarsi all’Inferno sperando di uscirne senza scottature.

La senatrice è stata da bambina una dei milioni di ebrei mandati nei campi di sterminio – Auschwitz, nel suo caso – uscendone viva ma certamente segnata per sempre. L’autorevolezza della sua testimonianza in proposito è, per qualunque essere umano, giustamente indiscutibile.

Ma il testo che ha consegnato al Corriere della Sera del 29 novembre è tutt’altra cosa. È un tentativo – non solo suo, ma dell’intero arco sionista – di mettere una lapide sulla questione (tra l’altro all’esame della Corte internazionale di Giustizia, che l’ha assunta giudicando l’accusa “plausibile”) e consegnare alla riprovazione universale quanti, altrettanto giustamente, insistono nel chiamare col suo nome quel che Israele sta facendo a Gaza: genocidio.

Dunque non può esser fatto passare sotto silenzio, girandosi dall’altra parte. La senatrice scrive infatti:
“Nella drammatica situazione di Gaza non ricorre nessuno dei due caratteri tipici dei principali genocidi generalmente riconosciuti come tali mentre sono piuttosto evidenti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi sia da Hamas e dalla Jihad, sia dall’esercito israeliano.

I caratteri tipici dei genocidi sono essenzialmente due: uno è la pianificazione della eliminazione, almeno nelle intenzioni completa, dell’etnia o del gruppo sociale oggetto della campagna genocidaria, l’altro è l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra.

Anche i genocidi commessi durante le due guerre mondiali (armeni, ebrei, rom e sinti) non ebbero la guerra né come causa né come scopo, anzi furono eseguiti sottraendo uomini e mezzi allo sforzo bellico.”
Tutto chiaro? Sottolineiamo i due punti:
a) la “programmata e tentata eliminazione completa di un gruppo sociale o di un’etnia” implicherebbe un impegno “industriale” e logistico piuttosto intenso, tanto da
b) perseguire con molta determinazione questo obiettivo, al punto da “sottrarre uomini e mezzi allo sforzo bellico” (e quindi essere “disfunzionale” rispetto ad una guerra in corso).

Stabiliti questi “punti caratteristici” la conclusione è obbligata. Solo i nazisti tedeschi (con la complicità servile dei fascisti italiani, di cui sopravvive ancora “la fiamma” in qualche simbolo) concepirono un piano così infame e disumano, utilizzando inoltre risorse che sarebbe state più utili altrove.

Quindi solo quello sugli ebrei potrebbe essere propriamente chiamato “genocidio” (gli altri esempi citati – in cui la “programmazione” è quanto meno problematica, se non del tutto assente – sembrano decisamente una concessione al mainstream...).

Tutti gli altri massacri, compresa l’azione dell’Idf a Gaza e le azioni di Hamas e Jihad possono invece essere classificate – secondo Liliana Segre – come semplici (si fa per dire) “crimini di guerra”.

Cosa c’è di sbagliato?

Una sola cosa: quei “due punti” non sono la definizione di “genocidio” riconosciuta dalla comunità internazionale al completo, riunita nell’Onu, fin dal 1948. Non sono insomma per niente “generalmente riconosciuti”, ma anche molto diversi da quelli approvati con Convenzione internazionale.

Liliana Segre, da sola o supportata da qualche consulente storico-legale, ha insomma prodotto una definizione di parte e arbitraria di un crimine universale, che sembra avere l’unico scopo – esplicito, nell’articolo – di inibire l’uso pubblico della parola “genocidio” in riferimento alle azioni di Israele a Gaza da oltre un anno.

Ognuno può autonomamente dare un giudizio sull’operazione “linguistica” – il nostro è ovviamente pessimo – consultando la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.

Nella quale possiamo leggere, all’Articolo I, “Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire.”

Le “parti contraenti” sono ovviamente gli Stati che hanno sottoscritto questa Convenzione. Tra i quali c’è anche Israele, che ha presentato allora alcune “riserve e dichiarazioni”, peraltro senza effetti pratici. Dunque, perché inventarsi una diversa tipizzazione del crimine di genocidio?

Ma il punto fondamentale è che si può parlare di “genocidio” sia in pace che in guerra (“sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra”), demolendo così quasi totalmente il “secondo punto” esposto/posto da Segre (“l’assenza di rapporto funzionale con una guerra”).

A voler essere precisi, sembra proprio che per la senatrice questo punto sia funzionale – in questo caso, sì – alla possibilità di escludere dal novero dei possibili genocidi tutti i massacri, ancorché di dimensioni colossali, commessi durante una guerra, come conseguenza diretta e intenzionale di un certo tipo di operazioni militari. A Gaza, per esempio...

La motivazione giuridica da lei proposta, infatti, sembra traducibile come “ci sono stati tantissimi morti, è vero, molti dei quali completamente immotivati dal punto di vista militare” (i civili, le donne, i bambini), “ma in guerra succede sempre...”.

Si potrebbe anche dire, secondo questo argomentare: se non ci sono i campi di sterminio con le camere a gas, allora “non c’è genocidio”, anche se all’atto pratico vengono uccisi quasi tutti.

Andiamo avanti, perché l’Articolo II della Convenzione espone con estrema chiarezza quali sono i “cinque punti” – cinque, non “due” – che consentono di chiamare genocidio una serie di “pratiche” e perseguire per questo chiunque ne metta in atto anche soltanto una.
“Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

a) uccisione di membri del gruppo;

b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;

c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;

d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;

e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.
Che i palestinesi di ogni età, sesso, condizione sociale, religione (tra loro sono molti anche i cristiani, ricordiamo solo noi atei), vengano uccisi “all’ingrosso”, sia tramite bombardamenti che con i cecchini, è così ampiamente documentato che risulta difficile persino far finta di niente (“crimini di guerra”, direbbe però Segre).

Che le “lesioni gravi all’integrità fisica e mentale di membri del gruppo” siano prassi quotidiana, sia a Gaza che in Cisgiordania, per non dire delle prigioni israeliane… altrettanto.

Anche il “sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale” è testimoniato ogni giorno da medici internazionali, agenzie umanitarie dell’Onu, ong, chiunque... Se non puoi mangiare è certo che morirai, anche quando non ti sparo. E che questa sia l’intenzione di Israele che motiva molte delle sue azioni sui gazawi, tra cui gli impedimenti frapposti agli aiuti umanitari, è ammesso pubblicamente anche da generali e ministri di Tel Aviv.

Difficile anche confutare che l’Idf stia cercando di utilizzare la fame come arma di guerra, per costringere i palestinesi a lasciare definitivamente la loro terra (ci vivono da 5.000 anni, anche se non gliel’ha promessa “dio attraverso Abramo”).

L’unico crimine genocidario che Israele non ha commesso è probabilmente il quinto (“trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”), ma qui sembra incidere molto la “trasmissione matrilineare” dell’appartenenza al popolo ebraico e il per nulla nascosto razzismo nei confronti degli “arabi”, a prescindere dall’età.

L’elenco delle caratteristiche essenziali di un genocidio è breve, semplice, facile da memorizzare, privo di arzigogoli e commi da leguleio, condiviso da quasi 80 anni da tutti i paesi del mondo. Ripetiamo: perché, dunque, la senatrice Segre – e i pessimi redattori del Corriere, che “corroborano” l’articolo con considerazioni acritiche di supporto – ha sentito il bisogno di inventare una definizione diversa?

Un crimine così grave, ignobile, inumano, orrendo, non è un “affare privato”. Né dei singoli esseri umani, né di singoli popoli, e neanche di gruppi di popoli. La definizione e il consenso può essere solo universale. Può e deve essere riconoscibile per le vittime e i colpevoli, i testimoni e i giudici. Deve valere per il passato, il presente e il futuro.

Non può essere lasciato alla “libera opinione”, perché è chiaro che qualsiasi genocida – presente o futuro – tenderà a darne una definizione che lo esclude, che ne minimizza la colpevolezza. O magari ne esalta la necessità (tipo “Israele ha diritto di difendersi”… anche col genocidio dei palestinesi).

La definizione data dall’Onu nel 1948 è oltretutto una definizione “a caldo”, sotto l’enorme impressione della scoperta dei campi di sterminio. E proprio di Auschwitz, in primo luogo. È insomma una definizione che risente molto – e giustamente – dell’orrore suscitato dall’Olocausto in tutta l’umanità.

Ma neanche una vittima dell’Olocausto può arrogarsi il diritto di non riconoscere i criteri fondamentali per riconoscere gli Olocausti del presente e del futuro. Un grande studioso del tema, correligionario ed israeliano, ne ha tratto una conclusione decisamente più onesta. Opposta alla sua.

Neanche una vittima dell’Olocausto può insomma pensare di sminuire o difendere il genocidio cui stiamo assistendo in diretta.

Il che lo rende – se possibile – ancora più grave, perché nessuno dei responsabili o dei testimoni passivi, a partire ovviamente dall’attuale governo e dallo stato maggiore di Israele fino ad arrivare ai nostri “giornalisti”, potrà dire “non sapevo” oppure “ho solo obbedito agli ordini”.

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