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11/06/2015

Da Rumsfeld a Obama: l'ipocrisia Usa che ha distrutto l'Iraq

L’adagio “meglio tardi che mai” probabilmente non consolerà il popolo iracheno. Non consolerà le famiglie che hanno perso i propri cari durante l’invasione Usa, non consolerà uno Stato fatto a pezzi, non consolerà chi ha visto esplodere i settarismi interni al paese. Né consolerà quei tre milioni di iracheni costretti alla fuga dallo Stato Islamico che ha, trovato in un paese distrutto, il migliore dei terreni per la propria avanzata.

È difficile che le dichiarazioni rilasciate ieri dall’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld trovino spazio nei pensieri del popolo iracheno. Il burattinaio dell’invasione dell’Iraq, il braccio destro dell’allora presidente Bush, in un’intervista al Times ha ammesso l’errore. Non il suo, a quanto pare, ma quello dell’inquilino della Casa Bianca: “L’idea di poter portare la democrazia in Iraq mi sembrò irrealistica. Ne fui preoccupato fin dalla prima volta che sentii quelle parole. Non sono uno di quelli che pensa che un particolare modello di democrazia sia appropriato per altri paesi in ogni momento della loro storia”.

Un capolavoro di ipocrisia spicciola: la colpa non fu mia, ma di Bush. Ma soprattutto a stupire è l’insistenza su quell’obiettivo che il mondo nel 2003 capì subito essere la copertura a ben altri disegni: portare la democrazia in Iraq. Una democrazia fatta di 500mila morti dal 2003 al 2013 (secondo dati dell’associazione britannica “Iraqi Body Count”), dalla distruzione completa delle infrastrutture e delle istituzioni statali, dall’esplosione dei settarismi interni, dalla corruzione dilagante e, ora, dall’avanzata del califfo.

Tutti risultati dell’invasione Usa in Iraq. E oggi, a 12 anni di distanza dall’inizio della seconda guerra del Golfo e a 4 dal ritiro dei soldati statunitensi dal paese, sono ancora gli errori di strategia della Casa Bianca a impedire al paese di salvarsi. Lo ha ammesso, parzialmente, il presidente Obama ieri durante la conferenza finale del G7 in Germania: “Non abbiamo ancora una strategia completa perché questa richiede l’impegno da parte degli iracheni”. Insomma, noi non sappiamo che fare ma la responsabilità è del governo iracheno.

In particolare Obama ha puntato il dito contro l’inefficace addestramento delle truppe irachene, frutto dello smantellamento di quel che fu l’esercito di Saddam Hussein. E se per Ash Carter, segretario alla Difesa Usa, l’inettitudine dell’esercito iracheno è stata la responsabile della caduta in mano all’Isis di Ramadi a metà maggio, sono in pochi quelli che dentro le stanze dei bottoni statunitensi fanno ammenda. Obama si è limitato a dire che Washington preparerà nuovi piani per “avere truppe irachene addestrate, fresche, ben equipaggiate e concentrate”. E che tenterà di allargarsi alla comunità sunnita che, nonostante i proclami di Usa e Iraq, continua a non essere inclusa nell’ampio fronte interno anti-Isis.

Da parte sua il premier iracheno al-Abadi, anche lui presente al meeting tedesco, ha di nuovo chiesto armi e supporto militare. La risposta di Obama? Includi i sunniti. Un’impresa non facile dopo anni di marginalizzazione e la spaccatura interna alla comunità, parte della quale non disdegna la venuta dell’Isis (visto come lo strumento per far cadere il governo sciita) e parte della quale, al contrario, si è armata da sola per resistere all’offensiva jihadista.

Eppure fu proprio l’amministrazione di Washington ad imporre il governo Maliki – il predecessore di al-Abadi, divisivo e accentratore – e ad epurare della componente sunnita e pro-Saddam l’esercito e le istituzioni.

Di chi sia la colpa, resta il fatto che è trascorso un anno dalla presa di Mosul da parte dell’Isis, partito dalla seconda città irachena per occupare un terzo dell’Iraq e quasi metà della Siria. E dopo un anno nessuno è in grado di disegnare una strategia militare e politica contro un gruppo che – secondo la Cia – è composto da 30mila uomini? Una strategia non esiste perché l’approccio Usa si fonda sull’utilizzo dei soli raid aerei, non conosce più la realtà sul terreno (soprattutto in Siria, dove non possiede pezze d’appoggio, gruppi alleati forti che sappiano fornire informazioni e mettere in piedi azioni militari concrete), si ostina a chiudere al governo di Damasco e a rifiutare una qualsivolgia forma di collaborazione diretta con chi i risultati li porta a casa, l’Iran.

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